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Le modifiche del pagamento IVA agevoleranno i commercianti e i piccoli imprenditori

postato il 12 Ottobre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Nell’ottica di agevolare le piccole imprese e i commercianti per alleggerire la crisi, il governo ha giustamente modificato il regime di IVA per cassa.

Si tratta di un provvedimento perché va incontro a circa il 95% delle imprese e degli autonomi in Italia.

Cosa significa nel concreto avere modificato questo regime? Per comprendere bene la portata di tale modifica, facciamo un salto indietro all’art. 6 del D.P.R. n. 633/72 che disciplina, in materia di IVA, il momento dell’effettuazione dell’operazione e dunque il momento rilevante ai fini dell’esigibilità dell’imposta.

Il primo comma del suddetto art. 6 stabilisce, come principio generale, che la cessione dei beni si considera effettuata per i beni mobili all’atto della consegna o spedizione, per i beni immobili all’atto traslativo della proprietà (stipula contratto e consegna chiavi). Il terzo comma, invece, stabilisce che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento.

Però a questi principi generali si oppongono delle eccezioni, di cui la più rilevante è contenuta nel comma 5 del medesimo art. 6 quando prevede il differimento dell’esigibilità dell’IVA per le operazioni effettuate nei confronti di specifici soggetti, quali Stato ed Enti Statali, Camere di Commercio, Istituti Universitari, Unità Sanitarie Locali, ecc. In sostanza, i cedenti e/o prestatori possono posticipare l’esigibilità dell’IVA dovuta sulle fatture relative alla cessione dei beni o alla prestazione di servizi al momento dell’effettivo incasso, evitando in tal modo di impiegare risorse finanziarie per anticipare l’IVA su vendite o prestazioni non ancora incassate.

Il principio generale stabilisce quando una vendita si considera conclusa e nasce l’obbligo di versare l’IVA allo Stato, anche se non vi è ancora stato trasferimento di denaro. Ovviamente a questo punto abbiamo che, una azienda o un commerciante che vende della merce, anche se non ha incassato il denaro, si trova a pagare l’IVA e questo può presentare un problema.

A questo principio generale c’è una eccezione importante, il cosiddetto regime di “IVA per Cassa”, con il quale il commerciante può posticipare il pagamento dell’IVA al momento dell’effettivo incasso.

Questa eccezione era stata introdotta nel 2010 con la direttiva comunitaria 2010/45, cui era seguito, nell’aprile 2011, il pieno recepimento nell’ordinamento italiano, ma con alcuni vincoli importanti (come quello che le operazioni per i differimento dell’IVA, doveva prevedere la cessione di beni e servizi non a privati), in particolare quello del volume d’affari che non poteva essere superiore ai 200.000 euro annui.

Questo limite era stato osteggiato da C.N.A. e da Rete Imprese, e il governo Monti ha deciso di elevare questo limite, portandolo da 200.000 euro a 2 milioni d ieuro.

In pratica il differimento dell’IVA con il decreto Sviluppo Italia 2 dei giorni scorsi, si applica a tutte quelle aziende e commercianti che hanno realizzato un fatturato minore di 2 milioni di euro nell’anno precedente.

Questa modifica permette di allargare tale agevoalzione alla maggior parte delle aziende e commercianti italiani, ma soprattutto va incontro alle esigenze di cassa dei piccoli commercianti e artigiani che, più di altre attività produttive, possono avere problemi di liquidità.

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Perché è l’Italia ad avere bisogno di questa stagione politica

postato il 12 Ottobre 2012

di Vincenzo Pezzuto

Con il governo Monti in poco meno di un anno si è dato il via a Spending review, agenda digitale, liberalizzazioni, è stato riconsegnato all’Italia potere decisionale in ambito comunitario. Eppure c’è chi ad oggi sostiene un Premier, osannandone la spinta riformatrice, ma al contempo gli chiede di farsi da parte. Come se Monti fosse solo una piccola parentesi, un bisogno momentaneo. Per cosa poi? Qualcuno risponde per la democrazia. Si badi, non si parla di democrazia nel senso etimologico di “governo del popolo”, ma di ritorno allo scontro urlato ed aspro delle primarie, delle alleanze fallite, del fantomatico ritorno in campo del Cavaliere rottamatore dell’euro. Proprio quello che serve al Paese in un momento di forte instabilità finanziaria. C’è chi chiede, tralasciando un dato cruciale, di andare oltre la seconda repubblica, di aprire una fase tutta nuova nella storia repubblicana. La vita delle fasi repubblicane coincide con dati ben precisi e non con vicende giudiziarie od altro. Ogni periodo corrisponde alle rispettive stagioni delle riforme. Soprattutto perchè ad oggi paghiamo le conseguenze di quelle scelte scellerate. Basti pensare al federalismo fiscale leghista (fummo gli unici a votare contro) approvato senza il completamento di quello istituzionale, alla riforma del Titolo V, approvata dalla sinistra senza stabilire con precisione “chi fa cosa”, con dei costi insostenibili per la collettività (la spesa regionale è aumentata di 90 mld). Se le varie fasi hanno fallito è perchè le relative stagioni di riforme hanno deluso. Ma ce n’è una (quella Monti) che in controtendenza, non ha portato al fallimento (o meglio al default) e per questo motivo merita di proseguire nel segno della crescita. Merita perchè si è, in poco tempo, aperta a riforme mai affrontate ed imprescindibili per la vita del Paese. I principali sostenitori di questo Governo si espongono quotidianamente alla luce del sole, senza timori e ripensamenti e, con la stessa chiarezza di questi mesi, sosterranno il Monti-bis ed il piano di riforme avviato, perchè è l’Italia ad averne bisogno.

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Senza il Concilio forse non sarei neppure cattolico

postato il 11 Ottobre 2012

di Paolo Giuntella

L’11 Ottobre 1962 si apriva il Concilio Vaticano II. Vogliamo ricordare l’evento con un articolo di Paolo Giuntella, giornalista del Tg1 prematuramente scomparso il 22 maggio 2008

Senza il Concilio Vaticano II forse non oggi non sarei cattolico. L’ho detto e ripetuto spesso negli anni, ma soprattutto l’ho scritto e ripetuto nei mesi del 40° compleanno del Concilio. Ho sempre detto, o scritto forse perché naturalmente le vie del Signore sono infinite e tanto più, per quanto uno possa avere una testa narrativa, è difficile immaginare a ritroso delle scelte frutto di un condizionale, anzi di un congiuntivo che regge un condizionale: “Se non ci fosse stato il Concilio sicuramente oggi non sarei cattolico”. Non lo so e naturalmente non posso dirlo. Ma questa è la mia netta sensazione di oggi. E perciò lo dico, senza enfasi celebrativa. Perché noi siamo poco avvezzi a ricordare come era la Chiesa prima del Concilio. Spiritualità intimiste, trionfalismo ormai perdente e sopravvissuto a sé stesso, nostalgie del potere temporale, doppia morale, primato della facciata pubblica rispetto all’autenticità e alla coerenza, liturgia in latino cioè in una lingua sconosciuta per il novanta per cento dei cattolici di tutto il mondo, e dunque ritualità che finivano per diventare – anche al di là delle migliori intenzioni e della fede più convinta e genuina – per la maggioranza dei “fedeli” riti avvolti dall’incanto o dal tormento, velati di una sorta di magia, spesso vissuti dalla gente semplice ma anche dalle buone signore della borghesia o dell’aristocrazia più bigotta, con superstizione, o tradizioni popolari.

E’ vero che c’erano stati negli ultimi secoli anche pontefici squisitamente religiosi o pastori e persino riformatori, ma il conflitto irrisolto e perdente con la Modernità, la nostalgia – anche nei migliori – dell’ordine sociale cristiano perduto, delle gerarchie perdute della cristianità, lo sfaldarsi della morale comune che, in molti paesi europei, coincideva con la morale formale, con i costumi esteriori cristiani, condizionavano la vita dei cattolici, soprattutto giovani. Certo, c’erano stati anzitutto i santi, e spesso santi rivoluzionari o poveri alla Benedetto Giuseppe Labre (in totale direzione alternativa alla corte pontificia romana e alle corti di re cattolici o agli stili di vita di ricchi aristocratici e borghesi proprietari agrari “cattolici”).

