Tutti i post della categoria: Media e tecnologia

Lo strano caso delle frequenze del digitale televisivo

postato il 30 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

L’asta per le frequenze 4G è andata a buon fine, ma c’è una domanda che sorge spontanea: se avessimo venduto anche le frequenze del digitale televisivo? Il quesito è più che legittimo, perché oggi si è chiusa l’asta per le frequenze 4G, con un incasso di 3,9 miliardi di euro, ovvero circa il 60% in più di quanto preventivato. Da mesi l’Udc sostiene che il governo doveva vendere e non regalare le 6 frequenze del digitale terrestre, soprattutto in un periodo in cui lo Stato cerca di racimolare soldi per rilanciare l’economia e pagare i debiti.

A tal proposito l’on. Roberto Rao si chiede “ora che si è conclusa l’asta per l’assegnazione delle frequenze 4G con un incasso di circa 4 miliardi di euro, circa il 60% in più di quanto previsto del Governo, ci chiediamo cosa sarebbe successo se non si fossero assegnati i sei multiplex delle frequenze radiotelevisive attraverso il beauty contest”.

Ricordiamo che una stima conservativa, attribuiva a queste 6 frequenze un valore complessivo di 3 miliardi di euro, ma il governo ha deciso di rinunciare a questi soldi. Incomprensibile risulta il balletto del ministro Romani a giustificazione dell’ingiustificabile. L’on. Romani afferma che “in caso di gara economica  i nuovi entranti avrebbero protestato sostenendo che il governo vuol far pagare barriere di accesso al settore e avvantaggiato chi è già dentro”. Inoltre, sostiene Romani, “in Europa nessuna concessione televisiva è mai stata data a pagamento”.

Ma allora perché Telecom, Vodafone e Wind hanno pagato oltre 500 milioni di euro per le stesse frequenze che Rai e Mediaset avranno gratis? Il ministro risponde che il “settore tv è diverso da quello delle Tlc, oggi chi fa tv deve poter competere con i nuovi entranti”. Ma quali nuovi entranti se le frequenze sono state regalate ai soliti noti? ovvero a Rai e Mediaset che sono da anni nel mercato televisivo?

Quindi per il Ministro, Rai e Mediaset dovevano avere le frequenze gratuitamente perché sono dei nuovi competitor, ma allora mi chiedo: Canale 5, Rete 4, Italia 1, non sono Mediaset? Per tutelare i nuovi favorisco i vecchi? Da questi quesiti, che non possono avere una risposta coerente, osserviamo che il governo è privo di logica, e, pur di nascondere la realtà, afferma tutto e il contrario di tutto.

I fatti parlano chiaro: avevamo delle frequenze che valevano 3 miliardi di euro, e sono state regalate a Rai e Mediaset, mentre gli altri attori hanno pagato. Poi però il governo parla di valorizzare il proprio patrimonio, potevano pensarci due settimane fa, adesso ci ritroveremmo con 3 miliardi di euro in più in tasca.

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La banda larga per battere la crisi

postato il 29 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Il governo continua nel suo indecoroso balletto di promesse tradite, spot elettorali, ripensamenti.

L’ultima puntata riguarda gli investimenti per lo sviluppo della banda larga: il ministro Romani afferma che la banda larga è un pilastro per la crescita e il suo sviluppo sarà uno dei pilastri del  prossimo piano per lo sviluppo economico dell’Italia, dichiarando che il 50% dei soldi provenienti dalla gara per le frequenze della banda larga della telefonia mobile (asta arrivata a circa 3 miliardi di euro complessivi).

La notizia deve essere accolta con favore, soprattutto visto che da più di un anno proprio l’Udc ha lanciato una campagna per lo sviluppo della banda larga, vista come uno strumento di sviluppo per l’economia italiana. Purtroppo credo che la promessa del ministro Romani sia da prendere con le molle, visto che due mesi fa, ad Agosto, il governo stesso aveva cancellato i fondi per le infrastrutture legate ad internet.

Cosa è cambiato da Agosto ad oggi?

Evidentemente il governo ha imparato a contare e, facendo due conti, si è reso conto di ciò che l’Udc dice da più di un anno, ovvero che lo sviluppo di Internet e la banda larga sono una strada per abbattere il gap tecnologico che ci separa dagli altri paesi e soprattutto che è un investimento con un potenziale enorme che si ripaga da solo.

