Serve un patto di unità nazionale
postato il 22 Maggio 2010
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Pier Ferdinando Casini chiude i lavori del seminario organizzato dalla Fondazione liberal-popolare a Todi lanciando un appello: “Serve un patto per l’Italia tra opposizione e maggioranza che ricalchi le migliori tradizioni, perché il Paese va a rotoli”. Alla maggioranza e al governo dice: “Andate in Parlamento dite che abbiamo bisogno di voi, non dico dell’Udc, ma di tutte le opposizioni. Poi starà a coloro che sono chiamati in causa dare senso alla propria risposta e assumersi le proprie responsabilità”.
Poi si rivolge direttamente al presidente del Consiglio: “È lui che ha vinto le elezioni e dunque vada in tv a dire che c’è una emergenza, che la casa brucia e che chi ha buona volontà e responsabilità deve evitare di fare come i polli di Renzo che si beccano a vicenda mentre il paese va a rotoli”. In seguito un riferimento al Ddl intercettazioni: “Fermatevi perché sarebbe un grande errore, perché nessuno pensa che fate questo ddl per tutelare la privacy ma per coprire il malaffare. E questo non è nelle vostre intenzioni, spero”.
Infine, se il destino dello scudo crociato nel nuovo partito in cantiere sembra ancora incerto, più netta appare l’intenzione di togliere il suo nome: “Sono contrario ai partiti personali, quindi anche al mio nome nel simbolo. Siamo alla ricerca di un simbolo e del nome, e vogliamo farlo senza alcun riferimento alle persone perché le cose che rimangono non sono legate alle persone. Le persone passano, le tradizioni politiche ideali restano e si radicano nel paese se sono tali”.
L’intervento integrale di Pier Ferdinando Casini a Todi
Grazie, grazie a Ferdinando Adornato.
Credo di interpretare i sentimenti di tutti nel dire grazie a Ferdinando perché effettivamente questa di Todi è ed è stata anche quest’anno un’occasione importante. Un’occasione in cui innanzitutto abbiamo avuto modo di parlare, di confrontarci, a fronte di un Paese profondamente disabituato a farlo: noi dell’UDC per fortuna non abbiamo perso questa abitudine, ma noi uomini politici, noi, uomini e donne di questo Paese, da troppo tempo non discutiamo più di politica.
Qui a Todi invece, abbiamo avuto modo di ascoltare – grazie Antonio De Poli a tutti voi che avete gestito il dibattito – più di 110 interventi. Debbo dire anche che, non tutti, ma una novantina personalmente li ho ascoltati e credo che questo sia un segnale di attenzione e serietà reciproca che ci siamo dati tutti insieme. Questa mattina mi sono fatto due grasse risate leggendo i giornali che hanno descritto una terribile spaccatura tra di noi, ma devo dire che anche i giornalisti soffrono del medesimo problema: così come noi siamo disabituati a discutere, loro non sono più abituati a sentire discussioni politiche, discussioni fatte così, serenamente, apertamente.
Sia Tassone che Pezzotta ci hanno giustamente richiamato a questo: al grande valore che in una missione che sta per partire come la nostra non possiamo permetterci di trascurare. Tutti noi dobbiamo in qualche modo coltivare il valore della ricchezza delle opinioni anche perché, amici, qui non c’è niente di prefabbricato, qui non c’è niente di deciso, qui fino ad oggi non c’era nemmeno niente di già discusso preventivamente. Per cui, mi ripeto, io lo ritengo uno straordinario valore, un valore importante, da coltivare.
E mi è piaciuto molto il sentimento che ha manifestato Lorenzo Cesa con la sua commozione di ieri mattina: perché dietro quel sentimento non c’è solo una personalità straordinaria come quella di Lorenzo che – l’applauso è indicativo – voi amate perché conoscete; anzi vorrei dire che probabilmente siamo in pochi a poter dire di conoscerlo così profondamente. Ma la realtà è che dietro le sue parole, come dietro quelle della stragrande maggioranza degli interventi, non c’era solo questa proiezione della personalità di chi ha parlato, di ciò in cui crede, dei sacrifici che fa per il partito, ma c’era anche il senso di un cammino, di un modo di stare assieme.
Ecco perché ho sorriso stamattina, perché solo chi è disabituato ad ascoltare la politica e non ci conosce può pensare che ci siano delle spaccature tra noi: ci sono opinioni. E se io oggi vi dovessi dire qual è la mia opinione dovrei dire molto probabilmente: “boh!”.
Dunque cerco di collocarmi anch’io tra queste presunte “spaccature”: nel senso che non ho un’idea assoluta, precostituita; vorrei piuttosto formarmi un’idea, vorrei che questo tragitto, che questo percorso, che questa nave che oggi va nei flutti tormentati della politica italiana, mi consentisse di radicare dentro di me un’opinione più convinta di quella che ho al momento. A questo deve servire ad ognuno di noi esplicitare il proprio pensiero ed ascoltare il dibattito di questi tre giorni e dei giorni che verranno.
Per ora comunque, consentitemi almeno questo, su una cosa ho già un’opinione, questa sì convintissima: io penso che un partito debba coltivare la propria memoria ma che la memoria non sia sufficiente a costruire un partito, per cui penso che prima di affrontare ogni altra questione si debba prendere una decisione preliminare. E questa sì, è nella mia disponibilità: è una decisione che spetta solo a me ed ora intendo comunicarla, perché ormai l’ho presa e almeno su questo non vorrei discutere. Vi prego di scusarmi, è l’unico strappo, ma penso di potermelo concedere: io sono contrario ai partiti personali per cui sono contrario a che il mio nome sia inserito sul simbolo del partito e credo che se in una fase di emergenza noi abbiamo ascoltato i sondaggi e gli esperti in questo campo che ci dicevano: “Non levate il nome di Casini”, voglio dire anche, amici, che a volte la forma è sostanza.
Il simbolo e il nome che stiamo cercando e che dovranno essere i più adatti ad essere ben capiti e interpretati dalla gente, capaci di proiettarsi nel passato ma soprattutto nel futuro, dovranno rappresentare la forma e dunque la sostanza di un percorso da compiere senza alcun riferimento alle persone: perché queste sono le avventure che rimangono nel tempo. Ho sentito nel dibattito di questi giorni fare tanto riferimento alla Democrazia Cristiana ad esempio, ma avremmo potuto fare riferimento anche, caro Giorgio La Malfa, al Partito Repubblicano, o ad altre storie straordinarie dell’Italia repubblicana che sono durate 50-60 anni. Storie dunque molto serie, non banali.
Le cose che rimangono non sono legate alle persone, perché le persone passano. Le tradizioni politiche ideali rimangono, e si radicano nel Paese se sono tali.
Allora, su questo primo punto diciamo che siamo già in totale sintonia e io credo pure che non sia banale che noi, anziché affidarci alle regole pubblicitarie, ci impegnamo nella ricerca di un coinvolgimento forte, proprio perché siamo consapevoli che questa avventura può finire bene, ma nessuno ci potrebbe garantire un lieto fine, se ci fosse un coinvolgimento diverso e inferiore.
Naturalmente ho fatto riferimento a quanto ieri hanno detto Pezzotta, Tassone e Francesco D’Onofrio e voglio mettermi sulla loro lunghezza d’onda. Perché giustamente loro ci hanno detto: “Bisogna discutere”. Ed io sono così convinto che bisogna discutere, che la brutalità con cui mi esprimerò questa mattina voi dovrete ritenerla figlia proprio di questa passione e di questo coinvolgimento. D’altronde se io apprezzo il fatto che gli altri siano stati sinceri devo essere altrettanto sincero se no facciamo una discussione asimmetrica e soprattutto poco rispettosa di noi stessi.
Naturalmente la mia sincerità può darsi anche che esprima un pensiero costruito su degli errori ma quello che dico e dirò è quello che sento, che avverto dal profondo.
Vedete – mi sembra lo abbia detto ieri il presidente Buttiglione – noi abbiamo una politica della democrazia rappresentativa, nel nostro Paese, che è in crisi: è in crisi innanzitutto perché costruita su delle suggestioni, su degli spot. La politica italiana ormai è una gigantesca finzione collettiva, e giusto per fare alcuni esempi, tra gli ultimi, ne cito due ma potrei elencarne centinaia, a partire dal taglio simbolico del 5% agli stipendi dei parlamentari, per continuare con il ministro Calderoli che fa un falò delle leggi; una sorta di immagine dannunziana di questo Calderoli con le leggi a fuoco alle sue spalle, senza che si sia capito cosa bruciasse, quali leggi fossero…
Tutto questo è servito a trasmettere una suggestione.
Ma la crisi della democrazia rappresentativa in Italia, noi ne dobbiamo prendere atto, nasce su una semina che è stata fatta negli anni di Tangentopoli, negli anni della fine della Democrazia Cristiana e della cosiddetta Prima Repubblica e che in questi vent’anni si è progressivamente sedimentata in forme diverse continuando in modo non meno insidioso; cioè, noi abbiamo dato o continuato a dare in questi ultimi vent’anni, in forme diverse ma forse anche più pericolose, l’immagine della politica inutile, del Parlamento inutile, dei parlamentari inutili – al punto che forse basterebbe che a votare nelle Camere fosse un capogruppo. E tutto questo è stato in gran parte funzionale a creare l’aspettativa nel Paese che di fronte a tanta inutilità, l’unica cosa davvero utile possa essere l’evocazione di un “uomo forte”, l’evocazione di un uomo che risolve, che decide, che si erge al di sopra della politica. E se pensate che questa rappresentazione sia la rappresentazione di Berlusconi, dovete sapere che è vero solo in parte, perché in realtà si tratta della rappresentazione di tutti quei soggetti che entrano attraverso questa metafora nell’agone della politica.
Di Pietro che si fa fotografare sul trattore in campagna a petto nudo, Bossi che sostituisce alla sua virilità diciamo, di ieri, la sua dimensione umana che non è meno impegnativa dopo la malattia, non sono sinonimi del medesimo concetto? Né certo la sinistra può dire di aver contrastato questa metafora. Anzi, la sinistra ha cercato l’uomo forte che potesse in qualche modo contrastare l’uomo forte della destra senza capire che su quel terreno si autocondanna a perdere sempre, perché tra l’imitazione e l’originale non si può che scegliere l’originale. Ma questo terreno è il terreno che noi abbiamo seminato in questi anni. E’ il terreno della deriva antipolitica, è il terreno della delegittimazione della Prima repubblica che non coglie gli aspetti importanti di quella stagione politica, è la deriva populista, è una deriva verso cui la sinistra ha contribuito a condurci non solo ponendosi su quel terreno ma dando uno straordinario supporto teorico anche grazie agli opinionisti che da vengono dal suo mondo.