C’erano stati teologi e intellettuali (per tutti un nome, John Henry Newman). C’erano stati profeti sociali e avanguardie politiche, “les abbés democrates”, i laici cattolici pionieri democratici, i cattolici liberali e cristiano-sociali. E poi era arrivato l’insegnamento sociale della Chiesa dalla “Rerum Novarum” in poi e un intenso movimento di rinnovamento degli studi biblici, di intellettuali, di grandi convertiti, da Oxford ai francesi, da Chesterton a Jacques Maritain. E ancora: il grande rinnovamento teologico degli anni ’50, la “Nouvelle Théologie francese, la spiritualità dell’imitazione del Gesù povero di Charles de Foucauld e dei suoi eredi spirituali, i piccoli fratelli e le piccole sorelle. C’erano i preti alla don Mazzolari e don Milani, alla papa Giovanni, certo, e i parroci come quello dell’Albero degli zoccoli, il film di Olmi.

Ma la prima immagine della Chiesa che aveva un bambino degli anni ’50 ed un adolescente dei ’60, era quella del monsignore romano, vestito di rosso con scarpe con fibbia d’argento e gran cappello, che l’8 dicembre arrivava in piazza di Spagna per portare i fiori alla colonna dell’Immacolata scendendo da una lunga Mercedes nera, con l’autista in livrea che gli apriva lo sportello. E come dimenticare le strazianti messe cantate delle 11.00 e la messa dei signori, dei ricchi borghesi, delle contesse impellicciate e ingioiellate, delle 12? E per di più in quegli anni, vale la pena ricordarlo, la maggioranza degli italiani era proletaria, contadini ed operai, e gli analfabeti superavano il 50 per cento. Per tutti loro, come per la massa dei diseredati analfabeti del Congo o del Salvador, delle Filippine e del Nord Est del Brasile, la messa era in latino. La Bibbia era quasi proibita, comunque ritenuta in grave sospetto, un libro “sconsigliato” come i film di Alberto Sordi, anche se poi al catechismo ti facevano studiare personaggi ed episodi dell’Antico Testamento e del Nuovo. Nella mia parrocchia, nel giorno del tesseramento dell’Azione Cattolica, i bambini iscritti stavano in prima fila e facevano per primi la comunione ricevendo un’immaginetta regalo. E a me tutto questo faceva una grande rabbia e, più ancora – papà che mi proibiva di iscrivermi e protestava con il parroco dicendo che nella Chiesa non ci sono figli di serie A e di serie B, e che, anzi, Gesù aveva proprio predicato la cacciata dei figli dell’oca bianca in ultima fila e aveva chiamato in prima fila poveri, barboni, prostitute e i famosi pubblicani che io, poi, non capivo bene che cosa fossero. Pensavo che fossero come quelli che venivano a leggere le bollette del gas.

E tutti i libri di teologia e spiritualità che leggeva papà, e che ordinava nella libreria francese di Roma, erano “proibiti”, non tradotti in italiano. Ed io, che ero l’unico a subire un po’ di fascino governativo ed ortodosso perché ero l’unico della famiglia ad ascoltare la radio, e dunque l’unico ad assorbire anche l’informazione ufficiale, ero preoccupato da questa attività semiclandestina di letture eretiche di papà e di incontri segreti dopo cena nella nostra camera da pranzo. In realtà poi, gran parte degli autori dei libri proibiti degli scaffali della libreria di papà sarebbero diventati cardinali: Journet, Danielou, De Lubac, von Balthasar, Congar. E un altro mito di papà, Giorgio La Pira, era il bersaglio preferito dei giornali più venduti a Roma e di un giornale cattolico che arrivò a definire Aldo Moro un “Rospo” schifoso e ributtante, in un editoriale del 1962 quando si stava preparando il primo governo di centro sinistra.

Si pregava per la conversione dei “perfidi ebrei” (anche se proprio Giovanni XXIII avrebbe ottenuto la rinuncia a quella orribile preghiera della liturgia del Venerdì Santo) ed era proibito anche solo entrare nelle Chiese protestanti. Ed io, che avevo un papà innamorato degli ebrei e persino degli zingari per via del campo di concentramento nazista e che era pacifista e favorevole all’obiezione di coscienza, ero sempre tentato di andare a vedere che cosa c’era dentro la Chiesa valdese di piazza Cavour. Sentivo il fascino di quella chiesa cristiana eppure proibita, e insieme l’orgoglio ma anche il timore, di un padre che frequentava ebrei, protestanti e zingari…E poi l’”Osservatore Romano” che arrivò a censurare il Papa, l’omelia di Giovanni XXIII in una parrocchia romana…

Ora, lo si voglia o no, il Concilio fu veramente una rivoluzione copernicana, come disse il teologo – un altro super proibito amatissimo da papà – Marie-Dominique Chenu. Fu per noi, per me, come se la Chiesa, dei monsignori di curia, la Chiesa delle Mercedes, la Chiesa delle zitelle bigotte e delle signore impellicciate che pensavano di risolvere il problema dei poveri e della giustizia sociale con qualche elemosina e consideravano La Pira un pericoloso comunista, questa Chiesa spalancasse le finestre per far uscire l’aria viziata e le porte per far entrare tutti “i sospetti”.. Pulizie pasquali e rinnovamento delle tinture delle pareti, dei mobili, della cucina della Casa di sempre. Per molti di noi allora giovani, ma anche per molti adulti, per gli intellettuali cristiani, ma anche per persone molto semplici, queste pulizie, questo ammodernamento delle mobilia, cioè essenzialmente la riconciliazione con il mondo moderno, con l’umanità contemporanea e le sue culture, non più considerate perdute e nemiche, sono state una tappa fondamentale. Per noi, che vivemmo in particolare a Roma quella stupenda, esuberante atmosfera, questa invasione di vescovi e teologi da tutto il mondo – la scoperta di tanti vescovi e cardinali poveri che affittavano piccole cinquecento Fiat per arrivare in 4 ai lavori in Vaticano – e tutta la serie di incontri, conferenze, opportunità, scoperte, fu davvero una primavera. Non tutti avevano, i miei amici, alle spalle una famiglia vaccinata: a casa mia entravano solo riviste cattoliche francesi, papà seguiva il Concilio su Le Monde, io che all’inizio ero più moderato su La Croix, solo più tardi ci abbonammo all’Avvenire d’Italia di Raniero La Valle. Ricordo con precisione un episodio, come fosse ieri, quando andammo ad ascoltare il cardinal Suenens, arcivescovo di Bruxelles. Un mio amico disse al padre che andava al cinema. Perché se il padre fosse venuto a sapere che era andato a sentire il cardinale progressista, lo avrebbe chiuso in casa. In genere un ragazzo – e né il padre né tanto meno lui, il mio amico, erano bigotti – magari a quindici anni diceva che andava a sentire un cardinale e poi andava al cinema o diceva che andava in parrocchia e poi usciva con gli amici e le mitiche, allora per noi catto-imbranati, ragazze. Mai il contrario eppure, questo lo ricordo per raccontare il clima di allora, dire una bugia per andare a sentire un cardinale! Ma senza volerlo il buon cardinal Suenens ci ripagò quando, nella sala affollatissima, cominciò a parlare degli schemi preparatori, da cui sarebbero scaturite le costituzioni conciliari. Parlava un perfetto italiano ma con marcata inflessione francese. Così cominciò a parlare di “Scemi del Concilio”, pronunciando la parola schemi appunto alla francese. Resisti la prima volta, resisti la seconda, alla terza non ce la facemmo più ed esplodemmo in una fragorosa, e contagiosa, sonora risata. E dovemmo dare, naturalmente una divertente spiegazione al cardinale…

Per noi fu quella la scoperta di una teologia più vicina alle nostre esigenze, alle nostre sensibilità, alla nostra cultura studentesca per quanto appena ginnasiale e liceale, al nostro bisogno di coniugare fede e cultura, fede e intelligenza e poi, progressivamente fede e storia, fede e politica, ma oltre i tradizionali labirinti della scolastica e del collateralismo obbligatorio con il partito ufficiale d’ispirazione cristiana. Scoprivamo la Chiesa dei poveri, o almeno che la povertà non era soltanto un voto per religiosi o una specializzazione dei francescani, ma uno stile di vita per tutti i cristiani, laici, padri di famiglia, intellettuali o professionisti che fossero. Scoprivamo il terzo e quarto mondo, il drammatico fossato che divideva ricchi e poveri del pianeta, ed una spiritualità dell’essenziale (Charles de Foucauld) ed inesplorata foresta di cultura teologica e politica e di impegno.

