“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera
L’Italia è un Paese di Caste e di Castine, in cui poteri pubblici e interessi privati sono sempre andati a braccetto e in cui le rendite di posizione sono sempre state considerate alla stregua di beni primari. L’Italia è un Paese che vanta una classe politica strapagata, ma largamente insufficiente ad espletare i suoi compiti, e gran parte del resto della popolazione che si impegna caparbiamente – almeno, chi ha l’opportunità di farlo – nella difesa ad oltranza del proprio orticello e che è pronta a riciclare gli slogan contro i privilegi della “Casta dei politici che ruba”, ma che si indigna stizzita quando qualcuno prova a mettere naso negli affari che li riguardano. Con tutti i macroscopici privilegi che hanno i pezzi grossi in Italia, dicono, proprio quelli dei tassisti o dei farmacisti, dei notai o degli avvocati dovete venire a discutere? Uh, figurarsi. Guai a chi, impavido o piuttosto ingenuo, proverà ad modificare questa incresciosa situazione, tirando fuori dal cassetto le celebri (o si dice “fantomatiche”?) liberalizzazioni. Si vedrà costretto a soccombere di fronte alla ferma e ferrea opposizione delle corporazioni dei mestieri, di quelle categorie di settore che anziché essere, come nel resto d’Europa, libere associazioni di lavoratori, sono piuttosto l’ultimo regalo lasciatoci in eredità dell’economia fascista: “tutela di tutti gli interessi che armonizzano con quelli della produzione e della nazione”. Simona Bonfante, quest’estate, lo aveva spiegato molto chiaramente: “nel nostro defascistizzato paese dove non si può – per carità – manco evocarlo il Duce, si può, invece, ed anzi è titolo di merito, mantenerne in vita le infrastrutture liberticide e gridare allo scandalo quando solo se ne ipotizza la chiusura, ovvero l’apertura alla plurale, libera concorrenza dei meriti professionali”. Queste infrastrutture liberticide hanno i nomi più disparati e vanno dai vari ordini professionali alle altrettanto varie confederazioni del lavoro, tutti con caratteri comuni: difesa più intransigente della loro struttura chiusa e conservatrice e avversione più decisa a ogni provvedimento che provi a rendere finalmente libero il mercato in cui operano (per l’appunto, le liberalizzazioni).
Personalmente sono sempre stato un fan della concorrenza e perciò ho sempre visto di cattivo occhio ogni ostacolo al libero mercato: per questo quando il Premier Mario Monti ha licenziato la manovra economica, che pure è pesante e rischia di essere perfino recessiva, ho gioito alla vista delle liberalizzazioni inserite nel testo. Che forse non avrebbero avuto immediati effetti sulla crescita e sulla competitività, ma che comunque avrebbe imposto alle imprese italiane produttive, commerciali e di servizi di adeguare la loro offerta e di migliorare la loro competitività (a vantaggio loro, dei loro dipendenti e di noi consumatori). Nel decreto c’erano nuove tasse, ok, ma c’era anche il via a un cammino improntato a politiche pro-crescita. E invece la portata innovativa della manovra del governo si è schiantata contro l’orgoglio corporativo di questa parte del popolo italiano, che ha reagito con vigore alle prime due, importanti liberalizzazioni: la libera vendita dei farmaci di fascia C nei supermercati e l’apertura alla concorrenza per le licenze dei taxi (notare, poi, come in Parlamento, l’opposizione a questi due provvedimenti sia andata di pari passo a quella sui tagli ai costi della politica). Le corporazioni hanno potuto più dei sindacati, in fondo: la minaccia di chiudere e sabotare tutto ha potuto più di uno sciopero congiunto di CGIL, CSIL e UIL.
Tutto questo è inaccettabile. Qui lo si è sempre sostenuto: il compito del Governo Monti non è solo quello di traghettare l’Italia in mezzo a un mare in tempesta; c’è bisogno di riforme strutturali e profonde, che non investano solo le pensioni o il mercato del lavoro, ma che contemplino, per l’appunto, le liberalizzazioni e le privatizzazioni. Perché se non si riusciranno a piegare davvero le assurde pretese di queste corporazioni, il duro sacrificio economico chiesto agli Italiani sarà davvero iniquo e impossibile da digerire. Per questo, Presidente Monti, qui bisogna dire no a questo ricatto e aprire la porte al futuro (al libero mercato, cioè). Proprio come Lei ci ha giustamente spiegato tempo addietro.