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Spesa pubblica e produttività

postato il 3 Settembre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Dire che il problema non è il deficit pubblico, come fanno alcuni, significa sviare il problema senza indagarne le cause. Il punto è: come è originato questo deficit? Che natura ha questo deficit? Se è un deficit per investimenti produttivi, ben venga. Ma se è un deficit per foraggiare rendite parassitarie, allora non ci sarà mai una vera ripresa.

Per alcuni Monti sta cercando una svalutazione del salario tramite disoccupazione, chi afferma ciò però sbaglia clamorosamente. L’intervento pubblico c’e stato in passato, c’è e ci sarà. In fondo quando Monti rilancia le infrastrutture usando i fondi FAS, non è forse intervento (e spesa) pubblico? Il punto è portare avanti le liberalizzazioni e semplificaziopni chieste da imprenditori e cittadini (e Monti lo sta facendo seppur tra mille problemi) e soprattutto riqualificare la spesa pubblica passando da una spesa improduttiva, ad una spesa produttiva. E qui il problema è enorme, perché bisogna cambiare la mentalità degli Italiani. In Italia il tempo dedicato al lavoro è visto come un sacrificio, come tempo rubato alla vita, come un sopruso perché altrimenti potremmo vivere una vita migliore e piena. Negli altri paesi, forse per l’influsso del pensiero calvinista e protestante, il concetto è diverso: il lavoro è visto come una benedizione, come tempo speso bene e in maniera produttiva, come qualcosa che ti rende orgoglioso di quello che fai e proprio per questo motivo sei stimolato a farlo al meglio.

In Italia, il punto non è il diritto al lavoro, che è sacrosanto, ma il diritto allo stipendio. Con questo non si vuole certo dire che dobbiamo lavorare gratis. Assolutamente no. Ma se noi parliamo di diritto al lavoro, noi parliamo di una attività per la quale riceviamo uno stipendio. In altre parole nel momento in cui parliamo di diritto al lavoro, in senso pieno, noi incentriamo il discorso sul fatto che riceviamo uno stipendio in cambio di una nostra controprestazione (il lavoro appunto) che deve essere svolta al meglio. Oggi molti parlano di diritto al lavoro, ma in realtà intendono diritto allo stipendio, senza considerare la controprestazione lavorativa, e quindi passiamo dal concetto di reddito a quello di rendita, ovvero, percepisco del denaro indipendentmente dalla mia attività lavorativa.

E questo non va.

Altro punto è la riqualificazione della spesa pubblica. E a tal proposito è interessante leggere un libro di circa 5 anni fa, scritto da Geminello Alvi e intitolato “una repubblica fondata sulle rendite”, dove è possibile trovare dati interessanti. Analizziamone qualcuno.

Nel 2004 in italia vi erano 17,5 milioni di lavoratori. Di questi, 3,5 milioni erano lavoratori statali. Restano 14 milioni di alvoratori. A questi rapportiamo una cifra: 16 milioni e trecentomila. Bel numero, vero? Ebbene, erano, nel 2004, i pensionati. Significa che per ogni lavoratore non statale, vi erano 1,2 pensionati con un ammontare medio lordo di 12.039 euro. Se noi togliamo i dipendenti statali vediamo che i pensionati, nel 2004, erano più dei lavoratori. Queste sono le cifre ufficiali. E non è finita qui. Di questi 16,3 milioni di pensionati, 4 milioni e novecentomila erano pensionati tra i 40 e i 64 anni (età che dovunque è considerata lavorativa,da noi invece già buona per la pensione) e questo porta ad un fatto: il tasso di occupazione della nostra economia nella fascia di età tra i 55 e i 64 anni arriva solo al 30,5% (dati del 2004), quello generale è di 17,1 punti al disotto dei danesi e di 2,1 punti inferiroe persino ai greci. Chi lavora? Al 90% lavoravano i maschi tra 35 e 54 anni, e meno della metà delle donne. Ma torniamo alle pensioni. Se togliamo 4,9 milioni da 16,3 milioni di pensionati e rapportiamo di nuovo i pensionati ai lavoratori non statali otteniamo 0,8 pensionati per lavoratore. Ovviamente la differenza tra ai contributi e le pensioni erogate, chi le pagava? Lo stato che nel 2004 trasferì all’INPS il 5,1% del PIL. Oltre ai contributi, insomma, gli attivi pagano agli inattivi, in rendite sussidiate, l’equivalente di 1.600.000 salari lordi, l’11% di tutti i salari produttivi.

Nei commenti passati  ho parlato di produttività: ebbene nel 2004 vi erano 5.370.000 occupati nell’industria. Ebbene questo numero era abnorme se lo paragoniamo a Francia e Inghilterra: avevamo circa il 25% de i lavoratori italiani impiegati nell’industria, mentre in Francia e Inghilterra tale percentuale scendeva al 20%, con una produzione quantitativa paragonabile alla nostra: significa che quella differenza del 5% era dovuta alla nostra minore produttività ed efficienza. Inefficienza, che riguarda anche altri settori: nel 2004 Germania, Francia e Gran Bretagna vedono che l’11% della popolazione lavorativa ha la partita iva; da noi la percentuale era del 25% (più che in Portogallo e Grecia); siamo il paese delle consulenze, soprattutto delle consulenze fornite al settore pubblico, ma non si sa per cosa (forse che tra 3,5 milioni di dipendenti statali non vi siano persone con competenze pari a questi consulenti esterni? Mistero). Questa differenza di produttività si vede nel confronto tra i profitti delle imprese: le grandi hanno profitti maggiori (pur pagando stipendi in media più alti) delle piccole, anzi per quantificare tale dislivello, si sappia che le prima hanno un profitto pari al 40,5% sul valore aggiunto, mentre le piccole imprese hanno il 20,5% e sono al di sotto della redditività media europea. La retorica politica, vuole che tra il 1992 e il 1998 si risanasse l’Italia. Tutte balle, perché il risanamento fu dovuto ad un notevole risparmio negli interessi pagati dallo Stato per le manovre che ci hanno portati nell’euro: da una spesa per interessi pari al 12,6% del PIL, si passa, nel 1998 all’8%, ovvero quasi 5 punti percentuali in meno. La spesa corrente era calata, invece, solo dell’1,4%