Poi ci fu la grande speranza e la grande euforia per la riforma liturgica e le belle avventure nelle nostre messe dei giovani con omelia dialogata, chitarre anche elettriche, e nuove canzoni – alcune delle quali oggi, quarant’anni dopo resistono ancora sulla breccia ma sono ormai lagne quasi insopportabili – e soprattutto, la Bibbia. Destrutturammo, Costituzioni conciliari alla mano, le associazioni di base, fondammo gruppi biblici a ripetizione molto vissuti, alternando cineforum parrocchiali e doposcuola nelle borgate, scoutismo e sogni di un mondo diverso. Ma non fu tanto questo, che ci fece restare nella Chiesa, quanto la liberazione dai silenzi, dagli incensi, dai passi felpati, dagli eccessi di prudenza, dagli obblighi di riverenza, dalle paure, dalle proibizioni.

Emmanuel Mounier ha parole terribili in molti suoi articoli e nel suo libro straordinario L’Avventura cristiana (L’Affrontement chréthien) contro la falsa “prudenza”, contro le virtù deformate, il capovolgimento della gerarchia delle regole dell’«intimidazione morale, del moralismo che mette “la protezione prima dell’amore, una caricatura della Prudenza prima delle virtù teologali. Ama et fac quod vis, non vuol dire riscaldati e fai il pazzo, ma vuol dire che l’assoluta subordinazione di ogni virtù, anche la sacrosanta prudenza, alla Carità, libera uno schiavo e dilata la vita».

Ma soprattutto fu per noi fondamentale la scoperta di una fede adulta possibile, senza rottura con le nostre conquiste culturali, con le esigenze della nostra intelligenza, senza dover rinunciare ad essere contemporanei; e la riappropriazione della Bibbia, della Parola di Dio. Insomma la scoperta delle fonti ed il respiro forte dei maestri, da Emmanuel Mounier a Thomas Merton da De Lubac, Congar, Chenu, a Rahner, da Helder Camara a La Pira. E poi l’incontro con punti di riferimento ecclesiali come il cardinal Pellegrino…

Giovanni Bachelet ricorda che io dicevo sempre, con una lieve celia, che noi eravamo “cattolici del consenso”, per dire in altre parole che se coltivavamo il dissenso politico e i sogni di una intera generazione, la militanza nonviolenta e pacifista contro la guerra in Vietnam, il sogno di un mondo nuovo, amavamo la Chiesa del Concilio, di Giovanni XXIII, di Paolo VI, della Pacem in terris, della Popolorum Progressio e perciò amavamo, con tutte le esuberanze, le sofferenze, le insofferenze ma anche le speranze di quei giorni che ci apparivano sempre cantati, sempre giorni di svolta, di attesa, di preparazione, di coscientizzazione – come si diceva allora – quasi che nuove terre e cieli nuovi fossero davvero a portata di mano e il famoso fiume di Isaia che evocava La Pira fosse davvero vicino alla foce nel grande fiume dei tempi nuovi.

Costruimmo così, tra illusioni e delusioni, euforie e fondamenta solide, la nostra coscienza laicale che la Lumen Gentium e la Gaudium et spes nutrivano e stimolavano ad altre letture, ad altri impegni. Non crediate che questi fossero nutrimenti o manie di élites o di giovani intellettualini. No. Un nostro coraggioso assistente di gruppo giovanile riuscì a farci studiare il Fenomeno Umano di Teilhard de Chardin (non ancora tradotto in italiano) in gruppo. E c’erano anche studenti di scuole tecniche e persino ragazzi che erano stati costretti ad interrompere gli studi per andare a lavorare. A turno alcuni dei grandi che sapevano il francese studiavano un capitolo e, come si direbbe oggi con vocabolo burocratese orribile, “relazionavano”. Cioè spiegavano a tutti il contenuto del capitolo. Capite perché, e grazie a quanti animatori, vice-parroci, assistenti – oltre che a genitori non comuni – ed alle letture che in quel clima di primavera della Chiesa mi furono messe in mano, trasmesse, suggerite, sono rimasto cattolico e grazie a quante persone e testimoni che avevano “preparato” e “sperato” il Concilio, sono rimasto nella Chiesa ed insieme a molti altri coetanei la considero, nonostante tutte le resistenze e le contraddizioni umane, la mia casa.

Alcuni anni fa Ernesto Galli Della Loggia – secondo una tradizione di certi laici non cristiani (non mi piace, come del resto anche a Cacciari, l’espressione non credenti perché nessuno è non credente, mentre l’aggettivo, la qualificazione, di laico spetta anche a me ed io la amo tanto e credo che proprio i laici cristiani siano i maggiori esperti in fatto di clericalismo e dunque i più refrattari e i più combattenti dall’interno della Chiesa) che spesso si impicciano ed in modo conservatore o tradizionalista di cose ecclesiali – scrisse che il Concilio aveva svuotato le chiese. In realtà è vero il contrario. Dobbiamo chiederci quanto sarebbero ancora più vuote le nostre chiese senza la ventata fresca del Concilio, quanti avrebbero abbandonato, quanto più lontana e museale sarebbe stata avvertita dai giovani di allora oggi sessantenni e cinquantenni e ancor peggio dai giovani diciottenni e ventenni di oggi. Si, le chiese sarebbero molto più vuote, di quanto, purtroppo, comunque non lo siano oggi.

Al di là di tutti i meriti della “rivoluzione copernicana” conciliare, la riappropriazione delle Bibbia, la centralità della Parola di Dio, la definizione teologica del popolo di Dio (i laici finalmente tornati come nelle prime comunità cristiane alla stessa dignità sacerdotale pur nella diversità di carisma con i ministri), la riforma liturgica, l’apertura ecumenica alla libertà religiosa, al dialogo con le chiese cristiane sorelle, con l’ebraismo, con le religioni non cristiane, l’apertura del dialogo con il mondo contemporaneo, il ruolo dei laici nell’autonomia della sfera politica e sociale, quel che ha veramente inciso nella nostra vita di laici e nella vita della Chiesa è lo spirito che ha animato il dibattito e la ricerca teologica, il rinnovamento della catechesi, la maturazione della lettura dei segni dei tempi come categoria, come criterio che progressivamente sostituisce la categoria dell’ordine cristiano o della cristianità da ricostruire, il radicale mutamento delle missioni, la ritrovata centralità delle Chiese locali e l’avvio della collegialità. Per noi laici la dignità di popolo di Dio ha significato il tramonto della condizione di “fedeli”, dunque di soggetti e protagonisti, come dire, inferiori, nella Chiesa.

