Tutti i post della categoria: Esteri

Gheddafi, ultimo atto.

postato il 23 Agosto 2011

Dopo oltre 150 giorni di combattimenti, caratterizzati da fortune alterne per entrambi gli schieramenti, sembra che per il Colonnello le ore siano ormai contate.

I combattenti del Comitato Nazionale di Transizione controllano ormai la capitale libica.

La Guardia Presidenziale, l’unità di elite del regime, si è arresa.

Radio e televisioni, che in questi mesi hanno propagandato la voce del regime chiamando il popolo al massacro degli oppositori, tacciono.

Fino a qualche ora prima dell’arrivo dei ribelli, hanno trasmesso nastri registrati dal Rais. Ora non sono più il megafono del regime.

A Tripoli la gente si è riversata nelle strade per accogliere i le milizie del C.N.T.: stridono nella memoria le immagini di un Gheddafi stanco che qualche settimana fa arringava poche centinaia di persone nella centralissima Piazza Verde, nel tentativo di mostrare al mondo la potenza di un regime già in caduta libera.

Sono state smentite le voci sul fatto che due figli del Colonnello siano prigionieri degli insorti: tra questi il secondogenito Saif al-Islam, che nei disegni del padre avrebbe dovuto prendere in mano le redini del regime.

Proprio in merito a ciò si apre una delicata questione politica: ora che la dittatura si appresta a vivere le sue ultime ore, tra defezioni sempre più numerose (ultima in ordine di tempo ma non certo di importanza, quella del comandante della Guardia Presidenziale), quale sarà la sorte dei funzionari e dei politici, specialmente di alto lignaggio, che in oltre 40 anni sono stati l’ossatura del regime?

Quale sarà la sorte del Rais se venisse catturato?

La Libia non aderisce infatti alla Corte Penale Internazionale: su di essa non grava alcun obbligo in merito all’estradizione del leader e dei suoi familiari.

I leader politici occidentali si sono spesi per ricordare agli insorti che la liberazione del Paese non deve trasformarsi in un bagno di sangue. Tuttavia lo scenario è molto complesso.

La struttura del potere in Libia, in questo simile a molti Stati del continente africano, si è articolata e consolidata negli anni grazie al clan da cui il Rais proveniva.

Del tutto disomogenea dal punto di vista clanico  si mostra la compagine di governo del C.N.T.: da un lato essa rappresenta in maniera più democratica la società libica, raccogliendo le istanze di quelle tribù escluse dal potere o vessate per decenni.

Nondimeno, sono evidenti due rischi molto gravi per la stabilizzazione del Paese: il primo è che il clan del Colonnello venga fatto oggetto a sua volta di feroci violenze a seguito delle inevitabili epurazioni dagli apparati amministrativi e di governo; il secondo invece coinvolge direttamente gli insorti, i quali potrebbero aprire un fronte interno, specialmente quando le contingenze della guerra saranno venute meno, per determinare i rapporti di forza nel post-Gheddafi.

Un segnale importante di quanto si rischi l’instabilità politica e di quanto la Libia sia divisa è data dall’intervento dei berberi del deserto contro i beduini del clan al potere.

La frattura non è solamente clanica, all’opposto anche etnica. I berberi, per anni posti ai margini della società libica, ora reclamano la propria parte nella vittoria: sono stati tra i primi a sollevarsi, partendo da minuscoli villaggi ai bordi del deserto, ma col tempo assestando colpi letali alle truppe lealiste che si trovavano ad operare con uno spazio di manovra sempre più ristretto.

Senza un intervento chiaro e legittimante da parte di quegli stessi Paesi che quasi sei mesi fa si sono assunti la responsabilità di mettere fine alla repressione, c’è il rischio che la nascente democrazia libica piombi in un nuovo medioevo di lotte fratricide. L’Italia sembra aver rinunciato a giocare quel ruolo determinante che è suo di diritto: è importante ricordarci che ciò che avviene a qualche centinaio di miglia a Sud delle nostre coste, rientra non solo nella nostra politica estera, ma è persino una priorità interna.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Perché Londra brucia