Passiamo allo Stato italiano, anzi ai dipendenti statali. Premetto che mia madre è una 71enne ex insegnate, in pensione e lo dico per togliere ogni dubbio: quello che dirò non è per pregiudizio. Ebbene prendiamo i dati del 1993 e quelli del 2004, osserviamo che la spesa per stipendi pubblici è rimasta inalterata al netto della inflazione e anzi i dipendenti pubblici sono cresciuti, mentre in altri settori come poste e telecomunicazioni si è provveduto a tagliare. Anzi se i dipendenti statali avessero seguito il percorso di Poste e telecomunicazioni, sarebbero dovuti calare di circa 700.000 unità, e invece aumentano di 100.000 unità. Il reddito da lavoro dipendente pubblico nel 1995 era maggiore del 16% rispetto al privato; nel 2003 il vantaggio sale al 37% (cioè, per dire, se il dipendente privato prende uno stipendio pari a 100, il dipendente pubblico prende, in media, 137).

Questi sono i mali dell’Italia e, dati ISTAT e internazionali alla mano, la realtà non è molto cambiata dal 2004 ad oggi, se non in peggio a causa della concorrenza internazionale.

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Una vergogna gli attacchi al colle

postato il 3 Settembre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo”, di Patrizia

Gli insulti attacchi al colle, sono una vergogna, sembra tutta una macchinazione per costringere Napolitano alle dimissione, una macchinazione in cui sicuramente il cavaliere è l’artefice. Oggi l’elezione del Presidente della Repubblica con la maggioranza ipocrita del PDL e la Lega potrebbe favorire l’elezione a successore di Napolitano il cavaliere. Il PDL così riuscirebbe una volta per tutti a liberarsi di Berlusconi. Il Fatto,la Repubblica, Grillo, Procura di Palermo non so che ruolo abbiano in tutto questo, sembra quasi che si siano accordati con il cavaliere, lo so che la cosa possa sembrare strana ed improbabile.Ma allora perchè tutti contro Napolitano?
Spero solo che Lei Presidente Casini insieme al PD, ostacoli con tutte le forze l’elezione di Berlusconi al quirinale. Noi italiani non lo vogliamo, ne abbiamo le tasche piene della sua faccia tirata e lucida, della sua ipocrisia, delle sue volgarità, del suo continuare non fare niente per la nostra Italia.

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#Meritiamolo

postato il 30 Agosto 2012

Siamo un gruppo di appassionati di politica, principalmente giovani, pieni di entusiasmo e di voglia di darsi fare e consapevoli che, a questo, deve aggiungersi una grande forza di volontà e la capacità di concretizzare le belle idee. Aspiriamo ad essere quella forza in grado di portare un reale cambiamento nella politica italiana, senza aver paura di mettersi al timone ma senza fare i finti-ammutinati che in realtà vogliono farsi solo pubblicità. L’1 settembre 2012, dalle 9 di mattina fino alle 18 di pomeriggio, ci ritroveremo a Forte Marghera (Mestre) e sarà: “#Meritiamolo”.

Abbiamo deciso di lanciare un’iniziativa diversa dal solito. Di questi tempi in politica si parla molto di ricambio della classe dirigente dei partiti. Molti giovani (e meno giovani) impostano questa battaglia sul concetto di età: c’è chi parla di rottamazione, chi di ricambio generazionale, chi di formattazione.
Riempire il Parlamento, i Consigli Regionali (etc. etc.) di Renzo “Trota”, Minetti e via dicendo, solo perché giovani, sarebbe un errore: non basta essere giovani per essere svegli, capaci, onesti.
Che vi sia bisogno di un ricambio è indubbio. Il punto vero è quale sia il mezzo giusto per operarlo. La valutazione secondo noi deve basarsi sulla capacità (politica, ovviamente). Lo spazio ai giovani dev’essere dato abolendo le rendite di posizione e lasciandoli competere alla pari: non regalandolo. Per questo abbiamo deciso di portare avanti iniziative che si basino sul concetto di capacità, di impegno, in sostanza di “merito”.

Il nome della nostra prima iniziativa è quindi MERITIAMOLO. Al nome anteponiamo un #, per qualificarlo come evento social e wired. #Meritiamolo sarà impostato sui contenuti.

Abbiamo costruito un sito internet in cui proporre e discutere idee e punti programmatici su “Il Paese che vorrei” e su “Il partito che vorrei“. Vi invitiamo a darci un’occhiata e a partecipare con le vostre idee.
Il futuro della nostra generazione, il futuro dell’Italia e il cambiamento che vogliamo vedere nelle cose, non arriveranno come doni dal cielo: dobbiamo guadagnarceli, dobbiamo meritarli.

La raccolta delle idee culminerà nella giornata di SABATO 1 SETTEMBRE nell’ex polveriera austriaca di Forte Marghera, a Mestre. Un luogo spartano, dove ci troveremo all’insegna della semplicità e del confronto. L’evento sarà diverso dalle solite convention politiche: niente fronzoli, niente giacche e cravatte, interventi liberi (di 5 minuti, onde evitare il parlarsi addosso), interruzioni e domande dal pubblico, niente palchi o poltroncine da auditorium; il palco sarà una cassetta della frutta e le poltroncine degli scatoloni su cui sedersi. Se verrà qualcuno di importante, sarà messo sullo stesso piano degli altri.

Ci divideremo in due gruppi che lavoreranno tutto il giorno alle proposte presentate via internet e direttamente all’evento. Alla fine sintetizzeremo le proposte migliori e le proporremo al partito. La struttura dell’evento spiega da sé ciò che vogliamo: una politica più povera e più orizzontale, a contatto con la realtà dei cittadini. Niente sale convegni di hotel chic, niente tavole rotonde con giornalisti stra-fighi, niente illustri relatori a pagamento. Solo persone che discutono liberamente di come fare a cambiare questo Paese.