Ora, a quarant’anni di distanza, dobbiamo chiederci che ne è del laicato, della sua dignità e del suo sacerdozio, il sacerdozio universale del popolo di Dio? Dobbiamo chiederci se c’è un processo di ri-clericalizzazione della Chiesa visibile qui in terra, ovvero nuove forme di delega da parte dei laici. Un certo nuovo modello di laico “collaboratore” – io aggiungo “domestico” – dei parroci, dei preti, delle diocesi, una sorta di vice-parroco mancato, di replicante, donna od uomo che sia, in vilpelle del parroco, mi da molto fastidio, mi fa venire la pelle d’oca. E mi mette paura. Mi ricorda, lo dico intendiamoci con affetto e con il sorriso sulle labbra, le “vecchie bizzocche” che riempivano di “sch…” le nostre navate, prima, appunto del concilio, e certi cattoliconi dalla sfumatura alta untuosi o eccessivamente umili, un po’ in ginocchio e un po’ santamente dabbene, che passano per i laici impegnati, prima, appunto del Concilio. Certo i tempi sono cambiati, oggi le collaboratrici e i collaboratori domestici dei parroci sono in jeans e magari con cinte chiodate e accurate capigliature ben colorate, con lo zainetto o la borsa, ed un linguaggio più spigliato, ma il risultato non cambia. Ma è indubitabile che il protagonismo, anche allo stato un po’ selvaggio, ma fertile, dei primi decenni post-conciliari, il periodo d’oro dei consigli pastorali elettivi per fare un solo esempio, si è impantanato. E non solo per una ripresa di centralismo, come dire, “clericale”.. Anche per una progressiva afonia del laicato.

Voglio parlare con voi con assoluta sincerità in un clima di cristiani adulti. Sembra, a quarant’anni di distanza dal Concilio grazie al quale, e grazie soprattutto al suo spirito, in tanti possiamo dire di essere rimasti cattolici, di essere stati stimolati comprendere con più profondità le verità oltre il tempo e lo spazio dell’esperienza cristiana e dell’esperienza di Dio nella Chiesa, si sia esaurita, almeno nel laicato, proprio quella spinta di rifondazione spirituale e culturale, di tensione intellettuale, di ricerca e creatività che invece aveva preceduto il Concilio. Penso alla fine dell’800, al periodo dei grandi convertiti inglesi, ma anche ai primi anni e quindi agli anni ’30, e poi agli anni ’50 e’60 in Francia. Alla stagione dei grandi scrittori, dei filosofi, degli artisti. Penso ai Chesterton, ai Maritain, Bernanos, Rouault, Mounier, a Mauriac, a poeti come Pierre Emmanuel e Mario Luzi o Betocchi, a musicisti come Olivier Messiaen e Mary Lou Williams, solo per fare alcuni nomi, ma si potrebbe continuare a lungo. Certo ci sono numerosi intellettuali, storici filosofi giuristi economisti, ma è come se mancasse un movimento più ampio, un confronto, una serie di cenacoli, una temperie di riviste, case editrici. Soprattutto voci e personaggi comunicativi, coraggiosi, che sappiano squarciare gli orizzonti verso il futuro, senza rimpianti per il passato ma con radici ben piantate ed in grado di essere interlocutori, di proporre interrogativi e speranze ai lontani, ai non cristiani, di essere catalizzatori di dialogo, di incontro, di confronto. Certo c’è una ricchezza di novità, soprattutto nel volontariato, nella cooperazione internazionale, ci sono missionari laici – spesso sconosciuti come era sconosciuta Annalena Tonelli prima di morire, può essere che questo territorio della testimonianza sia più importante, più decisiva, più a misura evangelica. Ma tuttavia il cristianesimo non può neppure essere ridotto – pur nella misura dei santi, dei testimoni che disposti a dare la vita per gli altri – a volontariato, ai filantropia. Forse sono i ritmi pesanti delle professioni, per vivere, la durezza e il rigore della competenze scientifiche, tecniche, amministrative, giuridiche, il terreno nudo e crudo della laicità, che ci prendono molto tempo. Ma io avverto la necessità di tornare a pensare, di educare le nostre comunità a pensare, a cercare, a sfidare il vuoto di senso e di Dio e questo non può essere delegato ai teologi e neppure agli addetti ai lavori. Né però deve essere questo un territorio troppo affollato di dilettanti o peggio di persone che trascurano le loro professioni, la laicità quotidiana, le responsabilità tecniche e scientifiche, o semplicemente professionali, per dedicarsi ad una generica attività catechetica o formativa. La questione è più profonda. Anche se mi rendo conto che l’età della precarietà – la precarietà è dappertutto diceva con felice sintesi Pierre Bourdieu – e dunque della singolarità, della gratificazione istantanea, della ricerca affannosa di felicità liofilizzate, di storie affettive più che di patti, di stabilità affettive, questa incertezza frammentazione e provvisorietà delle convinzioni, non permette il lusso di pensare, di ricercare, se non nei monasteri.

Dovremmo, ripartendo dalla “Gaudium et Spes”, con una lettura critica perché questa costituzione era anche il frutto di una età al contrario delle grandi speranze, dell’ottimismo sullo sviluppo, della fede nel progresso inarrestabile dell’umanità, ed insieme dalla “Lumen Gentium” – e tenendo conto anche della differenze, delle arcaicità di linguaggio rispetto al linguaggio dei giovani e dei trenta-quarantenni – tornare a riflettere sia sulle sfide che sulla dignità, lo statuto, dei laici cristiani.

Ci sono poi dei modelli, degli stili di vita, penso ai condomini solidali (come qui a Milano Villapizzone), alle famiglie affidatarie, a delle forme nuove di fraternità che coinvolgono laici e religiosi in forme di vita comune che rispettano l’autonomia delle famiglie, delle professioni; ai missionari laici non consacrati ma in coppia o aperti a prospettive matrimoniali; a quei professionisti, infermieri, medici, avvocati, che dedicato uno spazio non resicato della loro giornata o le vacanze al volontariato professionale; insomma ci sono moli segnali di un nuovo stile di vita cristiano più legato ai tempi nuovi della fede “nuda” senza assicurazioni sociali, cioè con istituzioni sempre più povere, come prevedeva Giuseppe Dossetti. Sappiamo poi che la crisi delle vocazioni religiose, comunque il confronto tra modernità e vita consacrata, affida ai laici ruoli sempre più importanti come animatori liturgici di liturgie domenicali senza preti celebranti, ormai anche in Europa, responsabilità catechistiche, pastorali, di conduzione della parrocchia o della comunità cristiana locale priva di sacerdote e progressivamente, dunque, di forme equilibrate, serene, senza eccessivi trionfali entusiasmi che poi spariscono di fronte alle difficoltà, di vita comunitaria, di legami di fraternità tra laici immersi nella vita reale professionale e famigliare.

La dimensione comunitaria appartiene del resto, come negli Atti degli Apostoli, a tutto il popolo di Dio, non solo ai preti e ai consacrati. Le Beatitudini, come giustamente scrive in un suo bel libro il biblista Gherard Lofhink, sono rivolte a tutti. Ciascuno e chiamato viverle sperimentando ogni giorno livelli più intensi di mediazione del Vangelo nella laicità senza integralismi, fondamentalismi, infantilismi troppo ingenui, ma senza neppure cinismo e doppia morale. E senza tuttavia imporre ad alcuno il nostro stile di vita, la nostra via al cristianesimo, la nostra tessera di appartenenza o di militanza, come la via esclusiva al cristianesimo.

Ed attenzione: non è vero che l’entusiasmo di cosiddetti atei devoti, e di ammiratori del cristianesimo senza Vangelo, cioè brandito come scudo, insieme ai crocifissi nelle scuole, (e non vissuto come Parola e segni di pace, perdono, accoglienza, dialogo, di Resurrezione, parola e simbolo del Dio Amore, della debolezza della Croce) e la politica di compromessi e trattative per ottenere soldi per salvare il salvabile – e qualche scuola cattolica – possano riuscire a posticipare l’appuntamento con la stagione della libertà e purificazione ma anche della povertà. Il processo è inesorabile ed è stato avviato dalla fine del temporalismo, dal recupero della profezia, dal vento nuovo del Concilio. Il cristianesimo non è né una cultura né una civiltà, tanto meno una ideologia. Il cristianesimo è universale, è la sequela del Dio trascendente, del Dio Amore rivelato agli uomini attraverso la sua Parola, il suo Logos crocifisso e risorto. Appartiene a tutti, è padre di tutti, non è confini geopolitici, non è una identità.

