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Ecco perché l’Udc in Sicilia vince e convince

postato il 15 Giugno 2011

C’era chi, nemmeno troppo tempo fa, aveva frettolosamente decretato – dal palco di un teatro palermitano – che l’Udc siciliano, scegliendo di sostenere il governo di Raffaele Lombardo in Sicilia, e non quello di Silvio Berlusconi a Roma, aveva decretato la propria morte. Questi stessi fini e attenti osservatori politici hanno poi passato molto del loro tempo (tante erano le cose cui dovevano badare) a spiegarci che un partito di centro schierato al centro non può avere più successo, che il nostro futuro poteva essere solo nel nostro passato e che per questo dovevamo tornare a fare il centro del centrodestra: né più né meno un’appendice del Pdl; e così, mentre noi – ingenui testardi – siamo rimasti lì dove eravamo sempre stati, i nostri amici si sono accasati responsabilmente, sono entrati a far parte a pieno titolo del Governo nazionale e vagheggiano ora la costruzione del Partito Popolare italiano, sul modello di quello europeo, da costruire con Formigoni e Alfano e la partecipazione dei popolarissimi La Russa, Gasparri e Santanchè.

Come si suol dire, però, non si può pensare di poter vendere la pelle dell’orso senza averlo prima ammazzato. E infatti, dopo mesi di annunciata morte, l’esito della tornata elettorale che ha interessato la Sicilia il 29 e 30 maggio e il 12 e 13 giugno, ha raccontato un film diverso da quello che in tanti avrebbero voluto vedere. Eh sì, perché – stranamente, chissà come mai! – questo Udc siciliano non è affatto morto e – sempre stranamente, sempre chissà come mai! – ha ottenuto percentuali in linea con il passato e con i propri compagni di coalizione ha vinto in 7 comuni su 11 chiamati al voto e conquistato i comuni di Porto Empedocle, Sortino e Bagheria con il proprio candidato. Proprio la vittoria nel comune di Bagheria, poi, assume il valore e significato più importante, per vari motivi: primo, perché qui si sfidavano direttamente Terzo Polo e Pd contro Pdl e PiD; secondo, perché i due candidati alla carica di sindaco erano uno Udc e l’altro PiD; terzo, perché il nostro candidato vincente, Vincenzo Lo Meo, ha aderito all’Udc solo dopo il 14 dicembre ed è rappresentante, quindi, della “rinascita” del nostro partito; quarto, perché Bagheria è sempre stata feudo elettorale proprio del Ministro Romano. La sfida bagherese era diventata un vero e proprio derby: dopo mesi e mesi di discussione, era arrivato finalmente il momento di misurarsi realmente, sulla base dei numeri e non delle chiacchiere. E il risultato è stato palese, innegabile. La Repubblica di Palermo di oggi, con un articolo a firma di Emanuele Lauria, mostra come l’Udc e tutto il Terzo Polo siano riusciti a superare le varie difficoltà e a vincere, proprio perché in Sicilia, più che nel resto d’Italia, sono stati in grado di intercettare il voto moderato in uscita dal Pdl e dal centrodestra, principalmente grazie a un impegno costante sul territorio.

E fa sorridere, certo, sentire ora parlare di “una vittoria dovuta solo a grandi ammucchiate” gli stessi che solo qualche mese fa ci davano per sicuramente morti: perché è solo un vano tentativo di coprire il nostro successo, costruito sui programmi, sulle proposte e su una coalizione sempre più forte. Sarà difficile per il centrodestra isolano far finta di niente: quello che si siamo riusciti a costruire in Sicilia, che è sempre stata il granaio del Pdl, è la prova più tangibile del tracollo della “maggioranza” berlusconian-leghista-responsabile. Ha ragione il coordinatore regionale Udc D’Alia, quando parla di terza sberla al Cav, dopo le cocenti sconfitte a Milano, Torino, Bologna e Napoli e il 96% di sì ai referendum. Una prospettiva che, proiettata sul piano nazionale, rappresenta il nucleo fondamentale della discussione sulla strategie politiche del Terzo polo che stiamo costruendo e al centro del quale si è posto di certo l’Udc. Non a caso Pier Ferdinando Casini ha subito sottolineato il fatto che “il Terzo polo è decollato” e che ora “si possono prospettare nuove forme di collaborazione anche con il Pd”. Se il “laboratorio Sicilia” darà i suoi frutti a livelli nazionale si vedrà. L’importante, per ora, è godersi la meritata vittoria. Specie dedicandola ai vecchi amici che ora tanto si lamentano: perché, come si dice dalle nostre parti, “l’aceddu nda gaggia canta o p’immidia o pi raggia”.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Nella foto, Pier Ferdinando Casini con Vincenzo Lo Meo, nuovo Sindaco di Bagheria, dietro, fra gli altri, il Coordinatore Regionale UDC Sicilia Gianpiero D’Alia.

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Giovani e web, la politica passa da qui

postato il 14 Giugno 2011

Stamattina, spulciando nel web, ho trovato una frase che mi ha colpita davvero: “I giovani devono essere il nostro presente.”