L’organizzazione spartana ci ha anche permesso di contenere al massimo i costi (quasi nulli, pur senza avere alcuno sponsor). I partecipanti pagheranno solo il pranzo (14 euro a testa per un menù fisso nel ristorante del Forte).

Crediamo che l’iniziativa possa essere interessante. Se desiderate partecipare potete farlo da subito sul sito internet (www.meritiamolo.it), via Facebook o via Twitter e infine venire l’1 settembre (qui il programma completo). Unica richiesta per motivi organizzativi: la registrazione anticipata per permetterci di sapere quanti saremo (clicca qui).

I nomi di fondatori e promotori sono sul nostro sito.

Per maggiori informazioni, contattateci tramite

sito internet
meritiamolo su fb
meritiamolo su twitter

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Il piano del Governo per rilanciare l’occupazione e l’economia

postato il 27 Agosto 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Cosa ha partorito il consiglio dei ministri dopo 9 ore di riunione?

Sostanzialmente si tratta di una agenda che detta punto per punto i prossimi passi del governo e all’interno di questa, i punti, a mio avviso, più importanti sono quattro: le liberalizzazioni, le assunzioni nel mondo della scuola (per più di 30.000 nuovi lavoratori tra docenti e personale di vario genere), la pianificazione per l’utilizzo dei fondi europei dal 2014 al 2020 (con lo scopo di usare tutti i fondi destinati dalla Ue, per evitare che vengano poi ripresi dalla comunità europea medesima) che permetterà investimenti in infrastrutture fisiche e internet, la maggiore protezione del territorio da frane e alluvioni (le spese per riparare i danni sono molto maggiori delle spese necessarie per la messa in sicurezza e la prevenzione).

Andando più nello specifico osserviamo che molte delle misure indicate nel documento ufficiale erano già state anticipate nei giorni scorsi, come quelle che riguardano le semplificazioni, le infrastrutture e le start up, mentre, per ora, non è inserito quanto preannunciato dal ministro Fornero circa una riduzione del cuneo fiscale e contributivo per le aziende che investono in capitale umano.

Per quanto riguarda la scuola, come detto, vi sono tre decreti presidenziali che prevedono l’assunzione a tempo indeterminato già per l’anno scolastico 2012 – 2013 di personale docente, tecnico-amministrativo e di dirigenti amministrativi per un totale di più di 30mila unità (ripartite in 12.000 docenti, 1213 dirigenti scolastici, 21.112 unità di personale docente ed educativo a cui vanno sommati alcune diecine di assunzioni per docenti nelle Accademie e Conservatori di musica).

Rapportando questi numeri al numero dei disoccupati in Italia, si tratta di diminuire in un colpo solo del 1,5% la disoccupazione (attualmente poco sopra i 2,4 milioni di individui).

Per il resto, la strada del governo prosegue di fatto nella direzione già intrapresa, con l’obiettivo di “introdurre nel sistema economico italiano più efficienza, più produttività, più competitività, anche alla luce delle raccomandazioni rivolte all’Italia nel quadro del Semestre europeo”.
I punti cardine della strategia messa a punto dal governo, si legge nel comunicato stampa ufficiale, sono: “il recupero del gap infrastrutturale, anche attraverso l’attrazione di capitali privati; la spinta all’innovazione tecnologica e all’internazionalizzazione delle imprese; la creazione di un contesto favorevole alla nascita di start up, soprattutto da parte dei giovani; gli investimenti nel capitale umano promuovendo l’apprendimento permanente e valorizzando il merito; la riduzione degli oneri burocratici a favore di cittadini e imprese; l’attenzione a una crescita sostenibile ed eco-compatibile”. Ovviamente questo riguarderà anche le liberalizzazioni, infatti nel documento si legge «Occorre creare spazi nuovi per la crescita di autonome iniziative private, attualmente bloccate o rese interstiziali da una presenza pubblica invadente e – si precisa – spesso inefficiente (si pensi, a esempio, al settore postale; ai beni culturali e alla sanità)».

Altro provvedimento è quello che ha accolto la richiesta dell’UDC, ovvero prorogare al 30 novembre il pagamento delle tasse e dei tributi nelle aree terremotate.

E a proposito di aree terremotate, come detto si porterà avanti non solo la preparazione del programma 2014-2020 per l’uso dei fondi strutturali Ue, ma si tutelerà l’ambiente con la riduzione del Co2, e la gestione del suolo contrastando il dissesto idrogeologico.

Anche i siti archeologici hanno trovato spazio nell’agenda del governo, e a breve vi sarà la legge quadro per lo spettacolo e i progetti sui siti di maggior interesse culturale, come Pompei.

Infine uno sguardo alla famiglia, infatti si prevede di “rivedere le detrazioni fiscali a vantaggio della famiglia e favorire la natalità” a cui aggiungere il rifinanziamento per il 2013 della “carta acquisti” a sostegno delle famiglie colpite da disagio economico. A questo si dovrebbe aggiungere anche la riforma dell’ISEE per modificare i criteri di selezione dei soggetti da ammettere alle prestazioni sociali a condizioni agevolate.

Tutto questo, ovviamente, senza intaccare il rigore, ma anzi continuando sulla strada che ha permesso all’Italia di uscire dall’emergenza e di potere riprogramamre il futuro. Per fare questo è stata prevista da un lato il continuamento alla lotta all’erosione fiscale, all’evasione e all’elusione e, soprattutto, l’abbattimento del debito con il programma di Grilli per le dismissioni “attraverso fondi di investimento ai quali verranno conferite proprietà mobiliari ed immobiliari pubbliche” a cui aggiungere anche la cessione delle partecipazioni azionarie dello Stato in Sace, Fintecna e Simest.