L’espressione più alta di identità cristiana – che altro non è che la capacità d’amare – non è forse quella testimoniata da mons. Romero o dai sette benedettini e dal vescovo di Orange Pierre Claverie assassinati in Algeria?

Condivido profondamente quanto ha scritto a conclusione del suo bel libro di meditazioni pasquali sulle Sette ultime parole di Gesù in Croce (in italiano per le Edizioni San Paolo) Timothy Radcliffe, che è stato maestro generale dei domenicani dal 1992 al 2001. “Cristo crocifisso sulla Croce non è un nostro possesso ma è tutta l’umanità crocifissa”, senza distinzioni di confessione religiosa, di cultura, di appartenenza etica, geopolitica, storica…Dunque la Croce, simbolo dell’accoglienza e non distintivo o arma identitaria e non solo per dividere buoni e cattivi, non può essere innalzata come vessillo, come bandiera: è presente “per tutti gli uomini che soffrono, poiché non appartiene a nessuna causa umana”, dice l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams. E proprio come scrisse monsignor Pierre Claverie prima di essere assassinato, “Gesù morì sospeso tra cielo e terra, con le braccia allargate per riunire i figli di Dio dispersi dal peccato che li separa, li isola e che li pone l’uno contro l’altro e contro Dio stesso. Si collocò sulle linee di separazione sorte da questo peccato”.

Ecco il Concilio, grande graduale paziente ma inesorabile ritorno al futuro, al primato del Regno, agli stili di vita degli Atti degli Apostoli e delle prime comunità cristiane, ci fa riscoprire ogni giorno questa linea di confine, queste linee di separazione, che dobbiamo cercare di colmare e cancellare. E tuttavia per fare questo, come il Cristo Parola Crocifissa, anche noi dobbiamo metterci con le nostre tende su questa frontiera. Il Concilio ci ha permesso di riscoprire la spiritualità dell’esodo, la dinamica del provvisorio, una quotidiana tensione escatologica, una libertà di figli di Dio per i quali ogni confine è il frutto del peccato, della finitezza incompiuta della condizione umana. Perché Cristo e la sua Croce, e così dovrebbero essere spiritualmente i suoi discepoli, sono vita per abbattere i confini: scandalo per i gentili e per i pagani, per identitari, fondamentalisti e perbenisti, simbolo e luogo universale di accoglienza, di liberazione, provvisorio permesso di soggiorno per tutti gli uomini in tutte le terre, in vista della città futura.

Il cristianesimo, nel senso teologico ripetuto da Enzo Bianchi e da Joseph Moingt nel suo bel contributo nel libro affascinante e divulgativo ma colto e intenso La plus belle histoire de Dieu (gli altri due contributi sono di Jean Bottero, già titolare di assiologia alla scuola di Alti studi, e il rabbino e filosofo Marc-Alain Ouaknin Parigi 1997) non è neppure una religione. E’ la liberazione dalla morte, dunque dalle prigionie del limite, della finitezza, per essere redenti dalla condizione finita cioè umana e liberati nella condizione infinita cioè divino-umana. Ecco perché cercare anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia non è compito di preti o consacrati ma vocazione universale di tutto il popolo di Dio a cominciare dai laici.

“Fino all’epoca contemporanea, la chiesa non ha dovuto preoccuparsi più di tanto d’annunciare Dio o l’Esistenza di Dio. Ha sempre vissuto, infatti, in società nelle quali si credeva in Dio, qualunque fosse, E la Chiesa, almeno in parte, si è allineata sulla concezione che questi mondi avevano di Dio. Oggi è radicalmente diverso: molti uomini non credono più in Dio, e la situazione obbliga a ripensare quello che è stato detto”, come cioè è stato presentato Dio. Obbliga alla fatica di pensare, di dire, di annunciare Dio, in modo nuovo e di testimoniarlo con comunità e forme nuove. Insomma il nostro tempo, questo tempo nel quale ci è dato vivere e che Dio ha scelto perché noi lo animassimo, e che in nessun modo possiamo maledire, che non è migliore o peggiore di altri, è semplicemente il nostro tempo, la nostra ora, ci propone e ci impone questa sfida.

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Agenda Digitale trasformerà il Paese

postato il 11 Ottobre 2012

di Giuseppe Portonera

Su questo blog abbiamo ripetuto più e più volte che Agenda Digitale è la tra le più importanti pietre miliari da posare, per costruire un Paese più efficiente, rapido e moderno (abbiamo anche cercato di spiegare perché un kilometro di banda larga è preferibile a un kilometro di autostrada). Una rivoluzione digitale, infatti, sarebbe portatrice di nuovi shock positivi per l’economia, favorirebbe una maggiore inclusione sociale, garantirebbe un livello più alto di trasparenza e controllo. I nostri rappresentanti in Parlamento hanno sempre operato in questa direzione, cercando di rilanciare un’opera di mediazione e collaborazione tra le varie forze politiche, nel tentativo di varare il prima possibile un provvedimento per Agenda Digitale. Il Governo attuale, dopo qualche tentennamento di troppo, ha finalmente deciso di compiere un primo, importante passo in avanti, varando la sua Agenda Digitale. Da ciò che è filtrato (siamo ancora in attesa di leggere il testo del decreto), si tratterebbe di un documento molto interessante, ricco di proposte e progetti accattivanti, che potrà sicuramente essere migliorato al momento della sua conversione in legge, ma che rappresenta – prima di tutto – una vittoria “culturale”, perché denota un cambio di mentalità: finalmente, in mezzo a tante manovre emergenziali per affrontare la crisi (principalmente tasse e tagli) si sceglie di varare un provvedimento del genere, che molto può fare sul versante della crescita.

Il Premier Mario Monti, presentando venerdì scorso il pacchetto, aveva giustamente sottolineato che «Agenda Digitale è un modo per trasformare il Paese», attraverso la circolazione del sapere, la condivisione delle informazioni, la connettività, i servizi digitali al cittadino, che sono «le basi per recuperare il gap tecnologico paese». Le norme, quindi, «puntano in modo ambizioso a fare del nostro Paese un luogo nel quale l’innovazione sia un fattore di crescita sostenibile e produttività delle imprese». Non è un caso se qualcuno ha ribattezzato questo provvedimento come “TrasformaItalia”, e anche gli esperti del settore (come l’ex direttore di Wired, Riccardo Luna) si sono espressi favorevolmente. L’Agenda Digitale del Governo recepisce molti dei suggerimenti e delle intuizioni che noi avevamo avuto nei mesi precedenti: il capitolo sulle Start Up sembra ben fatto, dalla definizione dei caratteri di “impresa innovativa” (sostenere spese in ricerca e sviluppo in misura pari o superiore al 30 per cento del maggiore tra il costo e il valore della produzione; impiegare personale altamente qualificato per almeno un terzo della propria forza lavoro; essere titolare o licenziataria di una privativa industriale connessa alla propria attività) alle misure da attuare in caso di loro fallimento (dato l’alto rischio imprenditoriale, si congelerebbe solo la parte di patrimonio necessaria a ripagare i creditori, senza gravare ulteriormente sulle disponibilità personali dell’imprenditore). Ben congegnate sono anche le novità elaborate su Sanità Elettronica e Giustizia Digitale: vengono introdotti l’Unico Documento Elettronico – che unificherà carta d’identità e codice fiscale – e il fascicolo sanitario elettronico, e accelerate le procedure per prescrivere farmaci via telematica (con risparmi consistenti sui tempi burocratici); mentre tutte le comunicazioni di cancelleria, in tribunale, dovranno avvenire per via telematica all’indirizzo di posta certificata. Viene poi normato, per la prima volta, il crowdfunding, un sistema di raccolta di denaro “dal basso” che sarà regolato e monitorato, e che amplificherà quindi tutele e diritti di chi oggi semplicemente si affidava alla propria buona fede e alla voglia di “donare” risorse.