Troppo spesso, infatti, la politica in particolar modo, cade nell’errore di affermare, con poca convinzione, che i giovani siano il futuro, il domani. Intendiamoci, io lo credo fermamente, sono speranzosa che presto chi di dovere possa capirlo. Tuttavia, ho iniziato a capire che questa è spesso una scusa utilizzata da chi, in realtà, non ha intenzione di lasciare il proprio potere e lascia ai giovani la speranza di tante belle parole, di tante promesse, che aspettano ancora che un domani possano diventare realtà.

Come diceva Claudio Baglioni, però, “La Vita è Adesso”. E, come me, molti ragazzi cercano di farlo capire a chi, con una scusa al giorno, temporeggia e, alla fine, eccedendo nelle belle promesse,  rende quei ragazzi dei giovani-vecchi. Non si è più giovani dentro, non si ha più quell’entusiasmo, quell’ansia di fare tanto e di farlo bene. Quando qualcosa arriva, troppi ragazzi sono già spenti dentro, l’entusiasmo si è affievolito o l’ambiente circostante, la società, li ha già abituati a ciò a cui nessuno dovrebbe mai abituarsi: ai vizi della mala politica. Nella mia esperienza, ne ho conosciuti molti di ragazzi così, ma non mi sono abbattuta, né abituata. Per me la Politica è ancora quella con la P maiuscola e, con un po’ di coraggio, molti ragazzi si avvicineranno ad essa. L’esperienza del Referendum è stata illuminante. Forse, se coloro che oggi gestiscono la politica italiana se ne renderanno conto e si lasceranno illuminare da questi risultati, probabilmente il nostro sarà un futuro radioso.

Non c’è più la politica lontana, inarrivabile, che dialoga con i cittadini attraverso il tubo catodico, attraverso le tv di parte. Questo modello è fallito. Stavolta la politica si è mossa in un altro modo, diverso: il movimento di idee, lo scambio di opinioni c’è stato nel web – nei blog, su facebook, twitter. La politica sta cambiando, e sta cambiando il modo di esprimersi. Il web è forte per questo motivo: perché dà l’opportunità a tutti di esprimersi e dire la propria, anche ai giovani, troppo spesso esclusi da questo mondo. Ho visto molti ragazzi lasciarsi trasportare dall’emozione di dire la propria su temi di importanza rilevante, vitale.

Ecco, la politica dovrebbe ripartire proprio da qui. Deve capire che la Politica è Partecipazione, e la Partecipazione comprende, in sé, le parole Web e Giovani. Non si può prescindere più, ormai, da questa considerazione: bisogna iniziare a cambiare, cambiare davvero. Ho iniziato da qui, è non ho intendo smettere di rompere le scatole.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano

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Capire il Referendum, capire gli italiani

postato il 14 Giugno 2011

“Va tutto ben madama la marchesa” era un simpatico motivetto di Nunzio Filogamo che andava per la maggiore negli anni quaranta. Nonostante l’allegria del motivo, la canzonetta raccontava delle tragedie che colpivano le proprietà di una marchesa continuamente rassicurata dal suo maggiordomo con la frase che da il titolo al brano. “Va tutto bene” si ostina a ripetere a se stesso, ai suoi sodali e soprattutto alla Lega Silvio Berlusconi in una inedita strategia dello struzzo inaugurata all’indomani della disfatta di Milano e rinnovata in occasione dei travolgenti risultati referendari.

Far finta di niente è probabilmente la cosa peggiore che possa fare il Premier perché i risultati delle elezioni amministrative e quelli del referendum non sono solo delle sconfitte politiche ma sono un messaggio chiaro che sale dal profondo del Paese, un Paese stanco che però ha ritrovato la voglia di dire la sua, di impegnarsi per cambiare le cose. Il referendum in particolare è stato percepito dagli italiani non solo come l’occasione per esprime la propria opinione su temi importanti, ma anche come lo strumento per dare un giudizio fortemente negativo su questo governo. Forse non è esagerato, come fa un autorevole blogger di centrodestra, parlare di “fallimento culturale”  del centrodestra, ma non siamo nemmeno davanti ad una vittoria culturale della sinistra. E’ invece assai più probabile che i promotori del referendum e una parte della sinistra abbiano saputo cavalcare un malessere diffuso che alle amministrative si è tradotto nelle vittorie “arancioni” di Pisapia e De Magistris, nella consultazione referendaria si è trasformato in una valanga di “sì”,  e che si è espresso soprattutto attraverso internet, con una mobilitazione a catena. In tanti rivendicheranno la paternità della vittoria referendaria e la rappresentanza di questi italiani scontenti, altri invece tenteranno di far finta di niente e di giungere come si può alla fine della legislatura, pochi, infine, tenteranno di riflettere sul messaggio mandato dagli italiani e di elaborare una proposta politica che dia delle risposte concrete ai problemi e alle esigenze dei cittadini. C’è da augurarsi che questi pochi riescano nel proprio intento e guadagnino la fiducia degli italiani.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Referendum, il quesito sul legittimo impedimento