Santoro, la sua liquidazione di cui si parla in questi giorni, l’ha costruita esattamente su questo terreno. La sua liquidazione milionaria, l’ha potuta chiedere grazie alla semina che ha fatto su questo terreno, perché è stato insidioso non meno di altri nel costruire l’idea che la politica fosse fatta da scansafatiche o da ladri e che in qualche modo ci fosse bisogno di una palingenesi generale. E ha dato l’immagine che lui e poi Travaglio, Di Pietro, Grillo ne avrebbero potuto essere gli interpreti, i soli autorizzati a guidarci verso una nuova fase di moralizzazione. E intanto si è fatto liquidare…
Sempre in questo senso mi permetterei di correggere un concetto che ho sentito enunciare qui poco fa. Stamattina Antonio De Poli ha detto una cosa importante. Ha detto: “Non continuiamo a leggere i fenomeni politici come la Lega, con la stessa interpretazione di dieci anni fa”. Vedi Antonio, per molti aspetti hai ragione. Oggi la Lega è una cosa diversa dall’immagine un po’ caricaturale che noi vogliamo darle e che a volte le diamo. Però c’è un fatto: la Lega fotografa questa realtà della crisi della politica, dell’antipolitica, di cui parlavo poco fa, la interpreta, forse ne dà rappresentanza, ma non costruisce una risposta politica ai problemi che denuncia, su questo non c’è dubbio, non c’è alcun dubbio. La Lega denuncia Roma ladrona e gli enti inutili, ma si guarda bene dall’abolire le provincie; la Lega denuncia che ci sono troppi parassiti ma noi abbiamo oggi 25.000 amministratori locali che sono nelle società di derivazione comunali, provinciali e regionali, mentre la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, come ricorda sempre Gianluca Galletti, è bloccata dal fatto che chi in qualche modo governa gli enti locali territoriali del nord non ci pensa nemmeno a mettere in discussione la sua rendita di posizione. La Lega, nel suo radicamento al nord, è molto più simile al partito comunista che abbiamo visto negli anni ‘60 o ‘70 di quanto lo sia alla Democrazia Cristiana, cioè ha una forma di radicamento organizzativo accompagnato da un’occupazione istituzionale.
Aggiungo, amici, sempre con riferimento alla crisi della politica, che la delegittimazione delle istituzioni, del Parlamento, trova terreno fertile sul meccanismo di rappresentanza e di selezione della classe parlamentare: lo ha detto ieri Adriana Poli Bortone, che voglio ringraziare. Debbo dire che questa è una grande questione: so benissimo che difficilmente questa legge elettorale cambierà, ma noi dobbiamo assolutamente continuare una battaglia che è di principio. Perché il Parlamento è delegittimato? Perché nel Parlamento di oggi senatori e deputati non avvertono più alcun bisogno di fare le battaglie che facevamo ai tempi in cui io sono entrato in Parlamento: quando un parlamentare deve difendere un territorio e a questo territorio deve rispondere, non vota certe cose; ma quando il parlamentare il sabato e la domenica si gode il week end perché non ha più legami con il territorio, l’unico problema che ha è quello di essere amico del leader di partito Tizio o Caio che l’ha fatto eleggere, e a quel punto è chiaro può votare tutto…
Ma questo nuovo tipo di parlamentare di oggi è autoreferenziale e contribuisce a dare l’idea di un Parlamento che naviga non sulle stesse acque della gente, sulle acque del consenso popolare. Ci ritroviamo così un Parlamento delegittimato nella misura in cui è delegittimato come fonte di nomina.
E questo ci ricollega al rischio di cui parlavo prima dell’evocazione dell’uomo solo al comando. E’ l’altra grande questione cui facevo riferimento. La leadership, cari amici, in tutti i Paesi è sempre il prodotto di una scelta collettiva, ma non mi riferisco tanto al fatto che viene scelta dalla maggioranza perché anche i leader che noi abbiamo sono scelti dalla maggioranza, ma nel senso che negli altri Paesi viene esercitata con una sorta di senso di una missione comune: non è isolamento, non è l’uomo solo al comando, l’evocazione di una leadership. Non vado oltre nella spiegazione perché credo che abbiamo tutti ben presente di cosa sto parlando. Dunque stiamo attenti. Enzo Carra ieri ha detto una cosa che giudico molto intelligente. Ha detto: “Ragazzi, noi esaminiamo un Paese che è governato da Berlusconi, esaminiamo un Paese in cui il berlusconismo, in termini elettorali, ha vinto; ma è anche lo stesso berlusconismo a rispecchiarsi nel Paese”. E’ quello che ho detto prima, quando ho cercato di spiegare che se ne vede il riflesso addirittura nella sinistra.
Non facciamo l’errore di pensare che il Paese rappresenti i canoni che secondo noi sarebbero i più consoni. Il Paese è cambiato, il Paese che sta votando in questo modo – o che sta non-votando – è figlio di un radicamento e di una sedimentazione sociale, culturale, di stili di vita, di comportamenti, profondamente diversi da quelli del Paese di 40 anni fa; qui non si tratta solo di capire che con la nostalgia non si governa – questo è fin troppo ovvio; i giovani che oggi hanno 20 anni non sanno nemmeno chi era De Gasperi, e anche questo è comprensibile – qui si tratta di capire che le famiglie italiane, che i giovani italiani, nella loro solitudine di una teledipendenza che coltivano il più delle volte con orripilanti programmi, sono figli di uno sradicamento dei valori e di una degenerazione morale e sociale che si è sedimentata negli ultimi 20-30 anni e che ha prodotto un mutamento culturale profondo. Per cui se non abbiamo presente questo è chiaro che finiamo col costruire delle ricette che in teoria potrebbero anche essere giuste ed essere applicate, ma che in pratica rimangono solo sulla carta, perché presumiamo in qualche modo che la gente capisca certe nostre considerazioni che invece in realtà non è predisposta a capire.
Proviamo ad allargare l’orizzonte alla crisi economica, alla crisi internazionale. Pensiamo anche a cose che potremmo ritenere secondarie per il nostro dibattito: il vulcano che blocca metà mondo impedendo i voli, il petrolio in mare, tutte le questioni ambientali, le variazioni climatiche, la cellula artificiale – a proposito di quest’ultimo tema concedetemi un piccolo inciso per sottolineare come la Binetti, che si occupa con tanto impegno di questi temi etici fondamentali, secondo me lo faccia con un approccio molto più laico di quello che a volte viene fatto apparire dalla rappresentazione di comodo dei giornali.
Certamente sono questioni che interrogano profondamente ciascuno di noi perché riguardano la vita, la morte, il futuro, la possibilità di manipolazione genetica, il far west legislativo. Sono tutte grandi questioni, ma vorrei dire che ancora al di sopra di tutto questo, c’è qualcosa di molto più profondo, la crisi a cui facevo riferimento prima. Ne abbiamo una riprova se guardiamo in controluce anche nella Chiesa, dove grazie all’azione del Papa la stessa Chiesa sta reagendo con forza a una deriva morale che rischia di travolgerla.
In generale, dunque, noi ci troviamo a fare i conti con un abbassamento del tasso etico che è figlio del tipo di società che si è costruita in questi anni. E questo non riguarda solo noi italiani: la finanza creativa globale ha dato questi risultati, le grandi società internazionali finanziarie hanno prodotto questa modalità di comportamenti, questa etica; alcuni Stati che hanno i bilanci falsificati: perché di questo si sta parlando in riferimento al caso della Grecia. Dunque c’è una difficoltà complessiva dell’Occidente che in gran parte è figlia dei comportamenti e dell’evoluzione sociale, etica e morale che si è prodotta. E naturalmente non dimentichiamo il ruolo che hanno avuto i cosiddetti mercatisti, quelli che esaltavano il mercato come condizione che avrebbe consentito di risolvere le sfide di sempre; molti di loro oggi sono gli stessi che riscoprono altrettanto velocemente lo statalismo.
Ecco, amici, per me noi non dobbiamo essere né mercatisti né statalisti: dobbiamo trovare un equilibrio tra mercato e solidarietà, dobbiamo trovare un equilibrio anche nella manovra finanziaria che il Parlamento dovrà discutere tra poco, tra rigore ed equità; non dobbiamo arruolarci nella fila di coloro che procedono per slogan, pronti a passare da uno slogan di un tipo a uno slogan esattamente opposto non appena la politica degli spot lo richiede. No, questa politica dello spot noi dobbiamo al contrario denunciarla con forza, perché è una politica che non risolve i problemi.
La crisi che sta attraversando l’Europa è stata provocata, caro Rocco Buttiglione, dai dazi doganali che non abbiamo messo e che qualcuno avrebbe voluto introdurre, dunque dal non avere innalzato barriere nazionali ancora più alte, o si è prodotta al contrario sul terreno che noi abbiamo denunciato, per la mancata realizzazione degli Stati Uniti d’Europa di cui giustamente tu parli?
Questa è la domanda: perché si è prodotta la crisi dell’Europa? Perché, come ha detto giustamente l’altro giorno La Malfa, di solito la moneta precede lo Stato; noi invece abbiamo adottato la moneta prima di una seria politica economica, finanziaria, di governo europeo e oggi ci ritroviamo a fare i conti con la crisi dell’euro e stiamo cominciando a capire che la crisi non si supera se non c’è un maggior coordinamento, anche con una perdita di sovranità dei singoli Stati: perché è inevitabile che se c’è una moneta unica deve esserci una perdita di sovranità nel determinare le politiche economiche e finanziarie o magari quelle previdenziali. Altrimenti, scusate, ma come può un tedesco che va in pensione a 67 anni accettare che in Grecia ci si vada a 53? E’ chiaro che situazioni simili non sono più accettabili perché si creano delle discrasie, delle disparità che incrinano profondamente tutto il grande progetto europeo.
Altra questione fondamentale che deve essere al centro della nostra azione politica: il grande tema del patto tra le generazioni. Quello che noi stiamo violando oggi è proprio il rapporto con le generazioni future; quando non ci poniamo il problema del debito, del rigore, del sistema previdenziale, noi dobbiamo ricordarci che stiamo scaricando sui nostri figli gli oneri che non vogliamo assumerci, e questo è profondamente iniquo. E questa è una realtà da denunciare, che merita una convinta campagna politica. Si parla tanto di federalismo, ad esempio, ma quando si realizza il federalismo demaniale come lo stiamo facendo noi, quando si trasferiscono dei beni, che sono di tutti, a una parte del Paese, magari per essere alienati oggi, pur sapendo che quei beni sono in parte anche dei nostri figli che ora hanno 3-4 anni, allora si deve sapere che si rischia di violare un patto territoriale, rispetto all’uguaglianza dei cittadini, e un patto generazionale, rispetto al futuro dei giovani.