Certo, lo dicevamo su, il testo del Governo potrà e dovrà essere integrato, migliorato. Alcuni suggerimenti: innanzitutto, deve essere prevista una tassazione agevolata per il commercio dei cosiddetti beni digitali (l’Udc aveva proposto di fissare l’IVA al 4%). Poi – visto che il Ministro dell’Innovazione digitale è lo stesso che ha le deleghe all’Istruzione e alla Ricerca – bisogna programmare una riforma dell’insegnamento dell’informatica nelle nostre scuole (abbiamo bisogno di creare tecnici e professionisti digitali). Infine, come fatto rilevare anche dalla FNSI, si fa sentire la mancanza di una norma che introduca nell’ordinamento italiano i principi di trasparenza del Freedom Of Information Act (FOIA), che permette a ogni cittadino (non soltanto a chi abbia un interesse diretto e personale nella materia) di avere accesso ai dati sull’attività pubblica di ogni tipo e livello. Confidiamo dunque nel Parlamento, che ha già dimostrato grande sensibilità sul tema: Agenda Digitale può davvero trasformare il Paese. Non buttiamo via un’occasione come questa.

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La lezione di Simone Weil per ripensare il futuro dei partiti e della politica

postato il 10 Ottobre 2012

di Giuseppe Portonera

“Crisi”, che è diventato il termine caratterizzante del tempo in cui viviamo, ha una chiara valenza negativa: eppure, la sua etimologia ci fa risalire al verbo greco “krino”, che vuol dire “scegliere”; la “crisi”, quindi, è prima di tutto una “scelta”, che in un dato momento storico si è chiamati a compiere. È nei momenti di “crisi”, infatti, che bisogna “scegliere” cosa salvare e cosa buttare, cosa rivoluzionare o cosa conservare: “krino” vuol dire anche “giudicare”. Vivendo noi in un tempo di crisi, dobbiamo essere pronti a compiere delle scelte, consapevoli che si tratta di costruire un mondo nuovo, perché questo non potrà più tornare ad essere quello in cui eravamo abituati a vivere.

 Sono scelte, certo, che non si possono prendere a cuor leggero, ma che vanno meditate e progettate con cura. Un’occasione di confronto e riflessione è stata offerta lunedì scorso dal Centro Studi Cammarata e dall’Associazione Alcide De Gasperi, che hanno organizzato un dibattito sulla crisi dei partiti, sul superamento della partitocrazia e sulla nascita di nuove forme di partecipazione politica, a partire dalla recente ripubblicazione del “Manifesto per la soppressione dei partiti politici” (Castelvecchi Ed.), opera della filosofa francese Simone Weil. L’incontro è stato organizzato per commemorare il sesto anniversario della scomparsa di mons. Caltaldo Naro, che fu fondatore e direttore per 19 anni del Centro Studi Cammarata, oltre che storico del movimento cattolico tra Otto e Novecento e attento studioso di scienza politica. Relatori erano l’on. Savino Pezzotta (deputato Udc e Presidente della Costituente di Centro), Gianni Notari (gesuita, professore della Facoltà Teologica di Sicilia) e Paolo Liguori (direttore TgCom). I tre si sono confrontati a lungo proprio sull’evidente crisi, di credibilità e progettualità, che ha investito i nostri partiti, e di conseguenza la nostra politica: possibile che avesse davvero ragione la Weil, e che i partiti siano «un male allo stato puro, o quasi?». Le tesi erano diverse, anche se partivano da una comune diagnosi: gli scandali, le polemiche, le rivelazioni degli ultimi giorni che ci vengono dal Lazio, come dal Piemonte, dalla Lombardia o dalla Sicilia, sono la prova – definitiva, certificata – che qualcosa si è rotto. Non si può più parlare solo di “mele marce”: questi non sono più casi isolati, è il contenitore ad essere marcito, ad essere stato infettato e divorato dal malcostume e dalla cattiva politica. I partiti sono quei contenitori: e si deve partire proprio dal curarli, se si vuole frenare l’espansione di questo male letale. Cosa si può fare, dunque? Si deve procedere, prima di tutto, a una seria opera di riforma del concetto stesso di “partito”, mettendo da parte la concezione otto-novecentesca a cui siamo stati abituati e aprendoci invece a nuove forme di impegno politico: perché, come ci insegna anche la lettura del “Manifesto” di Weil, i “partiti” e la “Politica” non sono sinonimi e se pure si può provare a fare a meno dei primi, certo non ci si potrà mai disfare della seconda. Bisogna poi riappropriarsi (come sottolineato da Notari) del senso etico del fare politica: chi sceglie di occuparsi del bene della comunità (unico vero fine dell’uomo politico, sosteneva Weil) deve essere onesto e giusto, non sono accettabili compromessi di sorta. È necessario, poi, recuperare il senso delle istituzioni: per dirla con Pezzotta, i partiti sono un “male” quando tendono a diventare il “tutto”, a espandersi oltre i propri confini, dimenticando il valore di “essere una parte”. Se si correggeranno queste gravissime storture, allora sì che i partiti (o qualsiasi cosa prenderà il loro posto) potranno tornare ad essere il cuore della democrazia, di quel sistema politico, cioè, che ci permette di scegliere come nostri rappresentanti uomini e donne tra i migliori. Se così non dovesse essere, se si continuerà a guardare a questa crisi solo come a una congiuntura momentanea, il risultato non potrà che essere la morte dei partiti (come paventato da Liguori): del resto, André Breton, che firmò la prefazione del volume della Weil, sosteneva che la “soppressione”, o peggio la “messa al bando”, dei partiti sarebbe avvenuta dopo un lungo sforzo di “disinganno collettivo” del popolo. E a guardare le ultime stime elettorali, con il dato degli astenuti e degli incerti in perenne aumento, direi che non siamo molto lontani da una situazione del genere.

Il dibattito è stato foriero di numerosi spunti di riflessione prontamente recepiti, come hanno dimostrato gli interessanti interventi dal pubblico: hanno chiesto e ottenuto la parola esponenti di diverse forze politiche, giovani impegnati, rappresentanti del mondo imprenditoriale locale, operatori nel campo della formazione all’impegno socio-politico. Ciascuno di loro aveva ricette e soluzioni diverse, ma tutte unite da una condivisa sensibilità politica. Che della Politica, intesa come attività sociale e umana, non si possa proprio fare a meno è quindi la prima “scelta” che questo tempo di “crisi” ci impone di compiere. Altre scelte saranno prese, e molte di queste riguarderanno certamente il futuro dei partiti. È a questo proposito che proprio la lettura di Weil ci offre un suggerimento fondamentale: quando e se si tratterà di riformare o rifondare i partiti, bisognerà stare attenti a non dare vita (nuovamente) a «organismi costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della giustizia e della verità», pena la reiterazione di uno stato di crisi da cui, allora, sarà davvero impossibile venire fuori.

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Giustizia: ma quanto ci costi?

postato il 9 Ottobre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano

La Giustizia italiana, purtroppo, è tra le più lente del mondo: ci vogliono addirittura (in media) 1120 giorni per risolvere una controversia giuridica. Più di tre anni per affrontare i tre gradi di giudizio, che portano, secondo le stime di Mario Draghi, presidente della BCE, alla perdita di quasi un punto percentuale di PIL. Per dirla in breve, a causa della lentezza della giustizia italiana, lo Stato perde circa 18 miliardi di euro, che invece potrebbero significare investimenti proficui e benefici enormi per l’economia.

Il risultato è questo: le aziende, italiane e soprattutto straniere, preferiscono investire altrove, lì dove non è necessario affrontare 41 passaggi prima di risolvere una controversia commerciale. Anche perché, una volta risolta, e magari vinta una causa, le aziende si accorgono di dover pagare più di un quarto del valore complessivo della disputa. Ebbene, non è certo una bella pubblicità per gli investimenti stranieri.

Ecco perché è più che necessario muoversi per modificare questo stato di cose: il sistema giuridico italiano è in una pericolosa fase di stallo, sono presenti meccanismi troppo vecchi, e le modalità impiegate ad oggi sono inefficienti e improduttive.