postato il 10 Giugno 2011

Come noto i prossimi 12 e 13 giugno saremo chiamati a votare per una consultazone referendaria su quattro distinti quesiti. Mentre i primi tre, riguardanti la gestione dell’acqua pubblica e la ricerca e l’introduzione dell’energia nucleare, sono argomenti a forte carattere tecnico, il quarto ha una valenza prettamente politica ed è quello che, sul piano politico appunto, potrebbe avere le maggiori ripercussioni. Vediamo di cosa si tratta( per chi volesse informarsi anche sugli altri quesiti si veda anche http://www.referendum-2011.info/ oppure sull’acqua e sul nucleare): Il quesito n. 4 (Scheda di colore verde) ha per oggetto l’abrogazione della norma che regola il legittimo impedimento invocabile dal Presidente del Consiglio e dai ministri al fine di non presenziare in aula se soggetti a processi; il quesito richiede che siano abrogati l’articolo 1, commi 1, 2, 3, 5 e 6, nonché l’articolo 2, della legge 7 aprile 2010 n. 51, recante Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza. Chi vota Si vuole abrogare tale norma; chi vota No la vuole mantenerla.

Occorre brevemente spiegare cosa sia il legittimo impedimento e perchè questo quesito rivesta una particolare importanza politica: per principio generale, applicabile a chiunque in ambito penale, ciascun imputato ha diritto di scegliere se partecipare o meno alle udienze che lo riguardano. Se non partecipa il procedimento va comunque avanti anche in sua assenza, a meno che tale assenza derivi da un “legittimo impedimento”. In quel caso l’imputato ha diritto ad ottenere un rinvio dell’udienza ad altra data nella quale non sussista tale impedimento. Sulla base di questo principio generalmente applicabile, la Legge 7 aprile 2010 ha introdotto principalmente due varianti rilevanti: 1- le incombenze derivanti da attività di governo del Presidente del Consiglio e dei Ministri costituiscono legittimo impedimento nel senso sopra descritto; 2- l’autorità politica che intende avvalersene può autocertificare l’esistenza dell’impedimento senza che vi possa essere alcuna discrezionalità da parte dell’autorità giudicante. In aggiunta la Presidenza del Consiglio può giudicare tale impegno continuativo e richiedere un rinvio per un periodo fino a 6 mesi. Chiamata ad esprimersi sulla materia la Corte Costituzionale, con la sentenza 23/2011 (http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do) ha ridimensionato notevolmente la portata della legge. Infatti, pur ritenendo valido il principio secondo cui gli impegni legati al mandato governativo possano costituire motivo valido quali legittimo impedimento, ha dichiarato illegittima la parte della norma relativa alla possibilità di autocertificazione e di impegno continuativo. In poche parole la Consulta ha stabilito che la sospensione non possa essere richiesta per impegni genericamente continuativi e che, cosa più importante, l’autorità giudicante conserva la propria discrezionalità circa l’effettiva legittimità dell’impedimento addotto con la immediata conseguenza di far riprendere immediatamente i procedimenti sospesi fino a quel momento a carico del Presidente del Consiglio.

Fin qui la parte tecnica del quesito, ora alcune considerazioni di natura più politica.

In primo luogo, siamo sicuri che una vittoria eventuale dei SI modifichi la normativa esistenete? L’abrogazione della norma riporterebbe di fatto la situazione a quel principio di portata generale sopra descritto, ossia alla possibilità che chiunque ha di far valere un proprio legittimo impedimento. D’altronde la citata sentenza delle Corte ha di fatto apposto un avvallo costituzionale alla possibilità che gli impegni istituzionali possano costituire legittimo impedimento secondo il prudente apprezzamnto dell’autorità giudicante. Ne consegue che, di fatto, anche una vittoria dei SI e la conseguente abrogazione della legge 51/2010 potrebbe avere limitatissimi effetti procedurali.

Notevolmente maggiore invece sarebbe la portata politica di una eventuale vittoria del SI: è indubbio infatti che sul tentativo di ostacolare i procedimenti penali a suo carico, il Premier abbia fondato gran parte della propria attività politica, sempre forte, a suo dire, che la propria legittimazione discendesse direttamente dal consenso popolare. Da questo punto di vista il raggiungimento del quorum contro ogni previsione, darebbe la chiara indicazione di quanto questo modo di fare politica non sia più né capito né seguito dalla gente; che la legittimazione popolare non è una delega in bianco, ma al contrario c’è fintanto che chi governa lo fa negli interessi della nazione e non esclusivamente dei propri; che, probabilmente, la norma del legittimo impedimento sia la risposta sbagliata ad un problema, quello del bilanciamento fra i poteri legislativo ed esecutivo da un lato e giudiziario dall’altro, che tuttavia esiste e merita di essere affrontato con ottica altamente istituzionale e non personalistica.