Secondo le stime della banca mondiale c’è un aumento dell’1,20% del Pil per ogni 10% di diffusione della banda larga, a cui aggiungere un risparmio pari a 40 miliardi di euro annui (2 mld per il telelavoro, 1,4 mld per l’e-learning, 16 mld per l’e-government e l’impresa digitale, 8,6 mld per l’e-health, 0,5 mld per la giustizia e la sicurezza digitale, 9,5 mld per la gestione energetica intelligente).

Ma quanto costerebbe sviluppare la banda larga in Italia? Secondo le ultime stime basterebbero circa 10-14 miliardi di euro, che produrrebbero un aumento del PIL tra il 3 e il 4% del Pil, quindi tra i 55 e i 73 miliardi di euro. Sembrano cifre alte? Mica tanto, infatti se consideriamo il rapporto di Boston Consulting e Google, scopriamo che internet in Italia pesa per il 2% del PIL e produce un fatturato di 31,6 miliardi di euro; se confrontiamo l’Italia con altre nazioni come Gran Bretagna e Danimarca, scopriamo che internet ha un ruolo marginale da noi, infatti nei due paesi il peso è pari rispettivamente al 7,2% e al 7,3%. In questo studio, si scopre che con una crescita annua attesa fra il 13% e il 18% dal 2009 al 2015, l’Internet economy italiana rappresenterà nel 2015 fra il 3,3% e il 4,3% del Pil, cioè fra i 59 e i 77 miliardi di euro.

Riassumendo: con un investimento di 14 miliardi di euro, possiamo risparmiarne 40 e possiamo aumentare il PIl di circa 65 miliardi di euro; ecco perché da un anno proponiamo incessantemente maggiori investimenti sulla banda larga e speriamo che finalmente anche il governo impari a contare e capisca la nostra proposta.

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Bavaglio ad Internet, giù le mani da idee e opinioni

postato il 27 Settembre 2011

di Giuseppe Portonera

Questo blog è sempre stato un baluardo incrollabile a difesa della piena libertà di Internet. In un periodo difficile, come quello dell’estate di due anni fa, quando il Governo aveva deciso di ingranare la quinta sulla legge antintercettazioni, abbiamo subito fatto notare che dietro al paravento della regolamentazione della pubblicazione delle intercettazioni (sicuramente necessaria), le reali intenzioni della maggioranza erano ben altre: e, chiaramente, si riassumevano nella volontà di stringere un bavaglio alla stampa libera. Quando poi qualche geniale mente pidiellina pensò addirittura di estendere quel bavaglio anche ad Internet ai blog, abbiamo subito alzato gli scudi e ci siamo schierati – in ogni sede competente – a fianco di quanti si sono mossi per impedire che venisse approvato il tristemente famoso comma 29: all’epoca il Governo, dopo un lungo tira e molla, decise di lasciare la presa ed evitò di prendere una decisione folle e pericolosa.

In questi giorni, però, sembriamo essere tornati al punto di partenza: scosso e piccato dalle numerose intercettazioni che in questi giorni popolano le pagine dei nostri quotidiani, il Governo ha deciso di ripartire alla carica, riproponendo un nuovo (sigh) pacchetto “anti-intercettazioni”, con incluso il redivivo (o recidivo?) “comma 29”. Per chi non ricordasse cosa contenesse questo emendamento, sappia che in sostanza – se dovesse diventare legge – si procederebbe ad un equiparazione tra “testate professionali” e i blog: questo vuol dire che se a un blogger o a chiunque faccia informazione “non professionale”, dovesse essere richiesta una “rettifica” di quanto scritto, questi avrebbe solo 48 ore di tempo per adempiere a questa richiesta, a prescindere dalla sua fondatezza, pena una sanzione fino a 12 mila euro. Per dire, basterebbero due giorni senza controllare la propria casella di posta elettronica per finire nei guai. Mica caramelle.