postato il 12 Agosto 2011

Londra brucia. Tutto ha inizio giovedì 4 agosto nel quartiere di Tottenham, il ventinovenne tassista Mark Duggan, membro di una gang locale e presunto spacciatore di droga, rimane ucciso in un conflitto a fuoco con Scotland Yard durante un tentativo di fuga. La notte successiva Londra brucia: giovani del quartiere nero di Tottenham saccheggiano negozi, incendiano auto, spaccano vetri, assaltano agenti con bottiglie, pietre, spazzatura, molotov artigianali. Subito i principali commentatori associano queste immagini alle rivolte delle banlieau di due anni fa nei quartieri ghetti di Parigi e la colpa delle violenze ricade sul disagio sociale e sull’incapacità di integrare culture diverse. L’intellettuale Roger Scruton, professore di filosofia alla Boston University e autore de “Il manifesto del conservatorismo contemporaneo” subito muove il dito contro il fallimento del multiculturalismo e la sua incapacità di preservare le vere identità culturale annacquandole insieme in un unico meticciato mentre Damian Thompson, editorialista del Daily Telegraph, si esprime con parole durissime :” “Abbiamo creato una cultura della gang violenta, sessista omofobica e razzista; è una vergogna che cadrà sui multiculturalisti bianchi veri responsabile di questo disastro”. I giorni passano, vengono contagiati anche i quartieri di Brixton, Peckam, Islington, Lewisham e Oxford City e il tumulto raggiunge infine anche Liverpool e Manchester spargendosi a macchia d’olio in tutta l’Inghilterra. Più si guarda da vicino queste rivolte più ci si accorge della superficialità e dei gravi errori del primo giudizio: dai tribunali aperti 24 ore su 24 e in cui vengono portate più di 1.200 persone emergono storie incredibili e raccapriccianti: giovani studenti, mamme single, padri di famiglia disoccupati, poveri e non, delinquetelli comuni, gente di ogni etnia, età, origine sociale. La storia più sconvolgente è sicuramente la testimonianza riportata su “Il Corriere della Sera”da Fabio Cavalera della signora Onelia Giannattano, parrucchiera italiana emigrata a Londra: ““Sembrava un angelo, un angelo col caschetto di capelli rossi. Avrà avuto quindici o sedici anni, una ragazzina bellissima. Poi l’angelo è diventata una strega. Era con alcuni giovani, suoi amici, che all’improvviso si sono scatenati. Hanno sfasciato senza una ragione le mie vetrine e razziato ogni cosa. E lei se la rideva tranquilla e mi prendeva in giro: te la fai sotto eh? Quegli occhi, quelle parole di sfida non li dimenticherò mai”.

E allora ci si accorge che il malumore della periferia e dell’integrazione sono solo la miccia, la punta dell’iceberg che cela al di sotto un quadro molto più preoccupante. E’ un’intera società a ribellarsi e a scatenare un incendio di violenza le cui fiamme sono la carenza di desiderio e l’inconsapevolezza del domani.

E tutto ciò mentre è a rischio l’intero modello economico (e non solo) occidentale.

Mala tempora currunt: Londra brucia e noi insieme a lei.