Per questi motivi, nella speranza che chi governa recepisca il messaggio e cambi decisamente passo o, in alternativa, ceda la mano, il 12 e 13 giugno vale la pena andare a votare e votare SI al quesito sul legittimo impedimento.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Alberto Evangelisti

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L’inutile referendum sul nucleare

postato il 9 Giugno 2011

E se vi dicessi che Domenica e Lunedì prossimi non voteremo nessun referendum sul nucleare? Sembra paradossale ma stiamo assistendo ad una campagna elettorale che ci invita a votare sì o no su qualcosa che non ci verrà chiesta. Il pasticcio del referendum sul nucleare si è consumato nelle ultime settimane:  il governo italiano, infatti, ha abrogato le norme oggetto di referendum, nel timore di subire una sconfitta nelle urne dopo l’incidente nucleare a Fukushima, dal canto suo la Corte di Cassazione, chiamata a decidere se tenere o no il referendum,  pochi giorni fa ha deciso di sì, ma ha  riformulato  il quesito che ora recita così: “volete voi che siano abrogati i commi 1 e 8 dell’articolo 5 del decreto-legge 31/03/2011 n.34 convertito con modificazioni dalla legge 26/05/2011 n.75?”

Il comma 1 della legge parla sì di nucleare, ma sancisce la rinuncia “alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare”, le cose vanno peggio se si va al comma 8 che testualmente prevede che il Governo vari una nuova Strategia energetica nazionale, che “individua le priorità e le misure necessarie al fine di garantire la sicurezza nella produzione di energia, la diversificazione delle fonti energetiche e delle aree geografiche di approvvigionamento, il miglioramento della competitività del sistema energetico nazionale e lo sviluppo delle infrastrutture nella prospettiva del mercato interno europeo, l’incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore energetico e la partecipazione ad accordi internazionali di cooperazione tecnologica, la sostenibilità ambientale nella produzione e negli usi dell’energia, anche ai fini della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, la valorizzazione e lo sviluppo di filiere industriali nazionali”. Alla luce delle modifiche intervenute e del nuovo testo del quesito referendario possiamo dire senza ombra di dubbio che il referendum non è più sull’energia nucleare bensì sull’esistenza stessa e sui contenuti della Strategia energetica nazionale del Governo, ne avevo parlato qui.

In questa situazione l’eventuale vittoria del Sì al referendum avrebbe soltanto effetti simbolici perché il Governo, stando alla lettera del quesito, non sarebbe autorizzato ad adottare la Strategia energetica nazionale, cioè il piano generale con cui si decidono gli investimenti, le priorità, i settori su cui investire, comprese le energie rinnovabili, mentre un giorno questo o un altro Governo potrebbero legittimamente ricorrere all’energia nucleare.  Ma i guai per il quesito sul nucleare non finiscono qui. C’è il problema dei voti degli italiani all’estero che avendo già votato per corrispondenza hanno espresso il loro voto in base alla vecchia formulazione del quesito. A questo punto non è chiaro cosa succederà a questi voti: saranno annullati o ritenuti validi? Purtroppo non ci sono precedenti e i costituzionalisti interpellati sulla questione sarebbero favorevoli a far rivotare gli italiani all’estero con le schede corrette per evitare l’invalidità del referendum. Il referendum sul nucleare, al di là della forza simbolica, rischia di tramutarsi nel solito pasticcio italiano che porta, di fatto,  ad una non scelta ed ad un danno irrimediabile per il nostro Paese che ancora una volta si ritroverà senza una strategia energetica chiara per i prossimi cruciali decenni.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Referendum, i due quesiti sull’acqua

postato il 8 Giugno 2011

A pochi giorni dal voto sui referendum provo ad esporre e riassumere i due quesiti sull’acqua, le posizioni e gli effetti dell’eventuale vittoria dei Sì e del raggiungimento del quorum.

PRIMO QUESITO:

Il primo quesito proposto dai promotori dei referendum incide sull’art. 23 bis del decreto Ronchi, che riguarda tutte le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali (acqua, ma anche rifiuti e trasporti).

Provando ad entrare un po’ nel merito, e lasciando quindi da parte la retorica dell’acqua che passerebbe ai privati (Il decreto Ronchi riafferma invece che l’acqua, e ovviamente le infrastrutture, rimangono di totale proprietà pubblica), il decreto Ronchi si occupa di liberalizzare la gestione dei servizi pubblici, cercando di favorire una gestione sempre più industriale di servizi e beni comuni così importanti. Lo fa perché lo dice il buonsenso, la normativa europea e un percorso politico degli ultimi vent’anni, portato avanti anche e principalmente dal centro-sinistra (guarda un po’ anche dall’ex ministro Di Pietro).