Così come due anni fa, anche oggi il nostro blog alza la voce e si unisce alla schiera di coloro che continuano a difendere una delle più grandi ricchezze del nostro tempo, la libertà e la democrazia su Internet. Così come due anni fa, sproneremo anche i nostri parlamentari ad operare in questo senso: Roberto Rao, per esempio, ha già presentato una pregiudiziale di costituzionalità, spiegando che “stiamo per diventare il primo e l’unico Paese al mondo nel quale un blogger rischia più di un giornalista e ha meno libertà. È necessario distinguere tra testate professionali e blog”. E ci fa piacere che l’On. Cassinelli, PDL, abbia già annunciato che interverrà per impedire che il comma 29 venga approvato: però, se possiamo permetterci, all’Onorevole consiglieremmo di impegnarsi più sul fronte interno, per far capire alla sua coalizione che Internet non è la Televisione e che non si gestisce come si gestisce un’emittente televisiva: non esiste par condicio, non si impongono conduttori, non si scelgono le notizie da far passare o meno (potrebbe cominciare a spiegarlo al sottosegretario Giovanardi, per esempio, che ha un’idea molto distorta di come funzioni la Rete). Questo l’hanno capito i 23 milioni di italiani che usano assiduamente la Rete, per informarsi e informare: quando lo capiranno anche i nostri governanti?

Certo, noi che siamo bravi ragazzi, abbiamo provato a farglielo capire anche più di una volta (abbiamo chiesto anche l’intercessione di chi è più importante di noi), ma finora abbiamo sempre tonfato. Ma tant’è. Forse non riusciremo a farvi capire quanto sia fondamentale la libertà di Internet. Di certo, però, non vi permetteremo mai di tarparla.

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BlogFest 2011, una nomination di squadra

postato il 24 Settembre 2011

Questo nostro blog è in nomination ai “Macchianera Blog Awards 2011” per la categoria “Miglior sito o blog politico”. Non si tratta di un successo personale o degli amici e collaboratori, ma di un successo di tutti voi che con le vostre visite, i vostri contributi e la vostra attiva partecipazione avete reso questo blog un punto di ritrovo, di approfondimento e di confronto. Sarebbe bello se questo “gioco di squadra” potesse portarci ad un nuovo risultato, si può votare fino al 28 settembre.

Pier Ferdinando
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Dopo la notte riprenderemo la crescita?

postato il 23 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Mantovani

Siamo in piena notte, a fari spenti.
Alla guida un uomo che, come altri imprenditori, si rifiuta di accostare e alzare le mani dal volante, convinto di essere l’unico in grado di guidare quell’auto. Ne ho visti tanti nelle aziende in crisi: così muoiono o si degradano irreparabilmente molte aziende; così accadrà al suo partito. E purtroppo anche l’Italia faticherà a rialzarsi.
Ma in questa notte insonne non si può non pensare al dopo. Perché, con o senza un guidatore folle, l’Italia deve capire se può e vuole riprendere la via della crescita.
Le riserve di valore inespresso esistono e se adeguatamente sfruttate possono riavviare in poco tempo un ciclo virtuoso.
1) Tecnologie e applicazioni di rete. E’ un contesto iper-competitivo e non abbiamo grandi imprese nazionali. Ma nella Silicon Valley si parla anche italiano e chi la frequenta sa che là “ognuno ha una start-up”. Può accadere anche da noi, i cervelli non mancano, la creatività neppure, le grandi aziende internazionali sono presenti in modo qualificato. Serve coraggio, fiducia e capitali di rischio per iniziare. Finanziando le persone, i giovani, prima delle aziende.
2) Turismo. Pare un’ovvietà, ma è ancora l’enorme riserva di valore di mezza Italia, specialmente meridionale. Ed è incredibile che non si riesca a sviluppare e promuovere un’offerta competitiva rispetto ad altri paesi, mediterranei e non.
3) Alimentazione italiana. In tutto il mondo la cucina italiana ha una diffusione spettacolare, ma i nostri prodotti e la nostra ristorazione di qualità non altrettanto.
Uno sviluppo accelerato in questi tre settori potrebbe garantire una crescita di 2-3 punti di PIL all’anno, per diversi anni. Sono settori ad alta intensità di occupazione (almeno i primi due), in particolare giovanile.
Tutti gli altri settori, dal made in Italy nella moda e nell’arredamento, alla meccanica e ai servizi in generale, possono in larga parte resistere senza perdere volumi ed aumentando la produttività.
Con idee chiare, serietà e rapidità d’intervento potremmo ripartire in fretta.