Vedete, quando qualcuno parla con molta superficialità della fine dell’euro, anche qualcuno tra di noi nel nostro Paese – perché è chiaro che nei circuiti internazionali economici e finanziari se ne comincia seriamente a parlare – bisogna stare attenti: il giorno in cui dovesse finire l’euro noi porremmo seriamente le condizioni per incrinare l’unità della nostra nazione, perché noi avremmo un’economia italiana a due facce; con una parte già fortemente integrata nell’area dell’euro e un’altra parte sostanzialmente fuori, alla deriva come la Grecia, come il Portogallo, come altre aree.
Allora, stiamo molto attenti e teniamo presente che la crisi europea ha delle sfaccettature in Italia pesantissime.
Ho portato qui alcuni dati, perché poi ogni tanto bisogna che riflettiamo sui dati.
Il PIL italiano nel 2009 è calato del 5,1% ma negli ultimi 20 anni è cresciuto un punto in meno all’anno rispetto alla media degli altri Paesi europei; della media, non solo rispetto alla Germania o alla Francia.
Il debito pubblico ha raggiunto nel 2010 il 118% e il rapporto deficit- PIL sale dal 2008 al 2010 dal 2,7 al 5,2%.
Il sommerso economico, dati Banca d’Italia e Istat, oscilla fra un minimo del 15% e un massimo del 16% ma secondo l’OSCE arriva al 27%. Siamo nell’ordine di 200 miliardi circa di euro all’anno.
La pressione fiscale è al 43,3% e naturalmente ora dobbiamo fare i conti con il crollo delle entrate fiscali, com’è logico visto l’andamento dell’economia.
La produzione industriale è crollata del 25% tornando ai livelli dell’82. La cassa integrazione in un anno ha fatto registrare un +386%. I lavoratori non protetti, di cui Pezzotta giustamente ci parla spesso, sono 1 milione e 600 mila.
L’export del 2009 ha subito un calo del 20,7%, mentre le importazioni sono calate del 22%. L’attrazione degli investimenti esteri è crollata del 34%.
L’elenco di enti, consorzi e società a partecipazione pubblica, dal 2008 (non governavamo noi) al 2009 è passato da 6750 a 7100 e gli amministratori da 23.400 a 25.000.
Di fronte a quest’ultimo dato in particolare avanzo una proposta, che è quella di Gianluca Galletti di ieri, e che credo che tutti noi dobbiamo fare nostra: togliamo i politici, i consiglieri comunali da queste società a partecipazione comunale, mettiamoci i funzionari comunali e risparmiamo i compensi. Questa è una cosa seria, che si può fare subito perché se il comune X nomina in un consiglio di amministrazione derivato un suo funzionario, si risparmia il gettone di presenza del consigliere comunale.
Chiusa questa parentesi che ritenevo doverosa, passo ad elencarvi ancora un po’ di dati.
Il tasso di fecondità – vorrei che tenessimo sempre presente che quando Luisa Santolini o la Binetti ci parlano di temi come questo, non si tratta di questioni estranee alla politica, si tratta proprio di politica – il tasso di fecondità totale, dicevo, si attesta sul livello di 1,4 figli per donna. Per avere un equilibrio, anche un equilibrio in ordine alla crescita, noi avremmo bisogno di un tasso di 2,2 figli per donna.
Nei primi mesi del 2010 abbiamo in Italia un totale di 4 milioni e mezzo di immigrati regolari, ovvero il 7,2% della popolazione, che versano nelle casse dell’Inps – e non voglio riaprire il capitolo della cittadinanza perché già questa mattina sono state dette delle cose molto intelligenti – 7 miliardi di euro e pagano al fisco una cifra che supera 3,2 miliardi di euro l’anno, cioè quasi 7.000 miliardi di vecchie lire.
L’11% delle famiglie si trova in condizione oggi di povertà, perché anche una quota consistente del ceto medio è scivolata oggi sotto l’area della povertà.
Al sud, la disoccupazione è al 17,8% e quella giovanile al 26,2%.
Le cifre dell’economia criminale ammontano ad un giro di affari di 100 miliardi di euro all’anno pari quasi al 7% del PIL e l’evasione fiscale, ne parlerò poi con riferimento ai provvedimenti di cui si discute in questi giorni, è calcolata in 120 miliardi di euro.
Cari amici, è chiaro che questi dati non sono frutto degli sbagli di oggi, vengono dal passato, vengono molto da lontano: ma questi dati sono preoccupanti e se noi uniamo i dati nudi e crudi dell’economia reale coi dati, diciamo, della percezione sociale, comprendiamo rapidamente come siamo giunti a registrare un astensionismo alle urne del 36%. Alle ultime elezioni, lo ripeto, abbiamo avuto un astensionismo del 36%.
I due partiti maggiori – su questo punto voglio integrare quanto detto poco fa da Michele Vietti che ha fatto il calcolo rispetto alla percentuale complessiva dei votanti, mentre io lo faccio rispetto agli aventi diritto – i due partiti PDL e PD, dicevo, hanno raccolto il consenso del 33% del corpo elettorale in termini di voti; sommati, sottolineo assieme, Pdl e Pd hanno il 33%.
Il Paese dunque, amici, questo Paese, è terribilmente diviso, diviso perfino sulle questioni più lampanti ed elementari su cui dovremmo essere tutti d’accordo. E questo è accaduto perché, a mio avviso, la semina contro la politica, la semina leghista contro alcune aree del Paese, ha scatenato in modo terribile gli uni contro gli altri ad ogni livello.
Questa sera gioca l’Inter in finale di Champion’s League: ricordo quando col mio papà vidi l’ultima finale dell’Inter tanti anni fa. Nessuno era attraversato nemmeno dal dubbio, tifavamo tutti Inter anche se il Bologna storicamente era la squadra avversaria dell’epoca. Stasera io tiferò Inter perché è una squadra italiana e mi rammarico quando sento qualcuno che si fa prendere dall’abitudine – anche tra noi – di essere contro. Mi rammarico perché sto parlando, amici, non di un elemento di anti-sportività, ma di qualcosa di assai più profondo e più radicato.
Nei giorni scorsi, si è discusso sulle Olimpiadi. E noi siamo riusciti a dividerci anche sulle Olimpiadi: cioè, questo ormai è un Paese in cui il Comitato olimpico nazionale viene travolto dalle polemiche perché sceglie una città rispetto alle altre, pur sapendo in anticipo tutti che poi sarà quasi impossibile che l’Italia ottenga concretamente l’assegnazione dei giochi olimpici del 2020. Ma intanto già ci siamo divisi e non parlo di Zaia, ma anche di una persona di grande serietà che rispetto e ammiro come il sindaco di Venezia, che si lascia andare a parole assolutamente inconsulte su una scelta che dovrebbe essere costruita esclusivamente su criteri sportivi, tecnici, metodologici, direi quasi scientifici in un certo senso.
No, noi ci dividiamo tra Venezia e Roma.
E ci dividiamo magari pure all’interno di regioni che sono assieme: come la Romagna che si vuole dividere dall’Emilia. Certo, storicamente si è sempre parlato – Ciriaco De Mita, te lo ricorderai – della Romagna. Era una sorta di cavallo di battaglia di alcuni nostalgici che durante l’epoca della Prima Repubblica, come l’onorevole Servadei e altri, avevano fondato il loro movimento per la Romagna autonoma. Ma sapevano benissimo che non sarebbero andati da nessuna parte.
Mentre noi no. Noi non solo non aboliamo le province nonostante abbiamo tutti preso l’impegno di farlo, ma probabilmente abbiamo la riserva mentale di spezzettare le Regioni che già esistono. Il tutto naturalmente all’insegna dell’alleggerimento dei costi della pubblica amministrazione, della burocrazie e chi più ne ha più ne metta.
Bene, vi vorrei dire una sola cosa a questo proposito: che da quando le Regioni hanno avuto la possibilità di avere voce in capitolo su alcune questioni le cose sono molto peggiorate – e dopo lo dirò concretamente – perché su tante materie il processo di trasferimento di competenze ha coinciso non con uno snellimento di procedure ma esattamente è andato in direzione opposta.
Dunque viviamo in un Paese diviso tra corporazioni territoriali, tra lavoratori autonomi e dipendenti, diviso tra categorie, tra magistrati contro politici e viceversa, tra giovani contro vecchi. Non a caso assistiamo ogni anno ad un esodo giovanile. E Antonio D’Amato ha detto una cosa sacrosanta poco fa: in passato se ne andavano dall’Italia i poveri, oggi invece se ne vanno i ricchi. Oggi se ne vanno i giovani dal sud al nord Italia e quelli del nord in gran parte dall’Italia all’Europa, verso l’Inghilterra, la Francia, la Germania. E non pensano di tornare, perché ritengono di poter raggiungere un livello di studi più efficace per immettersi nel
mondo del lavoro andando fuori dal nostro Paese, così come, naturalmente, stiamo parlando di una selezione costruita sul censo, non su altro: è una selezione costruita sul censo perché i ricchi possono farlo e gli altri no. Ma non è un fatto meno preoccupante l’esodo intellettuale dal Sud al Nord Italia, anzi è altrettanto serio: tanti ragazzi vanno dal sud al nord Italia e poi non tornano al sud perché si radicano lì, fanno i commercialisti, entrano nelle imprese e non tornano. Si assiste così ad uno spossessamento anche intellettuale del Mezzogiorno.
C’è il tema dei bassi investimenti. Si parla spesso del ponte sullo stretto di Messina; noi vorremmo tutti il ponte, però, parliamoci chiaro, ci sono altri problemi: c’è il problema della banda larga, c’è il problema dell’Università, c’è il problema della ricerca, c’è il problema di realizzare investimenti produttivi che ci consentano di scommettere sul nostro futuro, delle giovani generazioni, dei nostri figli. Non parlo di investimenti improduttivi, parlo di investimenti di lungo respiro che sono anche attrattivi di nuove risorse e strategici rispetto all’Italia del domani che vogliamo costruire.