Il decreto Ronchi spinge per le liberalizzazioni ma non dà, come invece falsificano i promotori, la gestione ai privati. Piuttosto la novità vera sta nella procedura ad evidenza pubblica, che i Comuni devono mettere in atto per scegliere il gestore. Le possibilità di affidamento del servizio, che il decreto Ronchi prevede sono le seguenti:

– assegnare la gestione del servizio pubblico locale tramite gara ad evidenza pubblica, a cui possono partecipare società private, società miste, società totalmente pubbliche (cioè le attuali municipalizzate);

– dare la gestione del servizio senza fare la gara ad evidenza pubblica ad una società pubblica o mista, sempre che questa faccia entrare il privato almeno al 40% delle quote e questo privato sia scelto tramite gara ad evidenza pubblica;

– esiste infine una terza ipotesi, in cui le società potranno mantenere l’ipotesi “in house”, ma in deroga, qualora si dimostrasse la specificità di un territorio che non preveda le condizioni per mettere in atto le liberalizzazioni.

Considerazioni: Insomma alla fine le soluzioni liberalizzatrici sono “parecchio all’italiana” che, per un liberale come me, portano a dire che il decreto Ronchi sia stato anche troppo morbido, non a caso la proposta del ministro On. Linda Lanzillotta del governo Prodi, affossata per le divisioni interne e la crisi prematura del governo, era ancora maggiormente liberalizzatrice.

Le municipalizzate totalmente pubbliche, se efficienti, insomma non si capisce cosa dovrebbero temere da gare trasparenti: credo sia molto probabile che queste siano le favorite a vincere la gara, essendo da anni gestori del servizio. Se non la vincono è evidente che sono talmente inefficienti, che è giusto che altri, privati, misti o totalmente pubblici, gestiscano il servizio al loro posto.

SECONDO QUESITO:

Il secondo quesito, quello della determinazione della tariffa, è ancora più paradossale, assurdo e demagogico: prevede infatti, tra i vari aspetti che portano alla determinazione della tariffa, l’abrogazione dell’adeguata remunerazione del capitale investito. Sarebbe quindi come chiedere che a gestire la risorsa idrica sia un’associazione di volontariato no profit. E qui non c’è un problema di pubblico e privato (non a caso qualche Sindaco furbacchione su questo quesito ha dichiarato il proprio No). La remunerazione sul capitale investito è fissata al 7%. Non so se è troppo, ho scoperto solo che questa soglia fu scelta proprio qualche anno fa dal ministro Di Pietro.

PRINCIPI CHE STANNO DIETRO A CHI E’ A FAVORE DEL REFERENDUM:

Il principio culturale che sta dietro al movimento del sì, movimento che va riconosciuto è riuscito a mettere in atto un forte coinvolgimento popolare dal basso, è che l’acqua (e gli altri servizi pubblici locali, di cui non parlano) debba essere gestita direttamente dal Comune, senza tra l’altro una logica industriale ed economica (visto il secondo quesito).

PRINCIPI CHE STANNO DIETRO A CHI E’ CONTRARIO AL REFERENDUM

I contrari ai referendum invece pensano che tornare ad una gestione diretta, oltre che sbagliata da un punto di vista culturale, sia insostenibile da un punto di vista economico. Nei servizi pubblici locali (acqua, trasporti, rifiuti) si parla di 120 miliardi di euro di investimenti da fare nei prossimi anni e questi dovrebbero essere trovati nelle casse comunali. Avremmo quindi un sistema al collasso, zero investimenti o un netto aumento della fiscalità generale.

COSA SUCCEDE SE VINCE IL SI:

se vince il si ai due referendum sull’acqua, si aprirebbe probabilmente un vuoto  normativo; a coprirlo sarà la  normativa europea, che per la concorrenza e la trasparenza impone che gli affidamenti dei servizi pubblici locali non siano dati “direttamente” al gestore pubblico o privato che sia. Sicuramente il privato non può essere, per legge, escluso dalla gestione dei servizi pubblici. Naturalmente, l’ho già detto, nessuno, privato o pubblico che sia, farà gli investimenti necessari.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE:

Io credo che comunque, privati o pubblici, sia importante provare (e questo il decreto Ronchi in parte lo fa) ad incidere sul problema centrale che oggi esiste intorno alle finte liberalizzazioni: dividere cioè il controllore (cioè chi pianifica, sceglie i piani industriali, affida il servizio e controlla) dal controllato (cioè chi gestisce il servizio). Oggi nel sistema misto, ad esempio quello toscano, è molto difficile, in quanto le municipalizzate si sono trasformate in pseudo Spa, con la politica che ancora è pienamente dentro la gestione.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Carlo Lazzeroni

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La maggioranza ha bocciato la moratoria su Equitalia proposta dall’UDC

postato il 7 Giugno 2011

Il video è relativo alla dichiarazione di voto dell’on. Mauro Libè sulla mozione UDC.