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Usciamo dalla crisi investendo sulla banda larga

postato il 19 Settembre 2011

di Giuseppe Portonera

Pier Ferdinando Casini ha pubblicato su Fb, qualche giorno fa, un aggiornamento di stato molto interessante, su un tema di primaria importanza: “Senza banda larga si ferma la crescita, si blocca lo sviluppo. I fondi per internet veloce devono essere ripristinati al più presto”. La scelta di ritornare sull’argomento (che noi abbiamo lungamente analizzato, in ultimo qui, ma che sembra essere scomparso dall’agenda politica) assume quindi un grande valore, perché dimostra come l’Udc sia in grado di proporsi come forza rinnovatrice e modernizzatrice e, soprattutto, come forza di Governo. Il ragionamento sviluppato da Casini, infatti, è in linea con le politiche messe in atto dai governi nord-europei che da tempo hanno scelto di investire su internet e banda larga, volani ormai indispensabili per rilanciare le economie dei paesi in crisi. Non è un caso che nella contromanovra che abbiamo presentato lo scorso mese, uno dei punti principali fosse proprio il lancio di un grande piano strutturale per la banda larga nel nostro Paese, da finanziare attraverso l’asta delle frequenze tv: in un momento, cioè, in cui davanti alla sfida della crisi economica, l’esecutivo in carica si barcamena in modo penoso e insufficiente e gran parte della sinistra risponde utilizzando parole d’ordine passate, l’Udc è l’unico partito che, pensando seriamente al futuro, ha compreso che si può superare dalle sacche della depressione solo “approfittandone” per fare le famose “riforme strutturali”, che non investono solo il rapporto tra lavoratori e pensioni, per dire, ma anche e soprattutto l’accesso ad Internet, che dovrebbe – come abbiamo sempre sostenuto – essere uno dei diritti fondamentali del cittadino. Per questo servirebbero regole più flessibili, prezzi più concorrenziali, infrastrutture migliori (lo ripeto sempre: in Italia si parla di Wi-Fi libero quando in tutt’Europa si sperimentano già il Wi-Max e il Wi-Gig!).

La manovra presentata dal governo è riuscita – tra i tanti disastri – anche ad affossare definitivamente il progetto di sviluppo della banda larga in Italia, contribuendo così ad aumentare sempre più il gap che ci separa dagli altri paesi. I fondi che erano stati inizialmente stanziati (800 milioni di euro in un progetto complessivo da 1,47 miliardi), infatti, sono stati successivamente congelati, rendendo plateale il fallimento del Piano Romani; e la cosa che più ci fa innervosire è la motivazione con la quale il Governo ha bloccato quei soldi: “la banda larga – ha spiegato il sottosegretario Letta, tempo fa – non è una priorità”. Pura follia, perché dimostra ancora una volta come la classe politica al governo non sia in grado di definire chiaramente cosa sia una “priorità” e cosa no: contro questa assurda decisioni si sono levati, lo scorso agosto, la Confindustria e Telecom Italia, che hanno rilasciato un dossier (inizialmente classificato come riservato) in cui si sviluppa un’ipotesi di piano d’azione per colmare il digital divide nei principali distretti industriali del Paese, dove internet va al rallentatore o proprio non arriva – come infatti ha ricordato Aldo Bonomi, vicepresidente di Confindustria con delega sul territorio e i distretti, bisogna creare “un’iniziativa di sistema che azzeri una volta per tutte il divario digitale di molte aree industriali, che senza internet perdono competitività”. Nella “mappa” prodotta da Telecom e Confindustria si individuano le aree più colpite dal digital divide: la maglia nera spetta ad Avellino, noto per le industrie alimentari, dove l’Adsl arriva solo al 45% della popolazione e dove, secondo le stime Telecom, basterebbe un milione e mezzo di euro per risolvere decentemente il problema. Più a Nord anche Marsciano, in provincia di Perugia (metalmeccanica e arredamento), non naviga in buona acque, e ci vorrebbero circa 2,6 milioni per “sanare” la situazione. Vanno meglio il distretto di Parma-Langhirano (ancora alimentare), con una copertura del 77%, e Pordenone (meccanica e componentistica), dove Internet raggiunge il 78% della popolazione. Persino nel distretto motoristico di Bologna, dove la velocità non dovrebbe essere un problema, c’è però un buon 1% degli imprenditori completamente tagliati fuori da un collegamento decente.