Ecco allora che alla politica non possono bastare le battute di spirito; serve un nuovo spirito al nostro Paese semmai. Non basta esorcizzare la crisi con le litanie della serie “ormai la crisi è alle nostre spalle” salvo poi, ogni giorno che passa, comprendere che la crisi in realtà è davanti a noi e che bisogna fare sacrifici. Sappiamo che c’è chi non vuole usare queste parole. Ma perché dobbiamo aver paura di usare queste parole di verità e di responsabilità? Se l’Europa è vissuta in gran parte al di sopra delle proprie possibilità e davanti ai fenomeni di globalizzazione non ce la fa più, non dobbiamo avere paura di chiamare le cose col loro nome, di chiamare il Paese ai sacrifici. Certo, facciamo bene ad avere paura se non ci sentiamo moralmente legittimati a chiedere questi sacrifici: perché, parliamoci chiaro, se noi dobbiamo fare un appello al paese, basato sulla responsabilità, sulla verità, sulla richiesta di sacrifici, non possiamo poi pensare di costruire una manovra incentrandola sui condoni, per cui chi è stato più furbo non deve pagare dazio e il cittadino onesto deve in qualche modo pagare per tutti.
E’ chiaro, amici, che i conti così non possono tornare.
Ecco perché dico che non servono più le battute, ma serve un autentico spirito di riconciliazione nazionale. Vedete, il bipolarismo è in crisi ma ormai non è più una notizia. Se noi avessimo detto questa cosa qualche settimana fa forse avremmo ottenuto un titolo sui giornali. Oggi invece l’hanno detto loro, i bipolaristi stessi, hanno detto loro quello che è sotto gli occhi di tutti: che il bipartitismo non è mai nato e che il bipolarismo è profondamente in crisi, e non solo perché sono in crisi i due contenitori.
Ma sforziamoci di fare un’analisi un po’ più approfondita: del resto non possiamo limitarci a godere del fatto che noi siamo una realtà unita, mentre nel PD litigano ogni giorno tra Veltroni. Bersani e D’Alema e nel PDL litigano Berlusconi e Fini. A parte che rispetto a tutti i problemi che abbiamo di fronte queste sono sciocchezze, non è questo il punto: il punto è che il bipolarismo è entrato in crisi perché ha finito per essere un sistema che relega i due grandi partiti nel ruolo di donatori di sangue per i due partiti che succhiano la loro ruota – come si direbbe in gergo ciclistico – e direi anche lo stesso loro sangue, e che stanno determinando la politica nazionale del nostro Paese.
Di Pietro, oggi, non rappresenta solo ciò che il suo partito raccoglie in termini di percentuali di voto: è il convitato di pietra del PD. E quando sottolineo questo aspetto che è sotto gli occhi di tutti e mi sento ribattere che allora “l’Unione di Centro ha archiviato i suoi esperimenti”, mi è facile rispondere che noi non abbiamo archiviato niente! I nostri esperimenti sul territorio, laddove li abbiamo messi in piedi, nelle Marche o in Liguria o altrove, continuano e io mi auguro che continuino positivamente. Ma ciò non significa che noi non dobbiamo capire se il Partito Democratico se la sente di costruire delle scelte che lo pongano in contrasto con certi alleati e anche con certi toni chiaramente giustizialisti. Non significa che non dobbiamo chiedere al Partito Democratico se se la sente di affermare ad alta voce che la liquidazione di Santoro è uno scandalo, mentre mi pare che al contrario i suoi consiglieri di amministrazione in Rai si preoccupino immediatamente di coprire con un manto di riserbo la vicenda.
Allora, la domanda che dobbiamo porci è: il Partito Democratico è in condizione di seguire una strada coerente?
Vedete, il PD è nato con una doppia intuizione, una giusta e una sbagliata.
Quella giusta era: liberiamoci da tutti questi parassiti della politica che con il loro estremismo non ci consentono di realizzare un vero riformismo in Italia. Questa è stata la scelta di Veltroni che io ho apprezzato e che tanti dei nostri amici allora nel PD hanno sostenuto con lo stesso spirito di condivisione.
L’altra era la vocazione maggioritaria. Ora, io sulla vocazione maggioritaria, per carità di patria, non parlo più perché è talmente evidente che questa vocazione se pur fosse esistita realmente in passato sarebbe oggi talmente ridicola che credo che anche loro l’abbiano in qualche modo sepolta, chi più, chi meno. Ma questo non mi impedisce di osservare cosa fa oggi il Pd. Oggi il Pd seppellisce la vocazione maggioritaria per fare una politica all’inseguimento di tutto e di tutti, senza sviluppare così quell’elemento di riformismo che sarebbe l’unico punto su cui costruire un’alternativa.
E, allora, se basta un urlo di Di Pietro in Parlamento per costringere il Pd a cambiare atteggiamento su questioni fondamentali, poi non ci si può meravigliare se Di Pietro scavalca il suo alleato e va a chiudere l’accordo con la Lega perché magari nel frattempo lo stesso Pd sta trafficando per accordarsi col Pdl sul nome di Errani per la presidenza della Conferenza dei presidenti delle regioni: è chiaro che così dà vita a tutto un intrigo che in qualche modo delegittima ogni sua mossa. Mentre una forza che si colloca a sinistra dovrebbe avere il coraggio, se vuole davvero rappresentare un punto di riferimento, di costruire una politica riformista e chi ci sta ci sta. Anche perché, se al contrario, risulta essere figlia del giustizialismo, quella politica è condannata a rimanere minoritaria in modo permanente in Italia. Ma soprattutto, al di là che sia minoritaria o maggioritaria, è inconciliabile con ciò che noi siamo e rappresentiamo.
Il succo della questione è solo questo.
Dunque il quadro che abbiamo davanti è che in Italia si è costruito un bipolarismo che è fallito; che prospera la Lega, che prospera l’Italia dei Valori, che Berlusconi si preoccupa di tante cose, mentre io, vorrei dire, se fossi lui mi preoccuperei realmente degli schiaffi pubblici e privati che la Lega ogni giorno gli sta impartendo. E questo, sia chiaro, non è certo un problema dell’UDC, proprio questo è un problema che non ci tocca. Ma è un problema che tocca le questioni politiche del Paese, quelle che riguardano il Governo, su cui la Lega dimostra palesemente ormai, senza ritegno, dopo le ultime elezioni, di possedere una golden share. Certo la Lega fa contento Berlusconi quando lo asseconda su qualche provvedimento, ma la realtà è che sta cambiando l’asse della politica di questo Paese e la sta cambiando a mio avviso, voglio dire di più, non con la complicità di Berlusconi, ma con un Berlusconi che non è in condizione di fare altro se non assecondare questa deriva. Del resto la scelta che noi avevamo denunciato due anni fa come errata si è rivelata tale: quando tu stabilisci una alleanza omogenea, univoca e dai la golden share ad un partito che è di lotta ma che può essere anche di governo, tu ti poni nelle condizioni di farlo crescere a dismisura. La Lega è figlia della sua capacità di semina certamente, ma è figlia soprattutto della condizione politica in cui è stata aiutata a collocarsi in questa fase politica del Paese. E guardate non è un caso che la Lega sia contro ogni tentativo o idea di riconciliazione nazionale: perché se ci fosse una riconciliazione nazionale la sua golden share non servirebbe più, sarebbe finita. La sua golden share per essere esercitata ha bisogno di uno stato di mobilitazione armata permanente, di una politica che si traduce in uno scontro cannibalesco tra i poli. E questo vale per la Lega ma vale anche per Di Pietro. Questa è l’analisi politica: dopo di che io vi dico con chiarezza che noi discutiamo con tutti; lo abbiamo fatto anche sul federalismo pur confermando il nostro voto negativo. Siamo persone che in Parlamento lavorano perché ci sia serenità, per cui con serenità dialoghiamo anche con la Lega e, quando ci sono, sappiamo vedere anche gli aspetti positivi della sua azione, non ci sono solo aspetti negativi. Ma ciò non toglie che questo è il vero nodo politico che oggi il Paese ha davanti.
Noi abbiamo denunciato quello che si è verificato, ma io mi pongo una domanda e la pongo a voi: è sufficiente che noi ci salviamo la coscienza dicendo, come abbiamo detto in questi giorni, avevamo ragione? E’ sufficiente che noi in qualche modo ci compiacciamo del fatto che il bipolarismo in effetti non c’è più come avevamo detto, che la Lega e Di Pietro prosperano come avevamo denunciato, che la soluzione dei problemi non si trova? Ecco il nodo è tutto qui, amici, la svolta nostra è tutta qui: noi abbiamo salvato l’autonomia del nostro partito e solo chi non sa leggere – ecco la brutalità con cui voglio dire le cose a cui avevo fatto riferimento all’inizio di questo mio intervento – solo chi non sa leggere la politica nemmeno nell’alfabeto delle sue vocali, può pensare che la scelta del doppio forno non sia stata assolutamente determinante per garantirci l’autonomia che ci siamo conquistata. Noi, cari amici, se avessimo fatto una scelta omogenea sul territorio nazionale, come ci chiedevano i grandi partiti, oggi saremmo politicamente inesistenti e chi all’interno del nostro partito ha un’anima così candida da non capire questo, lo invito a fare un corso accelerato per cercare di capire i fondamentali. Noi abbiamo portato avanti una politica che ci è costata. Ma cosa pensate che non fosse chiaro a Cesa, a Buttiglione, a Pezzotta e me, a D’Onofrio ad Adornato, che questa politica ci avrebbe fatto pagare un costo politico? Ma noi abbiamo fatto un calcolo freddo del costo politico che pagavamo e di quello che ne avremmo ricavato. Noi avevamo solo in questo modo la possibilità di garantirci l’autonomia politica e grazie a questo calcolo oggi siamo artefici del nostro destino, nessuno può decidere per noi, nessuno può pensare che le nostre decisioni siano predeterminate e nessuno ci può neanche dire quello che in questi giorni si sono affannati a cercare di dimostrare assieme il PD, o una parte del PD, e Berlusconi: “voi crescete solo se siete alleati del centro destra”. E non è certo un caso che D’Alimonte abbia detto proprio al seminario della corrente di Veltroni questa cosa che dice Berlusconi.
Ma noi abbiamo facilmente smentito questi tentativi di relegarci da una parte o dall’altra; vi fornisco un dato solo perché non credo che la contabilità vi interessi: noi abbiamo raccolto, andando da soli nel 60% del territorio nazionale, gli stessi voti che avevamo quando il nostro partito dal nord al sud era alleato di Berlusconi 5 anni fa, quando io ero presidente della Camera.