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Trasporti: l’Italia che non corre, cammina

postato il 27 Agosto 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano

Che i trasporti in Italia non siano al passo rispetto a quelli europei, è ormai un fatto appurato. Quando però tutto ciò lo si verifica personalmente, tutto ciò si trasforma in amara consapevolezza.

Amo viaggiare, e quest’anno, per le mie vacanze, ho scelto due mete: la prima è stata Valencia, una delle città più grandi della Spagna, la seconda Palermo, capoluogo della bellissima Sicilia.

In poco più di 15 giorni, ho potuto apprezzare l’efficienza dei mezzi pubblici spagnoli, e l’inefficienza di quelli italiani, specialmente (ahinoi!) di quelli romani.

Una volta arrivati in aeroporto a Valencia, abbiamo facilmente raggiunto la metro, situata all’interno dell’aeroporto stesso, e con poco più di 2 euro (il viaggio singolo, da questa zona di Valencia, costa poco più di 3 euro, ma avendo acquistato la carta per 10 viaggi in metro, siamo riusciti a risparmiare anche su questo biglietto) abbiamo raggiunto il centro della città. Commenti sulla metro? Tutti positivi: pulitissima, con aria condizionata e, soprattutto, poco affollata. Inoltre, tutte le altre stazioni erano pulite, curate e molto illuminate. Insomma, un livello di efficienza da cui la metropolitana della nostra capitale, Roma, è purtroppo lontana. Troppo spesso i treni delle linee della metro romana, sono affollatissimi e decisamente poco puliti. Il costo del biglietto, aumentato del 50% degli ultimi anni, è di 1,50 euro, e non c’è una fermata per l’aeroporto.

Raggiungere Fiumicino, infatti, è tutt’altra storia.

Fondamentalmente, per chi vuole utilizzare i mezzi pubblici, ci sono due strade: o la linea Roma Tiburtina – Fiumicino (costo del biglietto 8 euro), oppure il Leonardo Express, da Roma Termini (costo 14 euro). Insomma, la differenza di costi fa riflettere, soprattutto se ci si aspetta che ad un costo maggiore corrispondano servizi maggiori. Ebbene, per esperienza, ho capito che non è così: due giorni fa, il Leonardo Express, è riuscito ad accumulare 8 minuti di ritardo, su una tratta la cui durata dovrebbe essere di 30 minuti.

Più che rispetto all’efficienza, mi sembra che i costi siano direttamente proporzionali ai disagi. I ritardi dei mezzi delle Ferrovie dello Stato, infatti, sembrano diventati una consuetudine. Ieri, l’InterCity Roma-Taranto, ha accumulato, in 3 ore, ben 30 minuti di ritardo. In più, nella carrozza in cui ho viaggiato, l’aria condizionata sembrava pressoché assente: tutto questo in una delle giornate più calde dell’estate.

E’ vero che il costo del biglietto dell’InterCity è molto allettante, ma se penso che con qualche euro in più potrei avere il triplo dei servizi, rimpiango di non aver preso ItaloTreno. Faccio un esempio concreto: il costo del biglietto di un InterCity Napoli-Roma è di 22 euro, la durata del viaggio è di circa 2 ore; il costo del biglietto di Italo Treno, per la stessa tratta, è di 30 euro(tariffa base per entrambi), la sua durata è di poco più di un’ora. Dopo aver provato entrambi posso fare un confronto: gli 8 euro di differenza sono, questa volta, sinonimo di maggiore efficienza. Innanzitutto, sul secondo non ho sofferto lo stesso caldo provato ieri e, per di più, il treno è arrivato nella stazione di Roma Tiburtina con qualche minuto d’anticipo. Se a questo si aggiunge un’ottima pulizia del treno e il wi-fi gratuito (che, però, non ho potuto verificare), direi che questa differenza è più che giustificata.

Certo, bisogna considerare il fatto che Italo è una società nuova, che ha investito molto e che, in questi primi anni, dovrà tenere prezzi convenientigarantire la puntualità, per poter diventare sempre più presente, nelle diverse città italiane. Probabilmente, Trenitalia si adopererà per migliorarsi, per non lasciarsi sopraffare dalla compagnia di Montezemolo. Nel frattempo, noi italiani potremo godere di questo spiraglio di sana concorrenza, e viaggiare più spesso in treno, specialmente ora che il prezzo della benzina continua a salire.

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Un progetto positivo contro l’Europa delle diffidenze

postato il 24 Agosto 2012

di Adriano Frinchi

Il giornalista e scrittore svedese Richard Swartz ha pubblicato ieri sul quotidiano Dagens Nyheter un interessante articolo dal titolo “Gli europei, troppo diversi per capirsi”. Swartz nell’articolo sostiene che più che le piccole differenze tra le performance economiche dei paesi dell’Ue, a costituire l’ostacolo principale per la creazione di un’autentica comunità omogenea sono i grandi divari culturali tra gli europei. Si tratta di articolo piuttosto pessimista che se fosse stato pubblicato in Italia sarebbe stato tacciato di euroscetticismo, eppure se il quotidiano Dagens Nyheter, una specie di Corriere della Sera svedese, ha dato spazio a questo editoriale è assai probabile che Swartz interpreti il sentimento di gran parte dei cittadini del nord Europa. Nel fondo del giornalista svedese si legge:

In uno spazio tutto sommato ristretto, 300 milioni di persone devono cercare di dar vita a un’unione, quando di fatto non occorre allontanarsi neanche troppo prima di non essere più in grado di capire ciò che dicono gli altri, di trovare chi mangia o beve cose di cui non abbiamo neanche una vaga idea, chi canta canzoni a noi sconosciute, chi celebra altri eroi, chi ha un rapporto completamente diverso con il tempo, ma anche sogni e demoni differenti.