Fino ad oggi, la politica si è accorta marginalmente di Internet. Per questo è giunto il momento che un leader di partito scelga di intestarsi seriamente la battaglia per l’allargamento della banda larga e l’introduzione quindi di Internet nelle case di tutti gli italiani. Avanti Pier, tocca a noi!

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Digitale televisivo: il governo regala 3 miliardi di euro

postato il 8 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Negli stessi giorni in cui il Governo blinda la manovra con la fiducia e, di fatto, chiede agli italiani 55 miliardi di euro; mentre fa un notevole sconto a ministri e onorevoli vari (è stato ridotto notevolmente il taglio delle indennità dei membri di Camera e Senato, almeno sei volte di meno rispetto a quanto previsto nel testo originario, e l’ammorbidimento dell’incompatibilità del loro mandato con gli altri incarichi pubblici); ebbene in questi giorni la maggioranza boccia l’emendamento per la vendita di 6 frequenze digitali che verranno invece cedute gratuitamente. Della vicenda ne avevamo già parlato e avevamo detto che, secondo gli operatori, il valore di queste 6 frequenze si aggirava sui 3 miliardi di euro.

L’emendamento proposta, cosa recitava? “Dopo l’articolo 3, aggiungere il seguente:

“3-bis.

  1. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni stabilisce le condizioni economiche di assegnazione tramite gara delle frequenze per la radiodiffusione televisiva in ambito nazionale, in esito alla risoluzione delle procedure di infrazione dell’Unione europea nei confronti dell’Italia per alcune norme del testo unico della radiotelevisione (d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177). Le condizioni di gara mirano ad assicurare la massima valorizzazione economica delle frequenze da assegnare. Le risorse realizzate mediante la predetta gara sono impiegate per lo sviluppo della banda larga nelle regioni del Mezzogiorno.”

Sostanzialmente si chiedeva che l’assegnazione di queste frequenze avvenisse con asta a rilanci e che le cifre raccolte fossero destinate per progetti di sviluppo, sulla falsariga di quanto sta accadendo con le frequenze telefoniche che stanno fruttando alcuni miliardi di euro.

Ebbene, il governo ha bocciato questo emendamento, scegliendo di assegnare le frequenze per il digitale terrestre tramite beauty contest e quindi rinunciando, di fatto, a venderle.

Il beauty contest che assegnerà le nuove frequenze per il digitale terrestre ha finalmente il suo parterre di contendenti. Il termine per la partecipazione è scaduto, quindi è ufficiale che per i sei multiplex (5 in DVB-T e 1 in DVB-H, di cui alla delibera numero 497/10/Cons dell’Agcom) in gioco la sfida sarà fra 10 broadcaster. Nello specifico le 17 domande accolte – si può concorrere per più frequenze – sono di: Canale Italia, Telecom Italia Media Broadcasting, Elettronica Industriale (Mediaset), Sky Italia Network Service, Prima Tv, Europa Way, 3lettronica Industriale (3 Italia), Rai, Tivuitalia e D Box.

“I nominativi dei soggetti ammessi alla procedura di assegnazione delle frequenze saranno resi pubblici dopo l’espletamento, da parte della Commissione di valutazione, dell’apposita procedura di ammissione prevista dall’art. 4.5 del Disciplinare di gara. Le procedure per la nomina della Commissione sono in corso”, sottolinea il documento ufficiale.

Personalmente trovo inconcepibile che il governo, guidato da una persona a cui “gronda sangue dal cuore” al pensiero di imporre balzelli e tasse agli italiani, decida di regalare circa 3 miliardi di euro, che invece potevano essere usati per alleggerire questa manovra iniqua e irresponsabile.

Forse ha deciso di fare questo regalo, per alleggerire il peso di 3 anni e mezzo di governo deficitario e di mancate liberalizzazioni?