Certo, so bene che articolare la posizione di un partito in modo difforme sul territorio rende la cosa difficile da presentare, a destra e a sinistra. Noi abbiamo pagato un doppio prezzo, ma vi vorrei far notare che Savino Pezzotta, zitto zitto, ha preso in Lombardia 230.000 voti sulla sua candidatura e tre consiglieri regionali. Cinque anni prima ne avevamo eletti 2 più 1 nel listino e avevamo preso 160.00 voti da alleati col centrodestra.
Allora il problema è un altro. Il problema non è, amici, dove si colloca il partito. Perché guardate, certo noi questa difficoltà in molte parti del Paese la abbiamo e l’abbiamo soprattutto, purtroppo, dove ci siamo alleati col centrodestra visto il livello di confusione che c’è nella PDL dove, come in Campania – qui c’è Zinzi, c’è il presidente De Mita, che lo possono confermare – non si riesce a governare perché c’è una divaricazione in quel partito, una lotta tra correnti talmente forte che non si capisce neanche con chi dialogare.
Ma il problema, appunto, non riguarda le alleanze, il problema è a monte. Guardate che anche Giovanardi parlava di alleanze. Anche Pionati parlava di alleanze. Ma per allearsi bisogna esistere perché se non esisti le alleanze non servono; se non esisti le alleanze sono insussistenti per mancanza di presupposti. Allora, ciò che conta è che noi costruiamo un partito che esiste. Questo è il punto. Anche perché, amici, noi tendiamo a scaricare sempre – e questo è un vizio interno che abbiamo purtroppo – su problemi che pure non nego ma che rappresentano solo una porzione dei problemi complessivi, quelle che sono responsabilità nostre, perché anche tra noi abbiamo assimilato il processo di deresponsabilizzazione in voga oggi a tutti i livelli, individuale, collettivo, come corpo di partito.
Dunque è stato fondamentale aver salvato l’autonomia. E guardate – questa cosa me la sono appuntata -Berlusconi alla fine si è dimostrato il più lucido anche in questa circostanza, perché era l’unico che non voleva fare l’alleanza con l’UDC: perché aveva capito che nella nostra politica di alleanze differenziate si collocava la mina più pericolosa sotto il bipolarismo; aveva capito che accedendo a due forni, noi avremmo potuto con il nostro comportamento mettere in crisi il bipolarismo. E’ esattamente quello che molti dei nostri non hanno capito ma che aveva capito Berlusconi. Guardate un po’. Magari la prossima volta gli chiederemo di fare da consulente a qualcuno.
Noi abbiamo messo in crisi il bipolarismo proprio dimostrando che non eravamo costretti a irreggimentarci da una parte o dall’altra. Dunque, amici, siamo artefici del nostro destino ma qui dobbiamo affrontare il problema di fondo. Denunciando, limitandoci a denunciare quello che non va, a denunciare la crisi del Paese, le lotte interne che dividono l’Italia, con la sola denuncia, al massimo ci salveremo la coscienza.
Noi invece dobbiamo passare dalla denuncia alla soluzione, o almeno alla proposta di una soluzione. Bisogna cambiare musica e spartito. Siamo perseguitati dai gossip della stampa su dove andiamo, su che cosa facciamo, sulla domanda se siamo disponibili a entrare al governo.
Bene la risposta non può che essere che le vie vecchie sono le peggiori strade che si potrebbero seguire. Le cose vecchie non servono al Paese. Entrare in questa maggioranza sarebbe non solo una cosa vecchia ma una cosa immorale. Sarebbe immorale che qualcuno di noi – e per fortuna questo non capita perché tutti noi abbiamo la stessa idea di partito e di moralità politica – pensasse che dopo aver preso i voti per stare al centro, all’opposizione di Berlusconi, oggi dovremmo rifluire magari in cambio di qualche ministero nel governo di Berlusconi. Ma, amici, scusate, io nemmeno perdo tempo a discutere di queste cose che talaltro considero davvero umilianti per me e per tutti voi.
Ma andiamo oltre. Facciamo finta che il problema non riguardi noi e riguardi altri; facciamo finta che invece di parlare dell’UDC si parlasse di un partito che Berlusconi vuole integrare nella sua maggioranza.
Ma, amici, al Paese oggi che cosa serve? Se la diagnosi che io ho fatto ha qualche validità, al Paese serve aggiungere un posto a tavola alla tavola di Berlusconi? O serve un cambio di passo, un cambio di consapevolezza, l’idea onesta, pulita, leale che chi è stato scelto dagli elettori, ovvero il presidente del Consiglio – perché non siamo stati scelti noi – vada alla televisione e dica con chiarezza che c’è un’emergenza, che la casa brucia, e che chi ha buona volontà deve evitare di fare come i capponi di Renzo che si beccavano mentre il Paese va a rotoli? Questo serve all’Italia, non l’UDC nella maggioranza, amici! Che sarebbe solo un’umiliazione per noi e per gli altri!
Il ministro Scajola, prima delle sue dimissioni, aveva ipotizzato una cosa detta e ridetta – Libé lo sa bene perché ha seguito questa materia in Parlamento –: “entro questa legislatura poseremo la prima pietra delle centrali nucleari”. Noi, come sapete, abbiamo il vizio della coerenza: eravamo contro le provincie prima delle elezioni e lo siamo anche dopo; eravamo per il nucleare prima, lo siamo anche oggi.
Noi abbiamo detto, a Scajola: “bene, vai avanti, fai le centrali”.
Ma io vi voglio fare una domanda: a parte la fattibilità di posare la prima pietra entro tre anni, poiché era chiaro che si trattava di uno spot, ma – dicevo – a parte questo, pensate davvero che sia possibile che un Paese uscito dal nucleare, a causa della scelta scellerata di un referendum come quello di 25 anni fa, possa tornare sulla strada del nucleare senza una condivisione d’intenti tra maggioranza e opposizione? Pensate che sia possibile, per la mole di investimenti che il ritorno al nucleare richiede al nostro Paese, che un ministro, chiunque egli sia, possa dire: “faccio centinaia di milioni, decine di miliardi di euro di investimenti senza avere la garanzia che chi, teoricamente, potrà venire dopo di me non smantelli tutto quello che ho preparato, rendendo inutili sacrifici e spese?”
Pensate davvero che le scelte di sistema – e ho portato l’esempio del nucleare – possano essere gestite con la pretesa di un’autosufficienza di una maggioranza?
Ma, amici, se qualcuno ci crede davvero, beh, quasi lo invidio per l’incoscienza totale. Io invece tutto questo non lo considero possibile.
Adesso c’è il referendum sull’acqua. Sottolineo: il referendum sull’acqua! A parte le cose divertenti, no? Perché i giornali sono straordinari. In Puglia si parla dell’acquedotto pugliese e un giorno i giornali scrivono: “Casini vuol fare l’alleanza con Fitto perché Caltagirone vuole l’acquedotto pugliese”. Il giorno dopo scrivono: “Casini la vuol fare con Vendola perché Caltagirone vuole l’acquedotto pugliese”. Il terzo giorno invece siamo andati da soli. Povero Caltagirone, verrebbe da dire allora. Ma al di là di questo – che fa parte delle cose di contorno, ridicole se volete, ma che comunque dimostra anche come una certa malizia si nasconda sempre dietro l’angolo per ogni tema ridicolizzando le questioni serie – il problema dell’acqua è serio e, a mio avviso, Libè l’ha posto bene. Il problema per l’Italia è avere un bene pubblico, l’acqua, che dobbiamo poter utilizzare nel modo migliore. E il modo migliore non è certo fare i conti al Nord con una dispersione del 33% e al Sud con una dispersione del 60% in alcune aree. E’ forse questo il modo in cui noi vogliamo tutelare il bene pubblico? Andiamo a fare il referendum, tuteliamo il bene pubblico. Il 90% della nostra acqua si disperde nei rivoli di campagna o viene rubacchiato di qua e di là, ma noi col referendum tuteliamo il bene pubblico e ci salviamo la coscienza.
Questi sono i problemi del sistema Italia. Questi.
Ecco perché noi proponiamo un patto per l’Italia, un patto nell’interesse del Paese fra maggioranza e opposizione; perché questo è un Paese che va a rotoli. Un patto per l’Italia che riguardi la crisi e realizzi le riforme. Un patto per l’Italia che ricalchi le migliori stagioni politiche di questo Paese. E mi fa piacere aver visto qui due tra i protagonisti di queste stagioni, come altri ne abbiamo visti ieri. Un patto per l’Italia, perché noi abbiamo bisogno di due manovre parallele.
La prima, amici, è la manovra anticrisi.
Noi, indipendentemente dall’accettazione o meno delle nostre proposte, – perché non si può essere un partito di opposizione repubblicana a intermittenza secondo le convenienze – la manovra la esamineremo con grande senso di responsabilità. Se è una cosa seria, se non è impostata sui condoni che consentono ai furbi di prosperare e agli onesti di essere, come sempre, considerati i fessi di questo Paese, se si rivela una cosa seria noi siamo disponibili ad aiutare. Ci auguriamo che Tremonti si ricordi di essere il ministro dell’Economia, perché finora è stato un buon ministro del Tesoro, ma lui è il ministro dell’Economia, per cui non può pensare di avere come unico problema quello dei cordoni della borsa. Lo ha detto efficacemente Cisnetto prima: il problema del Tesoro è il contenimento della spesa, è cercare in qualche modo di tenere sotto controllo con il rigore necessario i conti pubblici; mentre il problema dell’Economia è realizzare una manovra che non rappresenti solamente una pezza, ma che abbia una prospettiva. Allora deve trattarsi di una manovra che non sia pagata dai soliti noti. Una manovra che contenga qualche colpo d’ala, anche nei confronti dell’evasione. Dell’evasione fiscale, perché nei termini e con le cifre che ho descritto prima non è tollerabile un tasso di evasione simile. Una manovra che dedichi un po’ di attenzione anche alla crescita di questo Paese: perché è vero che noi abbiamo il problema drammatico del rigore dei conti pubblici, ma non possiamo nemmeno evitare di pensare alla crescita di questo Paese, altrimenti deprimiamo ancora di più l’economia italiana.