Per Swartz poi la crisi economica è stata una sorta di momento della verità per l’Europa delle differenze, che si è scoperta molto simile ad un museo degli orrori:

In realtà, è stato necessario attendere la crisi europea per aprire gli occhi sul divario che separa le chiacchiere dalla realtà. Con nostro grande stupore, la crisi ci ha fatto scoprire persone che non avevano mai pagato le tasse, che pensavano che fossero gli altri a dover saldare i loro debiti e che accusavano di dispotismo chi tendeva loro la mano. Ignoravamo l’esistenza di questi europei e non volevamo credere che esistessero. Tuttavia, questa è la realtà che ci circonda, ed è così da tempo.

Swartz non è un populista euroscettico, ma probabilmente nel suo articolo ha dato voce al comune sentire di molti cittadini di Germania, Francia e Scandinavia che, non senza qualche ragione, storcono il naso davanti ai problemi e alle incoerenze dell’Europa mediterranea. Emblematica è a proposito la vicenda del ministro croato con 500 funzionari raccontata dallo scrittore svedese. Fortuna che non ha buttato un’occhio in Italia.

Di questo passo è evidente che l’Europa delle differenze si trasformerà presto in una Europa delle diffidenze, con il risultato che si andranno presto a fare benedire solidarietà europea e forse la stessa Unione.

C’è una modo per evitare la fine del sogno europeo e il ritorno all’Europa degli egoismi?

Una proposta interessante è possibile leggerla oggi sul quotidiano fiammingo De Morgen a firma di Paul Huybrechts che sostiene che l’Europa per superare i suoi problemi di liquidità, solvibilità e legittimità ha bisogno di fiducia e di un progetto positivo.

Scrive Huybrechts:

La crescita ha bisogno di fiducia, una fiducia come quella che si percepiva negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Ecco: ripristinare quella fiducia e creare tra la cittadinanza una volontà a lavorare significativamente di più pur guadagnando di meno è possibile soltanto con un alto livello di legittimità politica. I nostri politici hanno bisogno di un mandato democratico, che sia soggetto a rinnovo ogni cinque anni.

Le conclusioni del Presidente della federazione fiamminga degli investitori sono piuttosto chiare: l’Unione europea deve diventare una unione politica. Per far ciò è però indispensabile avere un “progetto positivo” per l’Europa che ha come perno una Costituzione europea secondo l’intuizione del filosofo  Jürgen Habermas:

Secondo l’interpretazione di Habermas, una Costituzione funge sia da costruzione sia da testo fondamentale di riferimento. Secondo Habermas, in pratica, dobbiamo evitare di vedere l’agognato progetto europeo trasformarsi nel suo esatto contrario, ovvero in una “burocrazia post-democratica”, percepita come oppressiva e ostile dai popoli europei.

 Huybrechts sottolinea che in Germania qualcosa si muove in questo senso e che è necessario che in tutta l’Europa si prepari questo progetto positivo, magari con una consultazione pan-europea che dia legittimità democratica all’unione politica.
Un referendum europeo potrebbe sembrare rischioso ad alcuni di questi tempi, ma dare legittimità e consenso popolare al sogno europeo dei nostri padri forse è l’unico modo perché questo trionfi sulle diffidenze e gli egoismi.
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Per crescere non bastano le infrastrutture fisiche. Ripartiamo da Agenda Digitale e Giustizia

postato il 23 Agosto 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Forse ci siamo. Domani, il CDM tornerà a riunirsi dopo la breve pausa estiva e il tema all’ordine del giorno sarà solo uno: trovare, inventare, rendere fattibili le misure necessarie alla crescita. Dopo una lunga, forse troppo, fase 1 dedicata al rigore e all’austerità (costellata di alcune riforme riuscite bene, le pensioni, altre riuscite meno, il lavoro, altre ancora da far riuscire, la spending review) è giunto il momento della tanto attesa fase 2, quella dedicata alla crescita e allo sviluppo. Dopo l’intervista del Presidente Monti a Tempi, e gli interventi dei ministri Passera e Fornero e del viceministro Ciaccia, comincia a delinearsi la strategia che il Governo ha deciso di mettere in campo: defiscalizzare i cantieri delle nuove opere pubbliche, per invogliare gli imprenditori a impegnarsi, tagliare le tasse (ormai insostenibili) sul lavoro, ridurre ancora la spesa pubblica. Si è scelto quindi di intraprendere un cammino vecchio stampo, con la messa in opere di nuovi cantieri, che – secondo le stime dei tecnici del ministero dello Sviluppo – dovrebbero portare ad aumentare il nostro PIL di almeno 5 punti entro il 2020.

È una via solida per tornare a crescere. Eppure, forse, insufficiente. La fase 1 del Governo Monti ci ha insegnato infatti che lo sviluppo si insegue, prima di tutto, rimettendo in piedi i fondamentali della nostra economia: le riforme strutturali, infatti, hanno avuto il compito – spesso ingrato, forse addirittura truce per la rapidità dei tempi – di correggere le profonde storture e distorsioni del nostro sistema Paese. Su questa strada noi dobbiamo continuare: ok ai nuovi cantieri, ma non si può pensare che altri ponti, strade o tunnel possano bastare al nostro PIL. Più che di altre infrastrutture fisiche, noi abbiamo bisogno di un altro tipo di infrastrutture, che sono quelle che riguardano – in primis – lo spread digitale che ci separa dal resto d’Europa e la riforma della Giustizia (che come abbiamo detto e ripetuto, è la prima grande riforma economica di cui necessitiamo).

Ieri, Massimo Sideri sul Corriere, ha messo in luce il grave e colpevole ritardo del nostro Paese su Agenda Digitale, che sembra non capire che un provvedimento del genere non è un semplice palliativo ma è “una politica economica che dovrebbe fare da collante a tutto il resto” e pertanto non va approvata “«dopo» la crescita, la spending review e le politiche per l’occupazione, ma di pari passo”. Questo viene però osteggiato da due fattori: il primo, il nostro elefantiaco Stato-Moloch difficilmente accetta qualche cambiamento che potrebbe rivoluzionarlo; il secondo, il radicato pregiudizio nostro e nei nostri confronti, che ci porta a credere poco nella possibilità di usare Agenda Digitale come strategia per la crescita e che allontana da noi la possibilità di investimenti esteri. Su questo il Governo deve intervenire, con decisione, perché un’Italia veramente 2.0 garantirebbe la creazione di migliaia di posti di lavoro nel futuro, riattivando le energie migliori del nostro tessuto imprenditoriale (fatto storicamente da PMI: sarà un caso che stiano nascendo sempre più start up?).