 

 

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Vengano messe all’asta le frequenze televisive

postato il 24 Agosto 2011

Nel pieno del dibattito sulla manovra finanziaria e su dove reperire i soldi e sui tagli da operare, c’è una proposta seria e concreta per reperire circa 3 miliardi di euro (euro più, euro meno): perché non vendere le frequenze televisive? Il governo ha tra le mani circa 6 frequenze nazionali di cui 5 per il digitale terrestre, mentre la sesta frequenza può veicolare la televisione in mobilità (il Dvbh)  visibile su cellulare o su un tablet.

Nel 2009, quando furono individuate queste frequenze si decise di regalarle agli editori nuovi o vecchi come Rai e Mediaset, che avessero certi requisiti. Ora, il 6 settembre prossimo, partirà la preselezione delle emittenti candidate ad ottenere le frequenze.
Giustamente l’on. Roberto Rao afferma: “un’asta per l’assegnazione delle frequenze tv digitali risponderebbe innanzitutto a un’esigenza di equità e trasparenza, principi che questo governo ha finora maltrattato. Siamo ancora in attesa di sapere perché sono state sottratte le frequenze da 61 a 69 solo alle emittenti locali e perché è stato consentito agli operatori nazionali già presenti sul mercato di partecipare al ‘beauty contest’ per i nuovi multiplex. Solo nei paesi dove la democrazia e dunque il pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo non sono di casa viene concessa la possibilità di fare informazione in base a criteri discrezionali. Un conto è mettere tutti in condizione di aggiudicarsi questi spazi, un altro – conclude – è favorire i soliti noti: bella differenza, solo questo esecutivo fatica inspiegabilmente a coglierla”.

Si ricorda un precedente molto importante: la vendita delle frequenze per la telefonia mobile avvenute nel 2001. All’epoca il Garante per le Comunicazioni spiegò come assegnare agli operatori della telefonia un certo tipo di frequenze, suggerendo che le frequenze venissero date agli operatori attraverso una gara ad inviti stimando che si potessero ricavare circa 3000 miliardi (di lire). L’allora presidente del consiglio, Giuliano Amato, decise di non seguire il consiglio del Garante e procedette ad un’asta, con il risultato di ottenere la bellezza di 26.750 miliardi di lire (pari a 13 miliardi di euro), effetto proprio dell’asta competitiva. Purtroppo i tempi sono stretti, entro il 6 settembre si procederà all’inizio dell’assegnazione delle frequenze, ma questo non significa che i tempi non si possano spostare anche di poco tramite un emendamento.

Non dico che otterremmo quella cifra, ma sicuramente è lecito supporre che si possano ottenere 3 miliardi di euro e, in ogni caso, sarebbe sempre meglio e più equo, procedere ad un’asta piuttosto che regalare gratis questo piccolo tesoro di frequenze televisive.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Banda larga, un’altra promessa tradita

postato il 19 Agosto 2011

La bozza della manovra prevede di affossare definitivamente il progetto di sviluppo della banda larga in Italia rendendo impossibile colmare il gap che ci separa dagli altri paesi.

Il progetto relativo allo sviluppo della banda larga è “in piedi” da un paio di anni ed è stato elaborato dal ministro Romani, ma nel corso del  tempo questo progetto ha visto ritardi, risorse sottratte, e tagli ai finanziamenti anche già stanziati.

Il progetto nel suo complesso prevedeva un investimento di circa 1,4 miliardi di euro che avrebbe portato ad una crescita di 2 miliardi di euro nel PIL .

In pratica un investimento realizzato dallo Stato che avrebbe abbattuto le barriere tecnologiche e sarebbe stato un’arma in più per le nostre imprese, con il risultato che il ritorno economico sarebbe stato superiore a quanto si sarebbe speso.

Il finanziamento era così organizzato: 800 milioni provenienti dal CIPE, 250 milioni provenienti da Infratel Italia (società sorta nel 1999 su iniziativa del Ministero per lo Sviluppo Economico), 100 milioni dai fondi Fas e 250 milioni li avrebbero dovuto mettere i privati.

Ebbene, prima i fondi provenienti dal CIPE sono stati congelati fino alla fine della crisi, poi ne sono stati sbloccati 100.

Con 700 milioni già decurtati, la mancata partecipazione dei privati, restavano i soldi dei fondi FAS (quelli di Infratel sono già stati spesi), che però sono spariti in seguito ai tagli ai ministeri proposti nell’ultima  manovra.