Noi proponiamo dunque, accanto a un patto anticrisi, un patto per le riforme. E qui vengo alla seconda manovra di cui abbiamo bisogno. Un patto che si basi su alcuni punti: la riforma del fisco innanzitutto, perché un 46% di cuneo fiscale è inaccettabile. Questo è un problema da risolvere, sia per le aziende che per i lavoratori. Le aziende italiane non possono essere competitive con un cuneo fiscale al 46%, che tra l’altro rende gli stipendi degli operai e dei dipendenti tra i più bassi d’Europa. Perché quando il cuneo fiscale si mangia tutto è ovvio che l’imprenditore è arrabbiato e non è contento neanche il lavoratore. Unitamente a questo tema si muove quello del quoziente familiare, che rappresenta una grande riforma civile necessaria. Bonanni ci ha detto: “cominciamo a realizzarlo dai redditi più bassi. Moduliamolo”.
Forse ha ragione, non è possibile imporlo tutto e subito nella situazione economica attuale, con un elettroshock. Ma almeno incominciamo a fare qualcosa per le famiglie italiane, perché altrimenti poi non possiamo lamentarci del loro stato di esasperazione o di marginalità.
Il secondo punto è la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, superando i veti della Lega.
Il terzo è un patto generazionale, sul tema della previdenza.
Il quarto è il tema delle energie. Guardate che, tra l’altro, noi abbiamo parlato di nucleare, ma non è che in questi anni i governi di centro-sinistra abbiano detto no al nucleare e coerentemente si siano lanciati sulle energie alternative. Qua non si è fatto nulla. Il Paese si è fermato e il consumatore italiano paga l’energia di più di tutti gli altri in Europa.
Poi scuola, ricerca, università, meritocrazia. La meritocrazia è una questione fondamentale.
E infine, ma non da ultimo – ne ha parlato Adriana Poli Bortone ieri, ne ha parlato Occhiuto, ne hanno parlato tanti amici – è ineludibile il tema della questione meridionale. È ineludibile. Caro Lorenzo Cesa, caro Savino Pezzotta e caro Ferdinando Adornato: io penso che noi una proposta dobbiamo farla subito qui, da Todi, oggi. Noi abbiamo degli amministratori al sud bravissimi: penso al vicepresidente della regione Campania De Mita ad esempio. E voglio dire subito che non c’è stato familismo in questa scelta che io personalmente ho voluto. C’è meritocrazia, perché è una persona capace. Ma penso ai nostri ragazzi in Calabria, da Occhiuto a Talarico a Trematerra. Penso ai nostri ragazzi della Puglia. Ora vorrei evitare la litania dei tanti bravi che ci sono, ma bisogna che tutti insieme, immediatamente, voi più giovani soprattutto, organizziate un gruppo di lavoro sul tema del Mezzogiorno. Anche perché è vero che la classe dirigente meridionale ha una grande responsabilità. Ha il problema di riscattarsi da un’eredità negativa. Perché chi è stato complice dell’affermazione di un’idea antinazionale della Lega lo è stato anche a volte dal Mezzogiorno, magari inconsapevolmente, ma attraverso un certo modo di fare politica che ha dissestato il sud.
Vedo qui il nostro presidente della provincia di Brindisi, Ferrarese, ed è l’esempio, non il solo, di come noi abbiamo cercato anche di immettere nel tessuto della politica meridionale persone che vengano da esperienze diverse e che rappresentino una cesura con i modi di amministrare il sud del passato.
Vedo Antonio D’Amato e penso: “Tu saresti un grande sindaco di Napoli”. Lo so che non lo farai, ma saresti un grande sindaco come sei un imprenditore che lavora, che ha scelto di non fare l’associato di Confindustria a vita, ma di lavorare, di portare avanti la sua azienda, di produrre ricchezza. Questi sono gli esempi che il Mezzogiorno deve dare! Perché altrimenti l’idea di un Mezzogiorno residuale sarà un’idea che non si riuscirà più a superare e sconfiggere in questo paese. Diciamo la verità: abbiamo qualche timidezza anche noi a contrastarla. Allora qui è necessaria una grande manovra, un grande patto per il Mezzogiorno. E questa cosa la vorrei dire anche al PDL. Perché il Pd governa con Vendola, governa la Basilicata con noi, ma per il resto il Sud lo governa il centro-destra. Ma il PDL la questione meridionale la sente? O nei prossimi anni sarà un peregrinare tra Berlusconi e Tremonti per evitare che i tagli dei fondi Fas per il Sud siano 100, magari sventolando soddisfazione se si limitano ad 80? Ma c’è un progetto, in questa classe dirigente del Mezzogiorno, per svegliarsi con un sussulto di dignità? La classe dirigente di oggi non può pagare gli errori del passato, deve in qualche modo emanciparsi, ma avendo un progetto, avendo un’idea di futuro, avendo uno slancio che le consenta anche di dare degli esempi positivi a tutto il Paese. Ieri il presidente della provincia di Brindisi ha abolito le auto blu degli assessori, ha eliminato il telefonino a spese della Provincia per tutti, abbassato le indennità. E lo sappiamo anche noi che rischiano di essere degli spot, ma se non si incomincia da qualcosa non si farà mai nulla, amici miei. Allora qui bisogna dare anche degli esempi, e crediamo di dover essere anche noi in qualche modo in prima fila a dare degli esempi.
La Lega non li dà, perché poi quando si tratta di liberalizzare i servizi pubblici locali non vuol eliminare nemmeno una poltrona da consigliere d’amministrazione; ma fa finta di darli, perché magari fa lo spot di chiudere la sede della Regione Piemonte a Roma.
Bene noi dobbiamo darli davvero questi esempi. Sintonizzarci col Paese, con i contenuti ed anche con una rappresentazione che sia adeguata.
Sono fermamente convinto che sia indispensabile una nuova politica, che sia indispensabile una politica per le riforme. E la maggioranza deve prenderne atto, dopo aver in parte rimosso, in questi anni, in questi mesi la realtà. Perché la maggioranza, in questi mesi, si è comportata con un senso quasi anche di fastidio nei confronti degli altri, di autosufficienza. E’ una maggioranza che quando sente che qualcuno vuol dare una mano, risponde infastidita: “Sì, si accodi, si accodi, ma noi siamo autosufficienti”.
Beh, amici miei, se sono così bravi e autosufficienti, vadano avanti da soli, cosa dovremmo fare noi? Li richiamiamo, li tiriamo per la giacca, gli diciamo: “State attenti, non siete autosufficienti, non è vero quello che ci avete detto in questi due anni, che la crisi è passata, probabilmente la crisi non è ancora iniziata, per come dovremo conoscerla; se volete cambiare marcia e sentite che forse non siete così autosufficienti, guardatevi in giro, non per andare a mendicare l’appoggio di qualcuno, ma per rivolgervi al Parlamento, che è il luogo solenne che rappresenta la Repubblica e l’Italia, e per dire: abbiamo bisogno di voi, non dell’UDC, ma delle opposizioni, del PD, di tutti coloro che in qualche modo vogliono fare la loro parte nell’interesse del Paese”. E poi certo starà a noi, a ogni singola componente dell’opposizione che sarà chiamata in causa, dare il segno della propria risposta. Perché la sindrome di autosufficienza della maggioranza va di pari passo con la sindrome antiberlusconiana dell’opposizione. Ma questo è un problema di chi ce l’ha quella sindrome, perché noi ci siamo vaccinati da queste malattie contagiose e infettive. Noi non abbiamo alcuna sindrome nei confronti di nessuno, per cui la nostra unica sindrome è quella dell’Italia, quella del nostro Paese.
Amici, o la maggioranza fa così, oppure vadano avanti e tanti auguri. Se si prende atto dell’esigenza di una fase nuova, credo che l’opposizione sia chiamata a una prova di responsabilità.
Perché dev’essere chiaro che noi non ci stiamo a crescere in un Paese disfatto dalla discordia, dalle lotte corporative, dal populismo di chi affida la propria speranza a Michele Santoro, salvo poi esserne deluso. Non ci stiamo alla deriva dipietrista, che prospera soltanto sulle disgrazie del Paese sperando in qualche piccolo guadagno elettorale. Noi non ci stiamo neanche al doppiopesismo di chi pensa a sacrifici per i deboli e magari si mette in tasca liquidazioni milionarie. Noi pensiamo che si debba essere seri. E vi voglio dire due cose su due punti, molto rapidamente: giustizia e federalismo.
Giustizia. Noi siamo per la riforma della giustizia, siamo contro ogni forma di giustizialismo, di corporativismo dei magistrati, pensiamo che ci siano dei magistrati militanti, di cui tante volte sono stati bersagli anche i nostri uomini e le nostre storie. Ma pensiamo anche che il tasso etico del nostro Paese, che si sta spaventosamente abbassando, soffra pure della delegittimazione a 360° della magistratura che si è voluta portare avanti in questi anni. Allora, noi vogliamo una legge, in ordine per esempio alle intercettazioni, che tuteli la privacy, che tuteli i sentimenti delle persone, che salvaguardi gli strumenti investigativi, che non indebolisca le nostre difese contro il crimine, e certamente non c’entri nulla con l’idea di censura.
Vorrei farvi notare che nei mesi scorsi in Italia c’era chi, a fronte di cose deprecabili, voleva censurare Internet. Qui in sala abbiamo una bellissima e splendida ragazza iraniana: se la rivoluzione iraniana è conosciuta da qualcuno nel mondo, se quello che succede oggi in Birmania o in Thailandia è conosciuto, è grazie a Internet. Sarebbe come dire che poiché c’è il telefono e ci possono essere le telefonate minatorie dobbiamo abolire i telefoni. Oggi Internet è un grande strumento di comunicazione e di libertà. Bene, amici, noi non possiamo in nessun modo avallare una legge sulle intercettazioni che dia questa sensazione, che costituisca in gran parte una risposta alle inchieste giudiziarie di questi giorni, perché questo prefigurerebbe una censura inammissibile. E io rivolgo sommessamente un appello alla maggioranza. Dico: “Fermatevi”. Fermatevi perché è un grande errore. Fermatevi perché in Italia nessuno pensa ragionevolmente che voi facciate questa legge oggi per tutelare la privacy ma tutti ritengono che facciate questa legge per tutelare il malaffare. E questo non è nelle vostre intenzioni, mi auguro.