La battaglia dell’Udc per un fisco più giusto è arrivata nell’aula della Camera dove la mozione firmata dai deputati centristi è stata discussa e votata. Primo firmatario della mozione è stato l’on. Mauro Libè che questa mattina ha avuto l’onere della dichiarazione di voto nell’Aula di Montecitorio. Libè nel suo intervento ha illustrato la proposta dell’Udc che prevedeva una moratoria di almeno un anno per gli importi riscossi da Equitalia per le imprese e famiglie con obiettive difficoltà economiche, la possibilità di ridurre gli interessi delle sanzioni annesse e di prevedere un aumento del numero massimo di rate concesse nelle rateizzazioni da Equitalia, l’opportunità di promuovere l’istituzione di un fondo di garanzia che intervenisse a sostegno delle imprese che sono in situazione di obiettiva difficoltà per le pendenze nei confronti degli enti di riscossione di Stato e che si trovassero costrette a licenziare i dipendenti e a fallire, e, infine, impegnava il governo ad adottare iniziative normative volte a utilizzare sui territori regionali i profitti, rappresentati da sanzioni ed interessi.

L’intento della proposta dell’Udc era quello di distinguere tra evasori e onesti in difficoltà attraverso una moratoria che consentisse a chi ha sempre pagato di superare questo particolare momento di crisi. La Camera ha però respinto la proposta di moratoria sulla riscossione dei tributi da parte di Equitalia, ha pesato per questo il veto del Governo che, pur avendo espresso parere favorevole sul testo, ha dichiarato la propria contrarietà al capoverso in cui si proponeva la moratoria. Rammarico tra i deputati dell’Udc impegnati su questo fronte che vedono maggioranza e governo più interessati a fantomatici trasferimenti di ministeri al nord che non, come ha dichiarato l’on. Libè,  ad una proposta che mira a tutelare “chi per anni ha concorso a creare onestamente la ricchezza nazionale e si trova momentaneamente in crisi e che paradossalmente si trova ad essere trattato come un delinquente qualsiasi”.

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Santoro via dalla Rai, tra lui e Lei paghiamo noi

postato il 7 Giugno 2011

Per anni la Rai è stata il campo di battaglia di una guerra senza esclusione di colpi tra le varie dirigenze e Michele Santoro. I dirigenti Rai che si sono succeduti nel tempo hanno sempre cercato di esaudire il desiderio di Silvio Berlusconi di mettere a tacere la fastidiosissima compagnia di Michele Santoro, che, a detta del Premier, a colpi di inchieste e di trasmissioni “costruite” sottraeva voti preziosi al centrodestra; dall’altra, Michele Santoro che con l’ausilio di Travaglio, Ruotolo, Vauro e il resto della sua redazione ha condotto la sua personalissima guerra al Premier dagli schermi del servizio pubblico, in una sorta di piccolo Vietnam televisivo dove spesso è riuscito ad impantanare le soverchianti forze governative.

Accade poi che “i governativi” e la resistenza santoriana firmano uno strano armistizio che pone fine alla guerra e dichiara un inaspettato liberi tutti.  La risoluzione consensuale, questo il nome tecnico dell’inaspettato armistizio, arriva all’improvviso, senza passare per il consiglio d’amministrazione, quasi gestita segretamente tra lui, Michele Santoro, e Lei, nel senso del direttore generale Lorenza Lei. Ma tra lui e Lei chi ci rimette siamo noi, perché a pagare questa strana operazione saranno senza dubbio i cittadini poiché a conti fatti il divorzio da Michele Santoro sarà un vero salasso per la Rai: sei milioni di ricavi in pubblicità, il 20% di share e 600mila euro di compensi al conduttore, più la liquidazione da due, senza contare l’inevitabile tracollo di Raidue che non avrà «X Factor», forse nemmeno «L’isola dei famosi» e ora perde la cassaforte degli ascolti «Annozero» (le due più recenti puntate hanno registrato share record del 22-23% che hanno alzato tutta la media di rete). Legittime a questo punto sono le domande poste da Carlo Verna, segretario nazionale dell’UsigRai: “sono stati dati dei soldi per cancellare ‘transattivamente’ una trasmissione di successo? Che partita ha giocato il nuovo direttore generale? Che gioco ha fatto Michele Santoro?”. “Non saremo fra coloro che brinderanno per l’uscita di Santoro dalla Rai”, rincara l’on. Roberto Rao, ma “per rispetto degli italiani che ancora pagano il canone, la Rai deve rendere pubblici tutti i particolari dell’accordo transattivo, per permettere a quanti finanziano l’azienda di sapere chi ha guadagnato e chi ha perso in questa operazione”. E mentre Michele Santoro sembra sempre più vicino ad un approdo a La7, in Rai si cominciano a mettere in discussione anche i contratti di Milena Gabanelli, Giovanni Floris e Serena Dandini. L’unica certezza in questa Rai delle svendite resta il famoso cavallo morente in bronzo patinato che sorge davanti alla direzione generale di Viale Mazzini, e che sembra sempre di più una metafora concreta della situazione della Televisione di Stato.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Perché, numeri alla mano, queste elezioni non sono andate affatto male