Il progetto di sviluppo della banda larga senza fondi è, purtroppo,  destinato a restare lettera morta, e va ad aggiungersi alla collezione governativa delle tante buone intenzioni troppo spesso tradite.

Riceviamo e pubblichiamo Mario Pezzati

 

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Tecnologia e società, il dialogo necessario per superare la crisi

postato il 4 Agosto 2011

L’andamento dell’economia a livello mondiale impone una attenta riflessione che non può più essere solo locale, ma globale. A mio avviso il progresso tecnologico ha portato al punto di rottura il sistema sociale su cui ci siamo sempre basati: il nostro sistema è centrato sull’assunto di “lavorare di più, per produrre di più e guadagnare di più”. Aumentando la produttività, aumenta la ricchezza, i consumatori aumentano e si assumono altri lavoratori. Questo trade off era particolarmente vero in una società preindustriale. Con l’avvento della industrializzazione negli ultimi secoli, si è assistito ad un prosieguo, a mio avviso fittizio, dell’assunto di cui sopra. Perché dico fittizio? Inizialmente l’industrializzazione ha portato un aumento nella produzione di merci con una progressione di poco superiore a quella del passato. Anche se di poco superiore, questa progressione aumentò enormemente la disponibilità delle merci e abbassò il loro prezzo. Al contempo il progresso tecnologico creò nuovi beni, servizi e soprattutto nuovi bisogni: l’industria dell’intrattenimento, ad esempio, è “recente”, ha circa 100 anni; come pure altri settori industriali (auto, frigoriferi, televisione, computer) e altri servizi (servizi finanziari, l’industria del marketing, della pubblicità, del turismo di massa, e così via). Chiaramente la tecnologia ci ha portato immensi benefici: la qualità della vita è enormemente migliorata, e questo è innegabile.Ma questo ci ha resi ciechi di fronte ai pericoli intrinseci, e ci “impedisce” di impostare una analisi seria della situazione attuale. La crisi mondiale ci impone di analizzare la situazione attuale, soprattutto perché, nonostante gli indici di produttività segnino un aumento costante, non altrettanto si può dire con la disoccupazione, vecchia e nuova: nell’ottobre del 2010, gli studi del FMI evidenziarono come non solo non si era ancora assorbita la disoccupazione creata con la crisi del 2008, ma che bisognava “creare” almeno 40 milioni di posti di lavoro annui (su questo punto si veda il rapporto dell’autunno scorso del FMI, su cui mi soffermerò un altro girono), per reggere le pressioni di chi si affacciava al mondo del lavoro nei paesi occidentali, in quelli arabi e senza contare le pressioni demografiche cinesi.Come si spiega l’aumento di produttività, con un indice di disoccupazione che non mostra sensibili miglioramenti? Spesso il problema si pone e viene discusso a livello nazionale, ed è una cosa logica se consideriamo che i politici devono rendere conto al loro elettorato: un politico italiano deve “tutelare” chi lo ha eletto, e quindi gli elettori italiani, la stessa cosa per i politici tedeschi (ricordiamo come la Merkel ritardò molto gli aiuti alla Grecia, proprio perché aveva prima bisogno del consenso popolare della Germania), francesi, statunitensi, cinesi e così via. Ma questo non risolve il problema, perché non lo individua correttamente. Il problema, come ho accennato prima, risiede nel fatto che ormai la tecnologia, permette una produzione sempre più automatizzata, con tassi di efficienza e produttività sempre più alti e sempre meno bisogno di manodopera umana. Per fare degli esempi: nell’industria dell’auto gli impianti sono quasi totalmente automatizzati e una fabbrica con 7000 operai può oggi produrre lo stesso quantitativo di macchine che prima producevano 20.000 operai. Altro esempio è nell’industria dei microchip: oggi si può produrre lo stesso quantitativo di microchip del 2000, impiegando solo un quarto della forza lavoro che serviva nel 2000: in pratica oggi con 25 operai si produce quanto 10 anni fa producevano 100 lavoratori. E questo processo è in atto da anni, solo che non ce ne rendevamo conto, perché con il progresso tecnologico si creavano nuovi settori produttivi (ad esempio il marketing) e nuovi bisogni (ad esempio fino a 20 anni fa, chi aveva bisogno di un cellulare?) su cui si spostava la forza lavoro in eccesso degli altri settori. Oggi purtroppo non si riesce più a creare nuovi servizi, o nuovi prodotti, si tende a migliorare ciò che c’è, e anzi si procede ad una automazione sempre maggiore. In Francia le aziende hanno bloccato le assunzioni, come anche in Italia, e la Germania tiene grazie alle esportazioni, ma anche nel paese della Merkel si notano i primi rallentamenti. Pensare che una nazione possa lavorare ed esportare a tempo indeterminato, è utopico: la tecnologia e il sapere sono facilmente esportabili e replicabili. Il Brasile, la Cina, l’India ne sono un esempio. E quando i lavoratori cinesi e indiani passeranno dall’agricoltura all’industria, cosa avverrà?