E due. Trasporti più veloci e efficienti servono sicuramente a garantire un commercio più veloce e redditizio: ma risparmiare una, due ore di strada ci servirà sul serio, quando però un’impresa deve aspettare diversi anni per la risoluzione di una causa civile e la corruzione divora metà dei nostri fondi? Ovviamente no, e non è un caso che nell’Indice di libertà economica l’Italia si collochi solo al 92°, tra i paesi mostly unfree. Ecco perché la riforma della Giustizia è più urgente che mai, perché se non riformiamo le nostre infrastrutture giudiziarie, a ben poco varranno nuove colate di cemento: snelliamo i tempi del sistema giudiziario, riorganizziamo e razionalizziamo sul territorio le sedi giudiziarie, assicuriamo la certezza del diritto e della legge.

Perché per crescere le infrastrutture fisiche non bastano: se contiamo solo su queste, potremmo anzi ottenere un effetto contrario a quello sperato, con un aumento ingiustificato e inutile del debito pubblico. Se invece, insieme a queste, sceglieremo di intraprendere finalmente misure alternative e nuove, potremo dire di aver davvero dato il via a una “fase 2”. Non solo del Governo attuale, ma della storia del Paese.

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I passi del governo per rilanciare la crescita

postato il 21 Agosto 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Il governo sta studiando i vari dossier presentati dai ministri per rilanciare la crescita dell’Italia  e una prima risposta dovrebbe essere data nel Consiglio dei Ministri del 24 agosto in cui si dovrebbero partorire le linee guida dell’agenda programmatica (in pratica quello che il governo vorrà fare per lo sviluppo economico dell’Italia), come è stato affermato dal Premier al Meeting di Rimini.

Attualmente pare che l’azione del governo sarà sostenuto da tre “gambe”, ovvero tre direttrici attorno alle quali organizzare tutta l’attività futura; in concreto i tre punti sono gli investimenti e le agevolazioni per le imprese; tagliare la spesa pubblica improduttiva; ridurre il debito pubblico.

A questi tre punti si aggiungeranno gli investimenti per la banda larga e le agevolazioni per le nuove aziende (le famose start up) tramite un decreto legge che dovrebbe essere varato dal ministro Corrado Passera. In concreto il decreto dovrebbe prevedere come obiettivi l’e-government (portare i rapporti tra pubblica amministrazione e utenti a livello telematico) e una maggiore diffusione dell’economia online. Per questo bisognerà portare, entro il 2013, la copertura della banda larga di base (2 megabit per secondo) al 100% della popolazione e avviare la realizzazione della banda ultra larga (100 megabit) nelle grandi città. Per quanto riguarda le start up, si riuniranno presso un unico soggetto le risorse che sono invece sparse in diverse voci del bilancio pubblico, questo favorirà una maggiore efficienza, un risparmio nell’utilizzo delle risorse, e la possibilità di concentrarsi sui progetti migliori.

Per realizzare questi due punti, sarebbero necessari investimenti massicci (per la banda larga si parla di circa 16 miliardi di euro), mentre al momento si può avere una disponibilità di due-tre miliardi, ma altre risorse potrebbero essere trovate tramite la lotta all’evasione (che ha già superato gli obiettivi di tutto il 2012) e dai fondi comunitari, oltre che dai project bond. In ogni caso questi investimenti avrebbero fortissime ricadute come occupazione e come pil (per il potenziamento della banda larga, si prevede che si avrebbe un aumento del Pil di circa 60-70 miliardi di euro).

Le agevolazioni per le imprese prevedono numerose semplificazioni (provvedimento a costo zero e che libererebbe risorse da destinare ad altri settori) suggerite, tra l’altro, dalle varie associazioni imprenditoriali e che coinvolgerebbero procedure, autorizzazioni e concessioni.

Per le infrastrutture, invece, si parla di molte opere, in particolare per gli assi viari, per una cifra totale di 25 miliardi di euro di investimenti, reperiti tra fondi europei e capitali privati (questi ultimi coinvolti tramite project bond).

Tutto questo senza andare a considerare piani di più ampio respiro, come il piano aeroporti (che dovrebbe portare ad una razionalizzazione del settore, considerando che molti aeroporti sono in crisi finanziaria), e la Strategia energetica nazionale, documento che verrà sottoposto alla consultazione pubblica online e che prevede l’aumento della produzione nazionale di idrocarburi (anche attraverso le trivellazioni in mare) e punta a fare dell’Italia il principale hub per l’ingresso di gas verso l’Europa con la costruzione di rigassificatori, gasdotti di importazione e impianti di stoccaggio.

Sulla revisione della spesa pubblica, i tempi sono più veloci, e si punta a tagliare a spesa pubblica improduttiva e socialmente inutile: dopo il taglio di 280 milioni di euro delle auto blu, il governo, punta, ad esempio, a dimezzare tutte le auto blu entro il 2013, ma la vera rivoluzione saranno i costi standard (che dovrebbero mettere sotto controllo la spesa pubblica) e il CONSIP che dovrebbe ridurre gli sprechi centralizzando gli acquisti della pubblica Amministrazione. Tradotto in cifre, si sparla di risparmi per 10-15 miliardi di euro.

Per quanto riguarda il debito pubblico, memori dei fallimenti avuti con gli Scip 1 e 2 (le società veicolo create da Tremonti e che hanno completamente fallito le attese per una pronta vndita degli immobili), il governo procede con prudenza e sono state individuate dismissioni per 15-20 miliardi l’anno che, accompagnate a un consistente avanzo primario di bilancio e a una moderata crescita del Pil, ridurranno il debito in linea con gli obiettivi del Fiscal compact, cioè del 3% l’anno.