Riceviamo e pubblichiamo Jakob Panzeri

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Sangue Siriano

postato il 2 Agosto 2011

1274 a.C. , Qadesh. Sulle rive del fiume Oronte si contrappongono, in uno dei conflitti più celebrati e documentati dell’antichità, le due più grandi potenze del Medio Oriente: l’impero ittita di Muwatalli III e l’Egitto del faraone Ramses II. Ancora oggi le sabbie del fiume Oronte sono sporche e imbrattate di sangue. Oggi ad Hama, nelle vicinanze dell’antica Qadesh, le strade della città sono cosparse di cadaveri e feriti frutto della tempesta di fuoco e delle raffiche di mitragliatrici sparate dall’esercito fedele al governo contro il popolo in giorno di festa, alla vigilia del Ramadan. Secondo dati diffusi dalle organizzazione per i diritti umani circa 2.000 persone sono rimaste uccise nelle violenze che si succedono in Siria da quando sono cominciate le proteste contro il regime del presidente Bashar al Assad a metà marzo. Almeno altre 12.000 persone sono state arrestate. Nel frattempo, in un messaggio alle forze armate per l’ anniversario della loro fondazione, il presidente siriano si è congratulato con quello che ha definito l’esercito “patriottico” simbolo dell’ orgoglio nazionale. Oggi alle ore 16.00 nella conferenza stampa del Terzo Polo a cui hanno aderito gli onorevoli deputati Lorenzo Cesa, Ferdinando Adornato, Benedetto Della Vedova, Barbara Contini e Gianni Vernetti è stato richiesto al governo di ritirare l’ambasciatore italiano da Damasco in segno di protesta. Domani mattina alle ore 9.45 il governo riferirà in aula nella persona di Stefania Craxi, sottosegretario con delega agli affari esteri. Rivolgo queste poche righe ai parlamentari che si sono impegnati personalmente in questa iniziativa e mi rivolgo a tutti le persone animate dal senso della giustizia nel loro cuore: l’11 marzo 2010 la presidenza della Repubblica ha riconosciuto il presidente siriano Bashar al Assad “Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana decorato di gran cordone “. Chiediamo l’immediato ritiro dell’onorificenza.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

LINK:

Dal sito della Presidenza della Repubblica, l’elenco dei cavalieri di Gran Croce.

Dettaglio decorato Bashar el Assad.

Una petizione mondiale per i siriani scomparsi che invito a visionare

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La carestia nel Corno d’Africa, urge un intervento.

postato il 1 Agosto 2011

L’uomo è ciò che mangia” affermava nel 1862 il filosofo Ludwig Feuerbach, un pensiero a prima vista molto bizzarro, ispirato alla recensione di un trattato di cucina popolare tedesco, che postulava  l’alimentazione come elemento  base per costruire e migliorare l’essenza dell’uomo;  un popolo potrebbe dunque migliorare la propria condizione e il proprio carattere partendo in primo luogo dall’alimentazione. A volte penso che Feuerbach nel suo materialismo sfrenato abbia un pochino ragione guardando alla nostra società consumistica e godereccia in cui  per noi, ammettiamolo, è quasi impossibile immaginare e porre lo sguardo su  situazioni diverse di fronte alle quali siamo ciechi e ci illudiamo di risolvere spedendo ogni tanto ,per pulirci la coscienza, pacchi di dollari di finanziamenti che probabilmente finiranno nella mani di qualche corrotto e ambizioso potentato locale.

Eppure in Somalia e in tutto il corno d’Africa  si sta consumando sotto i nostri occhi una carestia che qualche esperto definisce “secolare”.  Ecco alcuni dati che ho rintracciato sul sito dell’Unicef: in questo momento 12 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile, il 30% della popolazione sta soffrendo di  malnutrizione con picchi del 55% in alcune regioni, si registrano 4 decessi al giorno ogni 10.000 bambini. Una carestia che certo rende ancor più drammatiche le condizioni di una regione che non trova pace da oltre 40 anni: dal 1969, anno del colpo di stato del generale Siad Barrè,  la Somalia è in uno stato di guerriglia permanente alimentata da spietati signori della guerra e capibanda tribali. Guerre di clan rivali per il controllo del sud della Somalia, zona fertile e agricola, scontri di secessione che hanno dato origine al Somaliland,  non riconosciuto dalle Nazioni Unite, in un clima di quasi ritorno alla spaccatura coloniale dove il nord e il sud del paese erano divisi tra inglesi e italiani (ricordo che nel 1891 il governo Crispi aveva aperto le vie del modesto colonialismo italiano ottenendo proprio per 160.000 rupie un protettorato sui principali porti della Somalia, protettorato estinto solo nel 1960) . In questa guerriglia perenne si è intromessa anche Al Quaeda che sta cercando di ottenere il controllo della regione con le sue corti islamiche e affermare la legge della Sharia. Ancora oggi, mentre i bambini muoiono di fame, per le strade di Mogadiscio si combatte tra miliziani fedeli al debole governo,  uomini di Al Qaeda e guerriglieri Shabab. Una tragedia umanitaria dove la mancanza di solide istituzioni, e il perenne stato di disordine, hanno aggravato la drammatica situazione della siccità e della conseguente carestia. In questi giorni il Wfp, Programma alimentare mondiale, è riuscito ad attivare un corridoio alimentare aereo per distribuire aiuti alla popolazione e questa è una buona notizia ma sa purtroppo di già sentito: noi siamo sempre quelli che corriamo in aiuto a fare gli eroi, ma dopo qualche settimana abbiamo già dimenticato tutto. Si parla forse ancora di Haiti? Eppure certo non stanno meglio di prima.