Un altro esempio sono gli uffici pubblici o privati: un tempo i documenti dovevano essere archiviati, e vi erano enormi archivi cartacei e persone che si occupavano del loro controllo e dell’archivio, ma oggi con i computer, questo stesso lavoro può essere svolto da una persona.

Le banche, ad esempio, stanno investendo molto sui servizi via internet e sui bancomat “evoluti” dove si può non solo prelevare, ma anche pagare utenze e depositare soldi.
Ma se queste operazioni si possono fare da casa o tramite bancomat, viene meno la funzione di chi lavora allo sportello e con il tempo molte filiali potrebbero chiudere.Giusto per citare una notizia di questi giorni la banca britannica Barclays  ha annunciato che potrebbe tagliare circa 3mila posti di lavoro nel 2011 nell’ambito del piano per ridurre i costi. Il numero uno del gruppo, Bob Diamond, ha detto nel corso di una conference call, che nel primo semestre c’e’ stata una riduzione di 1.400 posti. Il gruppo ha chiuso i primi sei mesi dell’esercizio con un utile netto in calo del 38% a 1,50 miliardi di euro a fronte di un risultato di 2,43 miliardi registrato nello stesso periodo dell’anno precedente. Ma allora quale è la soluzione? Rifiutare la tecnologia? Assolutamente no. Come ho detto la tecnologia ha migliorato la nostra qualità di vita.

Semmai la risposta può essere nel cambiare la nostra struttura sociale, e per fare ciò bisogna che questo problema si ponga a livello internazionale portando avanti nuove regole comuni a tutti.

Il progresso tecnologico, avrebbe dovuto portarci a lavorare meno: con un minore numero di ore di lavoro si può produrre lo stesso quantitativo di prodotti di qualche anno fa.

Oggi, ognuno di noi, tende a lavorare più degli altri, ma la tecnologia ci permetterebbe di lavorare di meno e lavorare tutti: meglio che lavori una persona 8-12 ore e un’altra sia disoccupata, o che tutte e due lavorino magari 4-6 ore a testa?

L’incidenza del “costo umano” con il progresso tecnologico si va riducendo, inoltre il maggiore costo di un maggiore numero di impiigati, verrebbe riassorbito perché se lavorano molte persone, queste stesse persone, avendo uno stipendio, potranno acquistare beni e servizi (mentre è lapalissiano che chi non lavora, non avendo una fonte di reddito, non può spendere).

Questa soluzione potrebbe anche non bastare o non essere gradita.

Allora si potrebbe anche ipotizzare una distinzione tra “beni necessari” e “beni non necessari”: per quelli necessari potrebbe provvedere lo Stato, per quelli non necessari si provvederebbe individualmente con il proprio lavoro. Ad esempio, si può pensare una abitazione standard per tutti, e poi se io lavoro e guadagno posso comprarmi una casa più bella. Il progresso tecnologico ha permesso l’abbattimento dei costi di molti beni di prima necessità.

E’ ovvio che sto solo abbozzando delle ipotetiche soluzioni, ma quel che mi preme è di porre il problema, perché solo ponendolo si può iniziare a trovare una soluzione.

Il vero problema non è la crisi contingente, ma che il nostro modello sociale di sviluppo sta mostrando la corda, ora che il progresso tecnologico ha permesso un aumento esponenziale della nostra produttività.

Se questo problema non verrà dibattuto nelle sedi apposite, dubito che avremo delle soluzioni strutturali ed efficaci ai problemi della disoccupazione mondiale

Riceviamo e pubblichiamo di Mario Pezzati

 

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