postato il 7 Giugno 2011

Meno male che D’Alimonte c’è. Consentiteci di dirlo, di ripeterlo, di cantarlo! Troppo spesso in politica si parla per sentito dire, per pressappochismo, per approssimazione. E si fa presto, quindi, a decretare vincitori e sconfitti, a dimostrare i propri successi e i fallimenti altrui, a distorcere la realtà ai fini della propria propaganda. C’è poi chi, invece, preferisce – alle discussione a caldo – i ragionamenti a freddo, con dati e numeri reali alla mano, senza cadere nel gioco della demagogia e del populismo. Sono uno di questi: sprecare fiato non mi è mai piaciuto e ho sempre avuto in sospetto i fanfaroni e i chiacchieroni, di cui – ahinoi – il mondo politico offre un vasto assortimento. Pensateci su un attimo: vi sarà capitato, in questi giorni, di accendere la Tv e di ascoltare l’infinito parterre di trasmissioni politiche, di tg, di approfondimenti vari, dire, più o meno, tutti le stesse cose, tutti – troppo spesso – con la stessa superficialità. Così, giusto per fare un esempio, avrete sentito che il Terzo Polo, l’alleanza tra Udc, Fli e Api, si è rilevata un sostanziale fallimento elettorale, perché è rimasto dietro gli altri due poli nei quattro grandi comuni chiamati al voto e perché, nei migliori dei casi, non ha superato il 10 per cento. E, magari, a forza di sentirlo, ve ne sarete convinti anche voi e – per carità! – sarete anche caduti nel giochetto “mannaggia, ho sprecato il mio voto”, che fa gola a tanti, da entrambe le parti, in questi tempi.

Poi, però, capita di trovarsi tra le mani l’Osservatorio di Roberto D’Alimonte e di accorgersi – numeri alla mano – che quello che si sente da giorni non è poi così vero; che sì, il Terzo Polo non ha perso, come volevano farci credere, che anzi ha addirittura “raddoppiato” i consensi in un anno, dal 2010 al 2011. Scrive infatti il politologo del Sole 24 Ore: “in sintesi oggi il centrosinistra è diventato lo schieramento maggioritario al Nord e al Centro. Il centrodestra resta tale solo al Sud. Anche qui ha perso ma molto meno che nelle altre zone. Mentre al Nord e al Centro il calo è stato di circa dieci punti al Sud si è fermato a meno di cinque. Anzi in questa area il centrosinistra ha perso di più, quasi sei punti. I vincitori sono stati da una parte la frammentazione e dall’altra i partiti del terzo polo. Il terzo polo come coalizione non si è presentato dappertutto ma i partiti che gravitano nell’area di centro erano ben presenti nel Meridione. La somma dei loro voti arriva al 15,8 per cento. È un dato poco notato. Ed è un dato che aumenta addirittura nei comuni più piccoli. Infatti nei 51 comuni non capoluogo del Sud i partiti del terzo polo hanno ottenuto il 19,8% contro il 12% nei dieci comuni capoluogo”. Il primo dato, evidente, è che nelle amministrative del 2010, il Terzo Polo prese complessivamente l’8 per cento: dato che, nel 2011, è balzato al 14,4%, +6,4%. Mica caramelle. Anche perché, continuando ad analizzare le analisi di D’Alimonte, possiamo provare a fare qualche altra analisi, a cominciare dall’importante del fattore “dimensione dei comuni” – siamo più forti nei piccoli comuni, più deboli nei grossi: e se questo può sembrarvi un limite, ricordatevi che l’Italia è un paese di piccole comunità. Nei comuni sotto i 15.000 abitanti (che non sono compresi nell’analisi di D’Alimonte, però) vive il 43% della popolazione italiana e in questi comuni i due poli sono sempre andati molto meno bene che nelle grandi città, mentre i partiti del Terzo Polo, per primo l’Udc, hanno sempre potuto contare su un forte radicamento (anche il Fli, in questa tornata, ha registrato lì le sue migliori performance). Come sottolinea lo stesso D’Alimonte, alle prossime politiche la partita si giocherà necessariamente anche qui, su un terreno che è sempre stato poco favorevole ai grandi e più propenso ai piccoli.

Non è un caso che proprio Pdl e Pd abbiano riacceso, in questi giorni, la “caccia” al Terzo Polo. Sono consapevoli, infatti, che per vincere le elezioni non basta prendere il 50+1% a Milano, Roma o Napoli; ma bisogna sapere convincere anche gli elettori dei piccoli e medi centri, cuori di una borghesia, di una piccola industria, di un grosso artigianato operoso e di un ceto lavorativo (ma non chiamatelo proletario, per favore) di grande forza. Mi stupisce che uno come Massimo D’Alema, di solito fine e attento osservatore della politica italiana, si sia lasciato andare a dichiarazioni dal sapore “pseudo berlusconiano”, accusando il Terzo Polo di “furbizie, pigrizie e terzo-forzismi (sic!)”. Avremo pure commesso i nostri errori, per carità, ma la nostra forza sono pur sempre i nostri elettori che, come ha ammesso lo stesso D’Alema, sono “un passo avanti”. Sono le stesse che per anni abbiamo sentito da Silvio Berlusconi che ha ossessivamente cercato di spiegare che “un conto è Casini, un conto gli elettori dell’Udc che non possono che stare col centrodestra”. Ragionamento macchinoso e infruttuoso, perché puntualmente smentito ad ogni tornata elettorale. E da ogni ragionamento “a freddo” che si basi su analisi numeriche serie e competenti.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

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L’Aquila: specchio di un’Italia dimenticata

postato il 5 Giugno 2011

Un gruppo di ragazzi ha deciso di inaugurare un blog, “La Politica che vorrei”, senza le effigie di partito che vuole essere occasione di stimolo e dibatti. Da quel blog ripubblichiamo un post, purtroppo sempre attuale, su L’Aquila, una città che giorno dopo giorno muore. Continuate a scrivere ragazzi.