Aiutiamo il popolo somalo, ora e non solo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

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Norvegia, le rose della civiltà

postato il 27 Luglio 2011

Nel profondo inverno del 2009 il vento gelido del Mare del Nord accoglieva con sé il respiro di Arne Naess, il più importante pensatore della filosofia norvegese.   Ness, che già a 27 anni aveva una cattedra all’Università di Oslo, è il fondatore della ecosofia o come la chiamava lui della T sofia, dal nome del monte Tvergastein, rifugio solitario nel cuore della Scandinavia in cui rifletteva  sull’ecologia “profonda”. Ness sosteneva il valore intrinseco delle realtà naturali. Pensava infatti che se tutto ciò che esiste è correlato, se cioè “tutto dipende da tutto”, l’essere umano non è più separato dal mondo naturale ma ne è solo una parte.

La Norvegia è stato il terreno ideale di questo pensatore, terra di montagne e fiordi che oltre a elementi naturali sono simboli di un paese con 33 parchi naturali e decine di aree protette. I valori norvegesi si ancorano su una società contadina che viene celebrata nella festa nazionale facendo indossare ai bambini i costumi di un’idilliaca società bucolica. Ma la Norvegia non è solo natura: lo notiamo subito guardando l’indice ISU. L’ISU è un indicatore di sviluppo macroeconomico che al contrario del PIL non considera solo i beni materiali e i servizi prodotti ma tiene conto di numerosi fattori sociali come l’istruzione, lo sviluppo dei servizi sociali e della sanità, la promozione dei diritti umani. L’ISU vuole misurare non la ricchezza ma il benessere. Ebbene, al primo posto dell’indice ISU troviamo proprio la Norvegia. Eppure i norvegesi sono uno dei popoli con il numero più elevato di tasse. Ma le pagano sicuramente più volentieri di noi perché sanno che il loro Stato si prenderà cura di loro “dalla culla alla tomba”, come recita un vecchio andante del pensiero socialdemocratico, in un welfare state  che copre tutti i servizi dello stato sociale. Si può essere d’accordo o meno con questo sistema e preferire dei modelli più liberali e sussidiari, ma certo c’è da tenere della buona realizzazione del welfare scandinavo. Le pagano volentieri perché oltre a un grande comprensione e amore per la natura sono animati da una fede luterana che ha contribuito a sviluppare in loro una morale di responsabilità che si è manifestata anche nell’economia e negli aspetti della loro vita , come alcune scuole storiche di pensiero insegnano.  Un paese con una sincera cultura giuridica in cui il massimo della pena di detenzione è 21 anni perché hanno fiducia nella possibilità degli uomini di redimersi e di essere riaccolti nella società, vera missione che l’istituzione carceraria dovrebbe avere attraverso la pena che troppo volte è invece considerata un fine e non un mezzo .

Ma anche nella favole entra il male. Male che ha volte ha la faccia di un ragazzo come tanti, ma nel cuore il seme della morte e della dolore. Un uomo che ha messo un  paese in ginocchio, che ha avvelenato la gioventù di Oslo, estremista anti-islam, massone, ultra-conservatore,  amante dei giochi di ruolo di violenza, scrittore di un vero e proprio manuale di terrorismo di 1500 pagine, fondatore di un ordine neo-templare, un folle che sognava  nei suoi incubi di far saltare in aria le raffinerie siciliane e di attentare alla vita del Papa. Per la Norvegia un numero di vittime, 92, che equivale al numero di morti violente di tre anni e uno dei giorni più bui dopo la fine della II° guerra mondiale in cui si mantenne neutrale ma fu schiacciata dai panzer hitleriani che la ritenevano strategica.