Federalismo. Il federalismo c’è. Noi abbiamo votato contro non perché siamo contro il federalismo. Noi siamo per un federalismo che non moltiplichi i costi e che preveda una distribuzione chiara delle competenze. Per questo abbiamo detto in tutte le salse, caro Giorgio La Malfa: facciamo il Codice delle autonomie locali, stabiliamo bene prima chi fa cosa, e attribuiamo le competenze dopo, quando sappiamo che il Comune fa una cosa, la Provincia e la Regione ne fanno altre. Si è voluta seguire una strada diversa. Noi abbiamo emendato, come è nostro dovere – perché l’aventinismo parlamentare non ci appartiene -, questo testo, e oggi abbiamo ottenuto correttivi significativi. Ora continuiamo su questa strada. E alla Lega diciamo: ci troverete sempre in Parlamento, pronti a discutere, disponibili anche a cambiare atteggiamento, se terrete in conto le nostre preoccupazioni. A cominciare dal fatto che in una fase di crisi economica come questa il federalismo coincide con una duplicazione, con una moltiplicazione di spese che non può essere accettata dal nostro Paese, salvo correre il rischio di una deriva greca. Noi siamo l’unico Paese del mondo che non parte dal federalismo per arrivare allo Stato centrale, siamo l’unico Paese del mondo che compie esattamente il processo inverso, e lo compie oggi, in un momento drammatico di crisi economica.
Ma vi voglio dire anche una cosa ulteriore, sulle riforme istituzionali; brevemente, consentitemi: si parla di presidenzialismo. In Italia si parla adesso di presidenzialismo. Non voglio partecipare alla disputa: presidenzialismo sì o no. Io sono per la Repubblica parlamentare, su questo sono un conservatore. Ma il sistema presidenziale che tutti noi conosciamo fin dalle scuole elementari, che è il sistema americano, è un sistema talmente democratico che il Parlamento ha un potere così vasto che noi nemmeno ce lo sogniamo in Italia. Il presidente degli USA deve, in modo estenuante, contrattare. E deve farlo non con la maggioranza parlamentare, amici, ma deve contrattare con Sanza, Compagnon, Ria, Mantini, con tutti i singoli parlamentari per avere il voto sulle leggi principali. Allora vuol dire che anche qui dobbiamo finirla di parlare per slogan, mentre dobbiamo parlare di cose vere: il presidenzialismo in sé è una formula astratta, non dice niente. Noi vogliamo capire quale sorte avrà il Parlamento: perché avere un presidenzialismo con un Parlamento come quello americano è una cosa, avere il presidenzialismo con il Parlamento venezuelano è un’altra.
Mi avvio a concludere. E lo faccio parlando del partito e di questo nostro progetto. Allora, sul nostro progetto, amici, non so se vi faccio sognare o vi deprimo ma, insomma, sono due facce della stessa medaglia. Noi soffriamo di una schizofrenia, abbiamo un preoccupante sdoppiamento di personalità, dentro quest’aula e fuori da quest’aula, nel pubblico, nei nostri discorsi, e nel privato. Noi dovremmo andare da uno psicanalista, che però non c’è, per cui facciamo qui un’operazione di psicanalisi collettiva e parliamo qui di queste cose, anche perché se siamo un partito diverso dalla PDL e dal PD, se siamo un partito che non è un partito personale, se siamo un partito aperto, dobbiamo parlarci e parlare tutti. E io sono molto grato agli amici che lo hanno fatto. Sono molto grato al giovane Fabrizio Anzolini, che questa mattina ci ha detto delle cose magari sgradite a noi anziani – ormai, caro Cesa, questo è il nostro ruolo, abbiamo iniziato che eravamo come loro, anagraficamente dico… – Bene, noi soffriamo di questo sdoppiamento di personalità: tutti vogliamo cambiare, ma nessuno vuole cambiare davvero. Questa è la realtà. Naturalmente tutti vogliamo cambiare. Savino Pezzotta ieri si è chiesto: “Ma noi siamo venuti a Todi un anno fa e poi non è cambiato niente, perché?” Ed io ho riflettuto stanotte: perché? Perché non può cambiare niente se affidiamo a manovre verticistiche la costruzione di un nuovo partito. Perché se noi pensiamo di chiedere alla Poli Bortone per Io Sud, di chiedere alla Rosa Bianca, di chiedere all’UDC, di chiedere a 6-7 partiti-sigla di fare degli organigrammi che caliamo in periferia, è chiaro che non cambia niente, perché il metodo sarebbe quello di sempre, vecchio. Forse più vecchio del vecchio. Non sarebbe il predellino, che magari ha la facilità di essere più funzionale, più semplice, ma non sarebbe nemmeno un meccanismo così distante. La realtà è che ci culliamo sulle rendite di posizione. E voglio dire di più: siamo pigri. Dico la verità, parlo anche per me: io pure sono pigro.
Noi abbiamo nostalgia, ma non possiamo avere la nostalgia come programma politico. Noi amiamo, abbiamo amato o amiamo – a seconda delle età e a seconda delle nostre storie lo amiamo chi più chi meno – ma comunque anche io amo lo scudo crociato. Ma so, laicamente, perché non sono un clericale o un integralista, che mi devo misurare con ragazzi che hanno 40 anni oggi – uomini cioè che sarebbero Primi ministri in tanti altri Paesi, per cui non sono più neanche ragazzi, visto che hanno famiglia e figli – che non hanno mai visto lo scudo crociato, salvo quello presentato da noi, alle elezioni.
E la nostalgia ci porta a che cosa? A fare come quei nobili di campagna che avevano ereditato e che ogni anno vendevano un podere… Noi se ci facessimo vincere dalla nostalgia, faremmo altrettanto in ogni competizione elettorale: venderemmo un podere, una casa, magari un appezzamento di terreno, un garage, ma andremmo avanti in un modo che è residuale.
Guardate, sono il primo a dire che finora noi abbiamo fatto un miracolo, per cui non sottovaluto affatto quello che abbiamo fatto. E vi dico di più, al costo di spaventarvi: non sono affatto sicuro che faremmo meglio cambiando meccanismo e cambiando, diciamo così, ragione sociale. È tutto da dimostrare! Non c’è una garanzia che noi, andando in una direzione diversa, aumenteremo sicuramente i voti. Perché a volte si perdono, invece che aumentarli. Ma so, con esattezza, che questo tipo di atteggiamento nostalgico conduce ad una residualità. Magari nobile, da persone per bene, da nobili di campagna, corretti, che rispettano le regole, ma residuali. Perché non si interloquisce con una base che si amplia, ma si interloquisce con una base che si restringe sempre di più, anche anagraficamente.
Vi confesso che sono intimamente conservatore. Tanto per intenderci: ogni volta che devo cambiare una casa, per me (l’ho fatto due o tre volte nella mia vita) è un trauma. Ogni volta che mia moglie vuole cambiare una tenda, litighiamo. Ogni volta che devo andare in vacanza, voglio andare sempre nello stesso posto. Ogni volta che vado al ristorante, vado da 25 anni allo stesso. Sì, sono profondamente conservatore, ma qui amici bisogna cambiare per contare. Qui bisogna cambiare per esistere. Qui bisogna cambiare per lasciarci alle spalle la nostalgia su cui non si costruisce più una prospettiva. Qui bisogna cambiare per essere protagonisti. Qui bisogna cambiare perché la metafora, caro Michele Vietti, che abbiamo avuto in questi anni, in fondo è stata la metafora della DC, nel senso che intendevamo portare, nell’esperienza del Polo della Libertà e della Casa della Libertà, quella che era stata l’esperienza della DC in un’esperienza nuova. Ma nel frattempo, mentre queste cose sono capitate, sono già passati 20 anni e la metafora ci è scappata via, nel senso che è una metafora che in termini, diciamo, sociali, rischia di non esistere più. È una metafora che in gran parte non esiste più. Vedete, io non credo al ricambio generazionale come garanzia assoluta di miglioramento, ma avrei un sogno: che noi potessimo trovare un rapporto assiduo coi tanti giovani che ciascuno di noi incontra nelle campagne elettorali, attraverso un discorso concreto. A me piacerebbe che prima della nascita del nostro partito, del Partito della Nazione, ci fosse un congresso dei giovani del Partito della Nazione. Ma dobbiamo intenderci, amici: non si è giovani a 40 anni, non si è giovani a 30 anni, non si è giovani in eterno. Non si è giovani capaci di svolgere un ruolo concreto di militanti politici, stando invece che nelle Università nelle segreterie dei parlamentari; questo è un tipo di giovanilismo che non ci serve. Per carità, non sarà un reato stare a contatto con i parlamentari, ma non è condizione sufficiente: perché se uno non è giovane nell’Università, se non è giovane nel mondo del lavoro, e se non è giovane magari facendo l’amministratore, il consigliere comunale, il consigliere di quartiere, allora non è giovane e basta. Certo, riferito alla politica, essere amministratori a 20-25 anni è essere giovani.
Dunque noi dobbiamo delimitare il campo dei giovani. Abbiamo avuto delle esperienze negative in precedenza. Ma perché? Perché noi andiamo a chiamare i giovani un po’ con una logica che non è neanche maliziosa – perché nessuno di noi si interessa realmente di chi comanda nel movimento giovanile, diciamoci la verità, a nessuno frega niente – ma sostanzialmente abbiamo un riflesso condizionato di dire, mettiamo questo giovane, di indicarne qualcuno. Amici, qui, ormai, nel nostro partito i giovani non esistono più. I giovani, nel senso del movimento giovanile, sono azzerati. Ha fatto benissimo Cesa, azzerando tutti gli organi di partito, ha azzerato anche i giovani. E questo è stato necessario perché vogliamo trovare dei nuovi giovani. Vogliamo che in questo Partito della Nazione i battistrada siano i giovani.
Nessuno deve considerarsi offeso se a 30 anni non è più giovane.
Insomma, noi dobbiamo porre dei paletti anagrafici, perché altrimenti non facciamo più una cosa seria. Anche perché, amici, scusate: io, modestamente, a 27 anni ero deputato, molti a 35 anni sono primi ministri, mentre noi abbiamo dei responsabili dei giovani di 40.
Sì, certo, l’abbiamo visto nel movimento giovanile della Democrazia Cristiana. Sì, anche allora c’era qualche degenerazione, ma avevamo un partito del 40%, mentre oggi abbiamo un partito un po’ diverso.
Allora, noi dobbiamo chiedere ai giovani e dare ai giovani.
E lo stesso ragionamento va fatto per il partito in periferia. Cesa ieri ha annunciato l’idea di azzerare anche in periferia – dove sarà da azzerare, perché poi non è che uno va con la scimitarra così, in modo demenziale – ed è un passo avanti che va fatto, perché noi non possiamo avere i segretari provinciali che si compilano le liste elettorali per escludere la gente, perché vogliono garantirsi il posto da consiglieri regionali!