Le semplificazioni attuate dal Governo sono già importanti passi in avanti, ma si può fare di più, e sempre meglio. Magari, un grande aiuto potrebbe giungere dall’informatizzazione dei luoghi della giustizia, così da rendere immediate le comunicazioni di notifiche, utilizzando il metodo della PEC (Posta Elettronica Certificata).

Si tratta di un provvedimento basilare, che andrebbe a snellire i tempi delle cause, oltre che i costi per i tribunali. Piccole misure per la risoluzione di un problema così importante e  grandi vantaggi economici, per un Paese che necessita di investimenti, così come l’uomo necessita dell’aria per vivere.

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Caro Ricolfi, dietro l’agenda Monti c’è solo voglia di fare

postato il 5 Ottobre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

In riferimento all’articolo apparso sul quotidiano La Stampa dal titolo “Chi si nasconde dietro l’agenda Monti”, l’on.le Galletti ha affermato “pensiamo di aver contribuito, certamente più di altri, alla nascita e al percorso del governo Monti creando prima le condizioni per la sua nascita e sostenendolo poi con le nostre proposte in tema di liberalizzazioni, riforma del lavoro, spending
review e riforma della giustizia, solo per citare alcuni esempi” e poi ha continuato ricordando che l’Udc non vuole assistenzialismo statale né per il Sud, né per il Nord.

Premesso che l’articolo in questione è firmato da Luca Ricolfi, personaggio che stimo, nonostante in un suo libro (Dossier italia) abbia difeso il “contratto con gli italiani” stipulato da Berlusconi affermando che in fondo era stato realizzato (almeno per la maggior parte), posso serenamente dire che l’articolo sembra essere stato scritto da un marziano o da una persona che ignora parecchie cose, in particolare sulla posizione dell’Udc.

Ricolfi porta avanti una analisi politica tagliata con l’accetta e, soprattuto, incentrata su uno schematismo vecchio e pieno di preconcetti: a destra abbiamo una politica conservatrice, al centro una politica statalista, a sinistra una politica che non saprei definire. Il punto è che Ricolfi non si è minimamente documentato, altrimenti avrebbe visto non solo le proposte enumerate dall’on.le Galletti, ma soprattutto avrebbe visto che l’Udc aveva proposto ben prima di tanti altri, una robusta agenda per abbattere il digital divide e sviluppare Internet a banda larga (ricordiamo che questo ci porterebbe ad un aumento del PIL di circa 70 miliardi di euro). Già questo ci fa capire che l’Udc una sua agenda ce l’ha, come anche degli obiettivi: risanare i conti non è un target secondario, perché senza il risanamento non possiamo fare investimenti.

Ma al di là delle proposte presentate nel passato, il punto di fondo è che non si può e non si deve parlare di statalismo secondo vecchi schemi: la spesa statale può essere tagliata, e, soprattutto, deve essere indirizzata meglio e la prova si trova quando ho scritto dei fondi comunitari usati per progetti del valore medio di 5.000 euro. Questi progetti non migliorano il PIL, non creano occupazione o opportunità, sono solo una scorciatoia presa da alcuni che vedono nello Stato una mucca da macellare senza pensare al domani. L’Udc vuole sostituire a questa miriade di progetti, pochi progetti che creino le infrastrutture e le condizioni necessarie perché si possa esplicare al meglio la libera iniziativa imprenditoriale.

Propugnare un Monti-bis, come ad esempio fa Casini, non equivale a sostenere la “mucca da macellare”, bensì è un modo rendere produttiva la mucca. Tutto ciò però presuppone libertà d’azione. La vera forza di Monti è stata proprio quella di essere al di fuori del sistema politico e in quanto tale non essere inscatolato nei rigidi schematismi che hanno condizionato la vita politica italiana degli ultimi 20 anni e che proprio Ricolfi riconosce come uno dei mali della Seconda Repubblica.

Liberi dalle contrapposizioni rigide e schematiche, ci si è concentrati sulle riforme e sugli interventi normativi per rilanciare l’Italia dopo avere evitato per un soffio il disastro ereditato dal precedente governo: da quanti anni si aspettava un provvedimento per ridurre le auto blu o le province? Eppure il precedente governo ha avuto 4 anni di tempo, ma non lo ha potuto fare perché avviluppato in un continuo battibecco improduttivo sia al suo interno (si veda anche ora cosa sta accadendo all’interno del PDl dopo il caso del Lazio) che al suo esterno (pensiamo alla guerra continua avviata da berlusconi contro la magistratura e contro gli altri politici). Monti forma il suo governo  a Novmebre 2011 e a giugno 2012 (dopo 7 mesi) presenta il disegno di legge per dimezzare le province e dimezzare le auto blu. Sette mesi per un risultato concreto, contro 4 anni di chiacchiere inutili (quantunque supportate dall’agenda politica tanto cara a Ricolfi).

Sostenere Monti, significa sostenere la centralità della politica, scindendola dalle chiacchiere di cortile e dai gossip (quante pagine di giornali dedicati al bunga bunga o alla Minetti che sfila in costume da bagno?), e questo non è forse quello che si chiede a chi ci governa?

Vogliamo parlare di agenda, come chiede Ricolfi? Facciamolo, ma dobbiamo essere coscienti che è un falso problema, perché sappiamo cosa serve: svecchiare il mondo del lavoro in Italia garantendo i lavoratori, ma senza che questo si trasformi in rigidità contrattuale; serve rivedere il sistema fiscale; serve combattere l’evasione fiscale; serve incoraggiare gli investimenti. Tutti sanno cosa serve, ma il problema vero è “come fare queste cose” e questa è la vera forza di chi sostiene Monti, perché non ci si perde in chiacchiere da bar consci che il mondo moderno fugge le perdite di tempo e l’eccessiva rigidità, mentre richiede rapidità di esecuzione e massima flessibilità, perché il mondo è in continua evoluzione, anzi, citando Baumann, potremmo dire che siamo in “costante mutamento in una realtà liquida e multiforme”.

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La gravità del fenomeno ‘derivati’

postato il 3 Ottobre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Luca Guastini

Nel grande discorso programmatico con cui ha chiuso la festa di Chianciano 2012, Pier Ferdinando Casini ha evidenziato la necessità di agire con determinazione sul problema dei “titoli tossici” che pesano sui bilanci degli enti locali.

A cosa si riferiva? Prima di tutto e soprattutto ai contratti di finanza derivata, i famigerati “derivati”, che a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso hanno iniziato ad ammorbare le finanze pubbliche.

Proviamo a fare un po’ di chiarezza in una materia di estrema complessità tecnica, partendo da un esempio concreto che chi scrive ha avuto occasione di studiare in modo approfondito: il Comune di Torino.

Senza addentrarci troppo nei dettagli, merita sottolineare che negli anni a cavallo del 2000 l’amministrazione comunale ha sottoscritto molti contratti derivati su tassi di interessi, successivamente rinegoziati in parte nel 2006-2007, di cui ben 23 risultano tuttora in essere.

Sono interest rate swap, cioè contratti con i quali si dovrebbe gestire il rischio di innalzamento del tasso di interesse: se ho un debito a lunga scadenza (un mutuo) soggetto ad interessi al tasso variabile (Euribor), rischio che l’aumento del tasso di riferimento accresca il mio debito oltre la mia capacità di farvi fronte. Attraverso un derivato opportunamente configurato, posso recuperare dal prodotto finanziario una parte di quanto ho pagato in più di interessi sul mutuo.

Tuttavia, se il prodotto è mal configurato, per errore o per scelta, invece di avere un effetto di copertura dal rischio ottengo una vera e propria speculazione o, in altri casi, un finanziamento immediato (e mascherato) con ribaltamento degli oneri molto in là nel tempo, anche di un paio di generazioni.