Ma il Paese che assegna ogni anno il premio Nobel per la Pace ha risposto così al male: con una marcia di rose: 150.000 persone intorno al municipio di Oslo che con dignità e compostezza hanno levato in aria i loro cuori e i loro fiori delicati. Breivik ora rischia 21 anni, forse 30, massimo 35 se sarà riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità e di possibilità di reiterazione di strage. Tutto questo mi ha fatto molto riflettere e pensare anche al mio paese in cui la cronaca nera diviene facilmente protagonista di prime serate e passa di bocca in bocca, dove migliaia di persone fanno la coda per assistere ai processi di assassini come Rosa e Olindo e gridare e gracchiare contro il colpevole, in una giustizia forcaiola dove la pena non è un mezzo di punizione e redenzione ma molto più spesso vendetta. Può esistere una cultura e una diversa mentalità. Onore al popolo norvegese!

Riceviamo e pubblichiamo Jakob Panzeri

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Lega indegna, usa le missioni per regolamento conti nella maggioranza

postato il 7 Luglio 2011


Quello che sta facendo la Lega e’ irresponsabile: utilizza le missioni internazionali per un regolamento di conti nella maggioranza. Si tratta di speculazioni indegne. Noi, come sempre, saremo responsabili e non faranno mancare il sostegno ai nostri militari impegnati all’estero.

Pier Ferdinando

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In Siria c’è voglia di democrazia, ma il regime risponde con l’esercito

postato il 15 Giugno 2011

In Siria, la Primavera Araba non ha nulla che ricordi il dolce clima della Bella Stagione, si è abbattuta come un uragano sul regime degli Assad.

Il popolo siriano, fiero ed eroico, da ormai quasi tre mesi sfida la repressione del regime, che non lesina violenze per continuare a perpetrare la propria ossessiva e disperata sete di potere, dissetandosi ogni giorno col sangue di decine di uomini e donne colpevoli di desiderare la propria libertà.

La situazione politica Siriana è certamente molto complessa, benché il fenomeno delle Rivoluzioni che hanno investito gran parte dei paesi dal Nord Africa al Medio Oriente sino al Golfo Persico sembri uniforme, esso va letto nell’ottica delle strutture sociali che sono predominanti nei singoli Paesi interessati. In Egitto ed in Tunisia i movimenti di rivolta hanno raggiunto in breve tempo il proprio obbiettivo, anche grazie ad un tessuto sociale più omogeneo e non polverizzato dall’appartenenza a distinti clan e tribù; ciò ha permesso anche la secolarizzazione dei movimenti di protesta, consentendo l’esclusione da parte dello stessa società civile, di elementi vicini al fondamentalismo.

Diversi sono i casi della Libia, della Siria e dello Yemen. Il regime di Gheddafi poteva contare sino a poco tempo fa su di un efficiente apparato repressivo, retto da membri della sua tribù d’origine, tutt’ora fedeli al rais. L’intervento internazionale ha pesantemente compromesso la possibilità di soffocare nel sangue con successo la rivolta, che divampa tra i clan e le tribù storicamente rivali del Colonnello, concentrate nella Cirenaica.

In Yemen, il fenomeno tribale si fonde in una pericolosa miscela col fondamentalismo islamico; è alto il rischio che lo stato del Golfo, in caso di una prolungata instabilità politica, possa sprofondare in una condizione simile alla Somalia, divenendo un buco nero internazionale.

La Siria a sua volta versa in una situazione diversa rispetto a quelle testè analizzate. Il regime della famiglia al-Asad è al potere ininterrottamente dal 1971. Il padre dell’attuale presidente, Hafiz al-Asad riusci a prendere il controllo del partito di maggioranza nel paese, il Baath, trasformandolo in breve tempo nell’unico ammesso nella vita politica. Paradossalmente il partito Baath, socialista e nazionalista era lo stesso al potere in Iraq sotto la guida di Saddam Hussein, tuttavia i rapporti tra le due nazioni furono a lungo molto tesi in quanto i vertici alla guida dei rispettivi partiti rappresentavano due linee politiche avverse. L’apice dello scontro fu raggiunto nel 1991, con l’adesione della Siria all’Operazione Desert Storm a guida statunitense.