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Perché abbiamo bisogno di un nuovo degasperismo

postato il 19 Agosto 2012

di Giuseppe Portonera

Il 19 agosto 1954, moriva Alcide De Gasperi, primo Presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana e uno dei pochi statisti che la nostra storia politica e amministrativa abbia mai conosciuto. Fu una morte improvvisa: solo un anno prima, De Gasperi si era ritirato dalla scena politica, e il suo ricordo era ancora tanto vivo tra il popolo, che il trasporto della sua salma verso Roma fu rallentato più e più volte, per via delle masse che vollero tributargli un ultimo saluto.

Con oggi, sono 58 gli anni trascorsi dalla morte di De Gasperi. E in tutti questi 58 anni l’assenza di De Gasperi – o meglio, di una politica che fosse ispirata ai valori del degasperismo – è stata pesante: tanti sono stati gli uomini che hanno avuto l’ardire di professarsi eredi di De Gasperi; pochi sono stati quelli che hanno avuto la forza e il coraggio di seguire il suo esempio. Casini stesso, sul Corriere di ieri, ha scritto che “tutta la classe politica, e vorrei aggiungere anche gran parte della classe dirigente italiana, dovrebbe chiedere scusa a De Gasperi. In questi anni abbiamo pensato tutti troppo alle elezioni, agli interessi di partito, di categoria e di corporazione, e poco, o niente, alle prossime generazioni”. Il monito dello statista trentino a salvaguardare il futuro delle prossime generazioni, piuttosto che il proprio tornaconto elettorale, è stato puntualmente disatteso: faceva comodo citarlo nei comizi, ma guai a tradurlo poi in azione politica.

Nei suoi 8 anni di governo, De Gasperi riuscì a rimettere in piedi l’economia del Paese, scongiurando al contempo una sua disgregazione dopo la guerra, e una sua piena accettazione nel novero delle democrazie occidentali. De Gasperi capì, in anticipo sui tempi, che la grande polarizzazione verso cui il mondo stava andando (USA-URSS) non poteva vedere l’Italia neutrale: bisogna fare una scelta di campo, e la si doveva fare a sostegno del modello liberale e democratico incarnato dagli Stati Uniti; senza che questo, però, si traducesse in un grigio appiattimento. Fu proprio De Gasperi, infatti, insieme ad altri grandi uomini come Schuman, Adenauer e Spinelli, a capire che dall’orrore e dalle macerie della seconda guerra mondiale si usciva solo edificando la comune casa europea: lui, che era nato sotto la dominazione dell’Impero Asburgico, aveva compreso che il futuro non apparteneva agli Stati nazionali, prede di facili e pericolosi egoismi, ma a un’Unione Europea che sapesse farsi garante e interprete della nostra storia millenaria. Anche la sua azione politica appare attualissima: egli chiamò presso i dicasteri più delicati – quelli economici – gente del calibro di Einaudi, Vanoni e Pella, che seppero risollevare il Paese grazie all’apertura convinta al libero mercato, al liberismo e alla scelta di contrastare gli interessi corporativi e liquidare i residui dello Stato imprenditore fascista (operazioni queste vanificate, purtroppo, negli anni successivi alla scomparsa dello statista).

De Gasperi è stato unico e irripetibile, inutile negarlo. Ma il suo modello di leadership è quella a cui ci dovremmo ispirare: come ogni leader degno di questo nome, De Gasperi aveva ideali e convincimenti forti e un modello di società, nettamente opposto sia a quello fascista che a quello comunista, da applicare e rendere reale. Il suo impegno politico non si traduceva semplicemente nell’amministrazione d’ufficio del Paese, ma nella sua espressa volontà di riformarlo, di trasformarlo in profondità. Il suo essere cattolico impegnato non diventò quindi un limite, un tratto divisore: anzi! Proprio perché cattolico impegnato, egli si sforzò (e riuscì) ad essere quanto più inclusivo possibile, perfino quando – nel 1948 – avrebbe potuto benissimo governare l’Italia da solo e scelse invece di allearsi con altri partiti minori. E come dimenticare il suo rifiuto dell’”Operazione Sturzo”? Quando la Santa Sede voleva imporgli di allearsi perfino con i neofascisti, pur di vincere i comunisti, e lui “un povero cattolico della Valsugana” disse di no al Papa, scegliendo in autonomia la linea politica del proprio partito. Questa è la più grande lezione di laicità che un cattolico impegnato in politica dovrebbe tenere bene in mente, piuttosto che prodigarsi a ottenere il consenso di questa o di quella parte della gerarchia.

Più che di un nuovo De Gasperi, only the free can choose (come scrisse il Times), avremmo quindi bisogno di un nuovo degasperismo. Che poi, altro non è che l’espressione più autentica e vera della buona politica. Della Politica che ci serve.

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La Windjet affonda. Cosa succede nei cieli italiani?

postato il 16 Agosto 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

L’estate è divenuta improvvisamente molto amara per tutti i viaggiatori che avevano scelto la Windjet come compagnia aerea. A questi problemi, dobbiamo aggiungere da un lato i rischi professionali per gli 800 dipendenti che adesso vedono per loro un futuro molto nero e dall’altro i tanti interrogativi che solleva una vicenda che si presenta alquanto intricata, tanto che il Segretario regionale dell’Udc Gianpiero D’Alia afferma: “è vicenda molto grave e dai contorni oscuri. Bisogna fare subito chiarezza sul perché Alitalia rompe la trattativa alla vigilia di ferragosto e su quali sono le reali condizioni economiche di Windjet e se ci sono responsabilità dell’attuale management”.

E aggiunge: “esprimiamo totale solidarietà ai lavoratori Windjet. Non si può pensare di fare una trattativa al ribasso sulla pelle di 800 lavoratori. Auspichiamo che il tavolo convocato dal ministro Passera possa produrre risultati e sollecitiamo tutte le parti in causa ad adoperarsi con senso di responsabilità perché la Sicilia e l’Italia non possono permettersi un ennesimo fallimento”.