20/04/11 ore 18:00; pomeriggio a l’Aquila. Ho voluto vedere con i miei occhi, tastare la realtà, riscoprire la passione di crearsi una propria opinione, senza andare elemosinando quella di altri. Passare un pomeriggio all’Aquila, scoprire le menzogne e le verità, gli estremismi di tutte le fazioni, smascherare le infinite strumentalizzazioni del dolore di una città, di un popolo. Passeggiare per le strade completamente vuote, ancora calde della paura e della rabbia di aver perso tutto; vedere i palazzi con i tiranti di metallo, pieni di crepe, quasi impossibili da rimarginare; constatare lo stato di incertezza e insicurezza, evidenziato dalle centinaia unità militari presenti in tutta la città; assaporare la calma disillusa, straziante, disperata e abbandonata dei pochi, ultimi, cittadini ancora presenti; leggere i cartelli di protesta, frasi dure di chi ha perso tutto ciò che, con sudore, aveva guadagnato; scorgere, da lontano, appese al cancello del municipio, le chiavi delle case crollate.

Uno spettacolo desolante, che gela il cuore e demolisce ogni speranza a colpi di tristezza. L’Aquila è oggi lo specchio di un Paese a pezzi, in rovina, abbandonato, desolato, disilluso, disperato, dove vivono persone che hanno perso la speranza di un domani migliore. Un Paese che ha perso tutto, che non crede più in una Politica di servizio, che si occupi dei problemi reali delle persone; un Paese costretto a vendere o ad affidare ai privati i propri beni perché incapace di farlo autonomamente; un Paese che fa pagare ai contribuenti onesti l’evasione dei meno onesti; un Paese che premia i criminali evasori fiscali con un solo 5% di trattenuta per chi riporta in Italia i capitali nascosti all’estero; un Paese dove si fanno tagli alla ricerca, all’istruzione, all’università e alla cultura quando si continuano a finanziare i privati; un Paese che non riesce neanche a spendere i soldi che gli spettano dall’Unione Europea per incapacità di presentare progetti; un Paese che invece di completare opere pubbliche sospese ed iniziate da decenni (esempio autostrada Salerno-Reggio Calabria) pensa sempre a nuove mastodontiche costruzioni di dubbia utilità (es. ponte sullo Stretto di Messina); un Paese che tutti sentono il dovere di aiutare, di cui tutti parlano, ma dove nessuno sa concretamente cosa fare e come fare per risolvere i problemi; un Paese dove tutti parlano di bene comune e di solidarietà quando invece bombarderebbero il vicino per avere un piano in più in casa propria; un Paese che sembra aver gettato la spugna, perso qualsiasi speranza di un avvenire più dignitoso e più sopportabile; un Paese dove nessuno vuole più investire, ma che tutti vogliono spremere e sfruttare; un Paese dove l’eccellenza è scomoda, costa troppo; un Paese dove è premiata la mediocrità a patto che ci sia fedeltà; un Paese che mette a tacere il dissenso; un Paese dove non si sa più neanche come esprimerlo il dissenso; un Paese che sembra dire ai propri giovani, quelli che dovrebbero essere il futuro oltre che il presente, “andate via, che qui non c’è spazio, non c’è futuro, non c’è ascolto”; un Paese tenuto in piedi da tiranti di metallo, che impediscono temporaneamente il crollo, ma che neanche lontanamente risolvono il problema; Questa è l’Italia; Un Paese dove tutto sembra perduto.

Ma io credo che non sia del tutto così; ricostruire l’Aquila e l’Italia è possibile, siamo solo noi a poterlo fare, noi cittadini, noi persone; ritornare a credere in un senso di Stato; riacquisire una coscienza critica che ci faccia andare oltre ciò che ci dicono e che ci vogliono far credere; tornare a lavorare per il Bene Comune e non solo per il proprio tornaconto personale, dove l’unica regola è “Mors Tua, Vita Mea”; ricostruire un senso di appartenenza ad un Paese, ad un popolo, ad una Nazione; riacquisire un senso di rispetto e impegno personale in una politica che sentiamo non rappresentarci; tornare a sentirci portatori di diritti comuni e di responsabilità personali; adempiere quotidianamente i nostri impegni con senso di responsabilità e di servizio; iniziare ad avere in testa il “Noi” e non solo il “Me”. Tutto è possibile, ma serve l’aiuto e la collaborazione di tutti, nessuno escluso. “We Have a Dream: l’Italia”

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