Il “Camerata Combattente” (come la propaganda definiva il dittatore) faceva parte di una minoranza religiosa sciita, quella Alawita, di cui fa parte anche l’attuale capo di stato, Bashar al-Asad. L’appartenenza a questa minoranza permise da una parte di tenere accentrato il potere nelle mani di una ristretta cerchia di persone; il problema si fece tuttavia rilevante quando negli anni ’80 i Fratelli Musulmani, forte movimento sunnita, si sollevarono nel paese, liberando la città di Hama. La reazione del regime anche allora fu incredibilmente dura: Hafiz al-Asad, ex generale dell’aeronautica, ordinò l’assedio ed il bombardamento con l’artiglieria. Nella repressione che seguì alla caduta della città si stima che le vittime fossero state tra le 10.000 e le 20.000.

Il regime fu scosso solo dal proprio interno, con alcuni tentativi di golpe mai portati a termine: il più famoso fu quello promosso dallo stesso fratello del presidente. Una volta sventato, fu inviato su ordine diretto del capo di stato in “missione permanente” in Francia.

Negli anni ’90 si fece pressante il problema della successione nella carica di presidente. Originariamente il delfino era Basil al-Asad, figlio maggiore di Hafiz e fratello dell’attuale rais. Tuttavia, alla sua morte in un misterioso incidente stradale, fu designato questo schivo giovane oftalmologo come erede al trono. Bashar, ritenuto da sempre poco interessato alla politica successe al padre nel 2000. Il mondo ripose in lui nei primi anni una flebile speranza di modernizzazione e progressiva apertura del paese.

Apparve però presto chiaro che i poteri forti del regime indirizzavano la sua linea politica verso una continuità con quella paterna, dimostrandosi tuttavia a tratti persino più intransigente, come nel caso dello stop imposto ai negoziati iniziati dal defunto presidente con Israele per la risoluzione della questione del Golan. Bashar oggi incarna la parabola di una continuità perversa; un giovane leader che non riesce a smarcarsi da una politica ormai superata, la cui legittimazione promana esclusivamente dall’alto ed è totalmente scissa dalla volontà popolare, la perpetrazione di un sistema politico vecchio, che lotta per non annegare nel mare della Rivoluzione.

L’Occidente si è dimostrato cauto, ma non a torto: in ballo c’è la partita nucleare con l’alleato storico della Siria: l’Iran. E’ evidente che un intervento più incisivo delle sanzioni in discussione in questi giorni da parte del Consiglio di Sicurezza, non sarebbe immaginabile. Nel paese convergono infatti gli interessi strategici degli attori internazionali che si oppongono al declinante potere degli Stati Uniti: la Russia, con la sua base navale a Tartus e la Cina, che vede nella Siria la testa di ponte per una penetrazione in Medio Oriente, non sembrano interessate a mettere in discussione la propria strategia geopolitica e le commesse di armi per diversi centinaia di milioni di Euro.

Nella partita gioca un ruolo rilevante la consapevolezza di questi stati di rischiare di trovarsi domani un governo ostile se la Rivoluzione avesse un esito positivo, rischio che ad oggi sembra siano disposti a correre, appoggiando tacitamente la repressione siriana. Israele intanto attende gli sviluppi di una situazione che potrebbe invece alleggerire la pressione dei paesi confinanti sui propri confini.

Siria e Israele sono tutt’oggi ufficialmente in guerra, poiché sin dalla conclusione della Guerra dei Sei Giorni, ed in seguito da quella dello Yom Kippur, non fu mai siglato un trattato di pace. Tel Aviv occupa ancora il 95% delle Alture del Golan, posizione strategica che consente allo Stato Ebraico di avere una preminenza militare ed un vantaggio in termini di gestione delle risorse idriche regionali.

Con l’ascesa al potere di Bashar al-Asad, sono tornati a soffiare venti di guerra sul confine, culminati nell’ operazione “Orchard” delle forze aeree israeliane nel 2007, diretta ad arrestare l’avvio di un programma atomico siro-iraniano nel sito di Al Kibar. In Libano le conseguenze delle proteste potrebbero essere altrettanto incisive. La storia dei rapporti tra il Paese dei Cedri e l’ingombrante vicino è da sempre difficile.