Recentemente un articolo de Linkiesta a firma di Marco Giovanniello ha lanciato l’ipotesi di “licenziare” Riggio, presidente dell’ENAC, perché non avrebbe vietato alla compagnia aerea catanese di vendere biglietti aerei, oltre che avere impedito a Lufthansa di insediarsi a Malpensa.

Duole dirlo, ma la vicenda è più complicata di così.

Chiariamo alcuni punti, dicendo alcuni fatti certi (ma, mi rendo conto, noti solo a pochi) e poi avanzerò alcune considerazioni:

1) che windjet fosse in via di fallimento, si sapeva da mesi. E per mesi intendo almeno 12-18 mesi;

2) non sta all’ENAC stabilire se una compagnia è finanziariamente solida. Questo spetta ai giudici (in caso di fallimento e/o truffa), o ai proprietari. In ogni caso ricordo che ci sono organi preposti al controllo e verifica dei bilanci, ma non si tratta dell’ENAC, che deve solo verificare il rispetto delle norme di sicurezza e all’assegnazione degli slot (ovvero le finestre di atterraggio e decollo), assieme all’Antitrust, sugli aeroporti italiani.

3) Lufthansa decise di non investire su Malpensa, non certo per i capricci dell’Enac, ma perchè si ritrovò una situazione “pesante”: stiamo parlando del 2008, ovvero del piano di salvataggio Alitalia. All’epoca il governo decise: A) di tutelare Alitalia-Cai, mantenendo e rafforzando il monopolio su Roma (i vincoli che bloccavano l’antitrust sono caduti solo in questi mesi e l’antitrust sta già imponendo a Cai di lasciare alcuni slot); B) di non aiutare l’altro hub, Malpensa, che ha sempre avuto il problema di una fortissima concorrenza con Linate (e anche Bergamo-Orio al Serio) che, unito ai collegamenti non proprio ottimali, ha sempre reso problematica lo scalo di Malpensa (per inciso, ha problemi anche come scalo merci, visto che la tav latita ancora).

4) Windjet, è posseduta da una finanziaria chiamata Finaria (posseduta a sua volta da Pulvirenti), la quale è finanziariamente solidissima (secondo Pulvirenti ha un giro di affari di 400 milioni a fronte di un indebitamento di 20 milioni), semplicemente non vuole più operare in perdita e non si vogliono fare travasi di risorse dalla suddetta finanziaria a Windjet.

5) chiudendo windjet, gli slot saranno liberi, ma non credo che, per motivi di antitrust, Cai possa prenderseli (se non quelli in fasce secondarie). Più probabile Meridiana (che attualmente li sta occupando) o Ryan Air o altri operatori.

Questi sono i fatti, certi e acclarati.

Passiamo ad altri fatti e alcune considerazioni.

La trattativa per l’acquisizione di Windjet, da parte di Alitalia Cai, va avanti da mesi (per inciso pare che vi sia anche una trattativa sotterranea tra Cai e Meridiana; la trattativa in questione è stata chiusa e riaperta varie volte a seconda delle disponibilità degli Emiri arabi e di Cai), ma solo recentemente si era giunti alla stretta finale. In base all’acquisizione, Alitalia doveva (per imposizione dell’antitrust) cedere alcuni slot altrimenti avrebbe operato in posizione di monopolio assoluto. A questo punto, Alitalia Cai fece una offerta che Pulvirenti giudicò irricevibile e la rispedì al mittente (fine giugno 2012) e quindi la compagnia guidata da Ragnetti decise di alzarsi dal tavolo non proseguendo più con le trattative (per inciso, Cai non si siederà al tavolo convocato da Passera e ha chiarito che non intende in alcun modo proseguire la discussione con Windjet mentre Pulvirenti fa sapere di stare trattando con altri vettori e di volere proseguire le trattative in solitario.

Detto quanto sopra, facciamo un esercizio di ipotesi (ed ecco le famose considerazioni).

Probabilmente, stiamo assistendo ad un gioco delle parti.

Avendo chiuso la partita con la vecchia Alitalia che verrà liquidata definitivamente (quando si chiuderà la CIG straordinaria per i dipendenti rimasti e non inseriti in CAI, la vecchia società potrà chiudere definitivamente i battenti, anche perché gli asset venduti e vendibili non bastano a rimborsare tutti i creditori integralmente), Alitalia Cai ha interesse a cercare di sopravvivere (ha i bilanci in perdita) fino al Gennaio 2013 e presentarsi a quella data con una certa “consistenza” in termini di slot, aerei, traffico. Perchè? Perchè (altro fatto noto e acclarato e lo trovate negli accordi del 2008) nel 2013 vi sono due scadenze importanti: nel gennaio 2013 scade la prima clausola di Lock-up per gli azionisti, ovvero il divieto di vendere la propria quota, e quindi gli azionisti potranno vendere agli altri azionisti (tra cui figura Air France) la propria quota. Si sa per certo che molti azionisti non vedono l’ora di liquidare , anche in perdita, la propria quota (per inciso hanno provveduto, Autostrade, Marcegaglia e Benetton in primis a svalutare in bilancio la quota Alitalia di loro pertinenza). Si pensava che Air France si sarebbe fatta avanti, ma anche AF ha i suoi problemi di bilancio e per un paio di anni non credo se ne parli dell’acquisto di Alitalia (almeno stando alle dichiarazioni ufficiali dell’Amministratore Delegato di Air France). La seconda scadenza è settembre 2013, in cui scade la seconda clausola di lock-up, alla scadenza della quale gli azionisti potranno vendere a chi vogliono la loro quota.

Quindi, da gennaio a settembre 2013, potranno vendere la loro quota solo agli altri azionisti, da settembre 2013 potranno venderla a chiunque si presenti alla loro porta.

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