Nel caso di Torino, alcuni contratti hanno quale tasso di riferimento il Libor Us$ (il tasso dell’area dollaro rilavato sulla piazza di Londra), nonostante il Comune non risulti affatto indebitato a quel tasso; altri, invece, sono congegnati in modo tale che il Comune ha incassato alcuni milioni di euro nei primi due anni, salvo poi restituirne cinque o sei volte di più nei successivi trent’anni, tra l’altro con “rate” di importo folle negli ultimi due.

La Corte dei Conti è intervenuta a più riprese, stigmatizzando l’aggravarsi della situazione e chiedendo che l’amministrazione prendesse provvedimenti seri ed immediati. Provvedimenti che, invece, non sono ancora stati assunti.

Le cifre in gioco sono impressionanti, tanto più in un momento di crisi economica e di tagli profondi ai servizi per i cittadini: oltre 150 milioni di euro nei prossimi vent’anni, con un impatto annuo attuale di circa 10 milioni, che il Comune di Torino dovrà pagare alle banche coinvolte. Ma se si considera l’intera vita dei prodotti derivati in essere, la somma supera i 250 milioni, a cui vanno aggiunti quelli pagati a fronte dei contratti estinti e di cui non vi è più traccia.

La gravità del fenomeno derivati è ancor più dirompente se si pensa che esso non riguarda soltanto le Regioni, le Province i grandi comuni come Torino o Milano, ma esso interessa anche comuni più piccoli come Aqui Terme (AL), e addirittura piccolissimi centri come Omegna (VB), Gozzano (NO), Valledoria (SS), solo per citarne alcuni.

Da qui l’iniziativa del nuovo Comitato regionale piemontese, guidato da Marco Balagna, che ha fatto propria la proposta del sottoscritto: i consiglieri provinciali e comunali dell’Udc in Piemonte presenteranno nelle prossime settimane presso i rispettivi consigli un’interpellanza con la quale si chiede se siano in essere contratti derivati e quale sia la relativa esposizione dell’ente.

Lo scopo è duplice: da un lato, realizzare una mappatura del fenomeno sul territorio e dall’altro offrire un supporto concreto alle amministrazioni che vorranno affrontare il problema.

Auspichiamo che l’iniziativa produca buoni risultati e che magari sia estesa ad altre Regioni.

 

 

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Diamo attuazione all’art. 49 della costituzione!

postato il 2 Ottobre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Carlo Folin

Presidente, Unisca al “Monti dopo Monti” la proposta di legge immediata de art.49 Costituzione (Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale). Daremmo all’Ordine Giudiziario il controllo della democraticità dei partiti ed il controllo contabile dei conti alla Corte dei Conti! Finalmente il M5S diventerebbe democratico, la corruzione verrebbe materia dei giudici ed i cittadini potrebbero entrare nei partiti a parlare di politica fatta di cose da fare.

Io non voglio credere che lei ometta questa via perchè si ritiene fuori legge perchè politico! Dopo 64 anni, la facciamo?

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Cattolici in politica: la lezione di Dossetti e Lazzati

postato il 30 Settembre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Rocco Gumina

Periodicamente per via degli interventi del Papa, dei vescovi e dei cattolici impegnati in politica si riflette sul contributo che questi ultimi possono dare allo scenario politico, sociale ed economico dell’Italia dei nostri tempi. Spesso vengono fuori idee contrapposte come: la ricostituzione di un partito “cattolico” (in realtà d’ispirazione cristiana che è cosa ben diversa); la presenza dei cattolici nei diversi partiti dell’arco costituzionale.

La nascita e il lavoro del governo Monti, poi, hanno per certi versi avanzato nuovi punti tematici e operativi su questo argomento alla luce della presenza nell’esecutivo di ministri dichiaratamente cattolici e ben radicati nel mondo ecclesiale italiano e internazionale come Riccardi (fondatore della Comunità di Sant’Egidio e storico della Chiesa) e Ornaghi (Rettore dell’Università “Cattolica” di Milano). Le imminenti elezioni regionali in Sicilia, inoltre, ci propongono fra i diversi candidati alla Presidenza della Regione, un discendente di don Luigi Sturzo, storico fondatore del Partito Popolare Italiano, fine studioso, animatore della Democrazia Cristiana nel periodo post-bellico. Il pronipote di Sturzo con il movimento “Italiani Liberi e Forti”, intende alla luce di una robusta ispirazione cattolica, rinnovare lo scenario politico siciliano puntando sul cavallo di battaglia dell’unità e della riscossa dei cattolici, appunto, in politica.

Non possiamo dimenticare, infine, l’impegno delle associazioni cattoliche (ACLI, Azione Cattolica ecc.) per la realizzazione di un percorso di rinnovamento contenutistico e sostanziale della politica con gli incontri di “Todi” e con il loro impegno, anche in questo senso, di singole realtà ecclesiali o d’ispirazione cristiana. Tutti questi “dati” ci dicono, dunque, che il capitolo “cattolici in politica” è fra quelli più studiati, riflettuti, criticati, cliccati che possono essere presentati e discussi.

Certamente riflettere in maniera esaustiva sul tema è davvero impossibile, anzitutto perché il cattolico che desidera impegnarsi in politica vive in una “quasi” e “perenne” contraddizione: da un lato è membro dell’ecclesia universale, appunto cattolica; dall’altro è chiamato a militare in un partito, o movimento che dir si voglia, che è appunto una parte di un tutto che possiede in sé dei limiti non riscontrabili in un orizzonte di universalità basata sulla condivisione delle verità di fede, dell’annuncio dell’evangelo ecc. Però, una lezione (testimonianza), a mio parere ancora attualissima per i nostri giorni, è quella che ci hanno lasciato due cattolici in politica “atipici” come Dossetti e Lazzati.

Entrambi crebbero alla “Cattolica” di Milano; entrambi fecero parte di quel gruppo chiamato dei “professorini” che modellò molti articoli della nostra Costituzione e ambedue animarono quel gruppo di ricerca nato dalla pubblicazione della rivista “Cronache sociali”che per molti rappresentò la cosiddetta sinistra DC in opposizione a De Gasperi e al suo gruppo al potere nel partito. Dossetti e Lazzati, ancora, furono fra i protagonisti della Democrazia Cristiana in quel frangente storico del post guerra mondiale nel quale per evitare il prevalere del comunismo in Italia, l’Azione Cattolica con i “Comitati civici” di Gedda, avallati dal Vaticano, costituì un vero e proprio partito all’interno della stessa DC che cooperò al successo strepitoso delle elezioni politiche del 1948. Proprio alla luce di tale circostanza, Dossetti e Lazzati diedero vita ad una riflessione sui cattolici in politica.

Per i due “professorini” l’impegno nell’azione cattolica (da intendere in senso generale) e quello in politica è distinto, non separato. Infatti, la politica, anche quella partitica, è volta alla ricerca nell’ambito della realtà naturale, sociale ecc; l’azione cattolica, invece, ricerca il fine sovrannaturale e ad esso deve esclusivamente tendere. Poiché, per Dossetti e Lazzati “l’azione cattolica è destinata al servizio delle anime” e non può essere utilizzata, nemmeno per casi eccezionali, per altri fini inclusi quelli politici. Ma il politico, per i due costituenti, deve rimanere ancorato “nella luce maestra dell’insegnamento della Chiesa” testimoniando sempre la verità, convito del fatto che si può fare dell’apostolato anche tramite l’azione politica, senza che questa per se stessa sia apostolato.

Ecco il punto importante ancora oggi per la nostra riflessione: il cattolico impegnato in politica cosciente della distinzione delle due sfere con differenti finalità (azione cattolica – azione politica) vive nei termini dell’apostolato la propria vicenda politica. In un contesto in cui i cattolici impegnati in tutta quanta la società (non solo in politica) devono maggiormente contemplare il volto di Cristo, per dosare nella realtà la resistenza e la resa, la lezione di Dossetti e Lazzati ci invita, come credenti, a maturare ancor di più e ancora meglio il nostro slancio ideale, la nostra adesione a Cristo e alla Chiesa, il nostro impegno in politica, le difficoltà della storia persuasi del fatto che, qui ed ora, la città terrena non potrà mai divenire Gerusalemme celeste.

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