Nel 1976 fu dispiegata in Libano una forza multinazionale a guida siriana, per tenere sotto controllo l’escalation di violenza a seguito dell’esplosione della guerra civile. Benchè sin dagli anni ’80 il mandato non fosse stato rinnovato dal governo libanese, la presenza militare siriana permase sino al 2005.

Il ritiro fu ultimato a seguito delle proteste popolari per l’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri in un attentato dinamitardo, che una commissione d’inchiesta indipendente ha attribuito ai servizi segreti di Damasco. Noto è anche il coinvolgimento insieme all’Iran, nel finanziamento di movimenti riconducibili alla galassia fondamentalista, tra cui preme ricordare Hezbollah.

La maggiore aggressività mostrata dal giovane presidente in politica estera nei primi anni di governo potrebbe essere dovuta ad una necessità di legittimarsi di fronte all’ala oltranzista dell’establishment. In tutto ciò la diplomazia europea potrebbe avere una funzione potenzialmente decisiva, visti gli interessi economici che l’Iran, spesso visto come deus ex machina delle decisioni di Damasco, nutre nei confronti del Vecchio Continente.

Sta alle potenze occidentali trovare il coraggio di schierarsi con i popoli oppressi che chiedono a gran voce una cosa troppo a lungo negatagli: la Libertà.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Libia: mozione indecorosa e ridicola, pagina buia per l’Italia

postato il 4 Maggio 2011

Questa mozione della maggioranza sulla Libia è ridicola, ma è coerente con la nostra linea politica che è ridicola. Siamo l’unico Paese che è passato ‘non bombarderemo’ al ‘bombarderemo’. Prima le frecce tricolori andavano in Libia a fare delle esibizioni sulla casa di Gheddadi, oggi fanno un altro tipo di esibizioni, diverse ma sempre sulla casa di Gheddafi.
Su queste cose un Paese serio non scherza. Avevamo di fronte due scelte: o non partecipare come diceva la Germania o partecipare come chiedeva la Francia. Tutto il resto non conta nulla.
La mozione della maggioranza di fatto fissa un termine, ma sapete che non si può fissare un termine alla missione, la bacchetta magica non ce l’ha nessuno. E’ indecoroso tutto, e’ una pagina nera della politica estera dell’Italia e delle sue relazioni internazionali. Stiamo facendo una campagna elettorale sulle spalle dell’Italia e sulla vita dei nostri militari.

Pier Ferdinando

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La mozione Pdl-Lega è una gran buffonata

postato il 4 Maggio 2011

Immorale che la  Lega abbia fatto la campagna elettorale sulle spalle dei nostri militari

La mozione congiunta Pdl-Lega sulla Libia è una gran buffonata, una cosa triste che la politica estera italiana sia ridotta in questo modo. C’era già una mozione votata dal Parlamento. Hanno pasticciato, hanno messo cose ridicole, come la data certa di fine dell’azione e poi l’inserimento del reato di immigrazione clandestina, già respinto dall’Ue. La Lega ha fatto la campagna elettorale sulle spalle dei nostri militari e questo è profondamente immorale. Se Berlusconi – come sostengono i leghisti – ha fatto cose così scorrette nei loro confronti, su una vicenda di questo tipo un partito serio fa la crisi di governo, non un’ammuina che serve solo a prepararsi alla campagna elettorale.

Pier Ferdinando

 

 

 

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L’uccisione di Bin Laden è duro colpo al terrorismo

postato il 2 Maggio 2011

Risultato ottenuto grazie anche alle azioni militari italiane

L’uccisione di Osama Bin Laden e’ un duro colpo al terrorismo, un risultato ottenuto grazie anche alle azioni militari a cui l’Italia partecipa sulla scena internazionale. Se c’e’ una lezione che si deve cogliere da questa vicenda è che la politica estera e’ una cosa seria e che non si scherza con gli impegni internazionali dell’Italia.
Il nostro Paese ha un grande ruolo sullo scenario internazionale da difendere, e lo difendono i nostri militari che partecipano a missioni che anche indirettamente producono risultati importanti.

Pier Ferdinando

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