E, scusate, non vorrei che questo applauso fosse analogo a quello che ieri avete tributato ad un signore che ha detto una cosa giustissima, che io condivido, quando ha detto: “Dovevamo andare da soli in tutta Italia”. Perché siete gli stessi che abbiamo incontrato in tutta Italia, quando Cesa e io andavamo a dire questa cosa in giro per l’Italia e nessuno voleva andare da solo. Per cui, quando parlo di schizofrenia, quando parlo di dissociazione mentale, parlo di una situazione che purtroppo riguarda tutti noi. Tutti noi.
Allora: io scommetto su questo momento sui giovani. Lo dico, Cesa: noi abbiamo bisogno di questo, abbiamo bisogno di questo fortemente.
E abbiamo bisogno di un partito che alzi il tasso etico, perché parliamoci chiaro: quello che è concesso ad altri non è concesso a noi, a causa della storia. Allora noi abbiamo la necessità, anche qui, non di tagliare le teste, ma di essere rigorosi, perché se non siamo rigorosi con noi, non possiamo essere rigorosi con gli altri. Noi dobbiamo essere un partito di programma, ma non possiamo essere il partito che adotta il programma di abolire le province e che poi contemporaneamente sul territorio, in provincia, difende magari il reddito dei consiglieri provinciali. Non è più credibile una cosa di questo tipo. Dobbiamo portare in periferia quello che facciamo nei gruppi parlamentari senza che, faccio anche questo esempio, dopo il nostro sì alle centrali nucleari, arrivi il no, su tutto il territorio nazionale, di tutti i nostri amici che sono impegnati a fare gli amministratori locali, perché qualcosa allora non torna.
Siamo un partito che deve saper far convivere al suo interno credenti e non credenti. Vedi Cisnetto, con il tuo intervento di prima sei proprio arrivato a toccare questo punto, con la tua impoliticità, mettendo come si dice i piedi nel piatto, e devo confessare che mi ha fatto piacere ascoltare le tue parole sul partito aperto.
Stiamo attenti che rispettare dei valori, difendere l’identità cristiana del nostro Paese e dell’Europa davanti alle sfide complesse che l’Occidente si trova ad affrontare, non significa marginalizzare chi, non credente, arriva da esperienze diverse. E io credo che anche sulle questioni etiche, o sui cosiddetti problemi eticamente sensibili, noi non dobbiamo procedere per luoghi comuni perché se andiamo ad approfondire scopriremo molta più “laicità” – tra virgolette – nella Binetti e molto più clericalismo in altri rispetto allo stereotipo della rappresentazione esterna che viene raffigurata normalmente. D’altro canto non credo nemmeno che di fronte a temi di questo tipo noi possiamo chiamarci fuori dicendo semplicemente “non c’entrano”. Perché in realtà c’entrano con la politica, perché sono temi che riguardano la vita e la morte. Sono questioni che riguardano il nostro collocare la persona al centro della vita del pianeta.
Questa è la questione etica, che non può dividerci! Che non ha diviso i grandi, da Saragat a Spadolini e non ha diviso la Democrazia Cristiana. O che magari a volte ha diviso anche la Democrazia Cristiana, nel senso che ha sviluppato un dibattito al suo interno, perché anche all’interno della Democrazia Cristiana probabilmente erano presenti in gran parte le questioni e le divisioni che qui in modo molto laico e aperto si sono rappresentate. Ma quel confronto non ha lacerato il partito, semmai lo ha fatto crescere.
Dunque io credo che su questi temi, partendo dalla persona, dal riconoscimento della sua dignità e della sua centralità, noi possiamo offrire delle ricette inedite che si confrontano con la modernità e che non hanno niente a che fare col clericalismo, che peraltro la Chiesa non chiede, e che sarebbe inutile, non servirebbe a niente. Ognuno qui è maggiorenne e vaccinato per cui noi siamo difensori di certe convinzioni perché ci crediamo, non perché ci aspettiamo qualcosa da qualcuno. D’altra parte Avvenire è uno dei giornali che ha dato meno spazio a questa nostra iniziativa di Todi, per cui evidentemente il nostro è un modo di essere laici fino in fondo, un partito aperto, un partito senza corsie preferenziali, senza inganni.
Vogliamo un partito che sappia miscelare qualità e quantità perché, cari amici, la qualità è importante ma non è che i professori universitari, per quanto grandi e bravi, per quanto i più grandi geni, siano diventati presidenti del Consiglio in tutti i Paesi. Anche perché la qualità si esercita anche facendo i consulenti dei ministri; cioè, non è necessario fare i ministri. E allora forse è importante avere la qualità, ma bisogna che chi ha qualità si eserciti ad avere anche un po’ di quantità e chi ha quantità non può pensare di avere l’autosufficienza della quantità, perché ci sono quantità imbarazzanti se non si ha un po’ di qualità. Allora bisogna cercare di costruire un mix.
Mi ricollego a questo per aggiungere un tema fondamentale, amici: la formazione.
Qui c’è l’amico Staudacher della fondazione Adenauer.
Noi dobbiamo preparare un grande progetto per la formazione. Questo è fondamentale: dobbiamo affidarlo a un giovane o anche a un meno giovane, ma se trovassimo una persona capace di formare centinaia di persone, che si dedicasse a questo, potremmo anche garantirgli di portarlo in Parlamento. Perché è troppo importante per noi un lavoro serio sulla formazione. Serio, non sporadico, radicato territorialmente almeno per grandi aree del Paese, costruito con certificati di presenza e di frequenza.
La crisi della politica non è altro che la crisi del suo tasso etico. Che non significa solo rubare. La crisi del tasso etico si manifesta anche ogni volta che qualcuno va in un partito per ottenere una cosa, per poi passare ad un altro per ottenere qualcos’altro, con i partiti che sono considerati delle porte girevoli.
Ecco perché credo che la formazione sia estremamente interessante per cambiare registro: selezionare dei giovani, obbligarli alla continuità di un impegno, come la frequenza di un corso, significa dar loro l’esempio di un partito che premia anche la costanza.
Questo è ciò che serve secondo me dunque. Un partito della Repubblica, un partito che fa della riconciliazione, della responsabilità nazionale la sua ragione sociale, un partito che non nasce solo per una nostra scelta ma per una profonda necessità per l’Italia.
Io so che con Pezzotta, Adornato, Cesa, De Mita, da domani, tutti assieme, incominceremo a lavorarci concretamente, ed è importante quello che De Poli – forse non tutti l’hanno visto, non tutti hanno sentito quello che ha detto – ha illustrato, ovvero che il meccanismo per la nascita del nuovo partito non consentirà a nessuno di avere il monopolio delle adesioni al Partito della Nazione.
Ogni movimento, con la propria provenienza ed appartenenza, attraverso un modulo che evidentemente si dovrà compilare, ogni movimento – dicevo – avrà la possibilità di essere compartecipe del partito della Nazione. Questa doppia identificazione costituisce anche l’idea di un percorso originale, nuovo, ma nello stesso tempo noi dobbiamo sapere che non possiamo pensare di dar vita all’adunata delle sigle, perché dobbiamo riconoscere l’individualità alle persone. E col meccanismo descritto prima da De Poli noi andremo ad abbinare sigle di provenienza e persone. Così come, e non è banale che si faccia in questo modo, per il nome e per il simbolo del nuovo partito, ci impegneremo nella ricerca e nella valutazione delle proposte tutti assieme. A parte il concetto che ho espresso all’inizio sulla scritta “Casini” nel simbolo, il resto lo ricerchiamo assieme, anche perché personalmente, se dovessi dire la mia, direi che non ho la soluzione. Forse non sono sufficientemente intelligente, comunque non ce l’ho.
In ogni caso vorrei che tenessimo presente, amici, che non è tutto nelle nostre mani, anche perché la politica italiana è in grande evoluzione: pensate ai mutamenti che si sono verificati negli ultimi due anni, che nessuno di noi immaginava allora, quando tutti avremmo scommesso in 5 anni di marginale e pacifica esistenza in Parlamento. Quando siamo entrati alla Camera, in quel primo giorno della nuova legislatura, ricordo bene che eravamo un po’ abbacchiati. Ma vorrei dire tra parentesi per sdrammatizzare anche un po’ sorridenti perché non dobbiamo mai dimenticare che la vita è più importante della politica, e i figli sono più importanti del movimento giovanile, dico anche scherzosamente. Comunque quel giorno di due anni fa eravamo convinti di vivere una stagione di dignitosa e seria opposizione repubblicana, ma che tutto sarebbe stato immutabile.
Ebbene è cambiato tutto, in due anni. Anzi, direi perfino che sta cambiando troppo, che abbiamo bisogno di correre dietro alla realtà un po’ anche noi.
E quindi, termino realmente, noi dobbiamo essere consapevoli che non siamo interessati alle cose vecchie, non siamo interessati a una piccola fetta di potere a cui, per coerenza abbiamo già rinunciato. Al presidente del Consiglio, scelto dalla maggioranza degli elettori, diciamo semplicemente: “all’Italia non serve la retorica degli annunci ma il coraggio di una coesione nazionale più vasta”. E al PD noi diciamo di prendere consapevolezza che le fortune elettorali di qualcuno non possono che prodursi sulle macerie dell’Italia, sulla sua disgregazione, sulla rinuncia a dare valore e senso anche alle pagine più nobili e più belle, come quelle del sacrificio dei nostri ragazzi in Afghanistan. Io in passato mi sono sentito umiliato nel ricevere queste famiglie e nell’assistere alla loro prova di dignità, alla lezione di compostezza che mi hanno dato. Come è capitato con le famiglie dei caduti di Nassiriya e con tutte le altre che hanno subito la perdita di un figlio in questi anni, dovendo pure subire la speculazione di chi, per prendere qualche voto in più, ha definito quel sacrificio frutto di una guerra scellerata e inconsulta. Speculazioni che rappresentano il peggior modo per buttare al vento anche ciò che di più sacro c’è in un Paese: la vita dei propri ragazzi.
Dunque, il futuro, amici, non dipende da noi, non è nelle nostre mani la possibilità decidere tutto. Ma noi possiamo dire a tutti che il Partito della Nazione, il partito della Repubblica, il partito del popolo italiano nascerà per interpretare il sentimento e il senso di unione nazionale. Camminiamo assieme, in un rinnovato patto tra le generazioni, per ritrovare il senso di una missione comune per tutti gli italiani.
La nave va, cerchiamo di remare tutti nella stessa direzione, perché le acque sono agitate, ma cerchiamo di dare il contributo più serio che possiamo affinché l’Italia raggiunga finalmente quel porto di serenità e di tranquillità che ci meritiamo tutti.