Spesa pubblica e produttività
postato il 3 Settembre 2012“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati
Dire che il problema non è il deficit pubblico, come fanno alcuni, significa sviare il problema senza indagarne le cause. Il punto è: come è originato questo deficit? Che natura ha questo deficit? Se è un deficit per investimenti produttivi, ben venga. Ma se è un deficit per foraggiare rendite parassitarie, allora non ci sarà mai una vera ripresa.
Per alcuni Monti sta cercando una svalutazione del salario tramite disoccupazione, chi afferma ciò però sbaglia clamorosamente. L’intervento pubblico c’e stato in passato, c’è e ci sarà. In fondo quando Monti rilancia le infrastrutture usando i fondi FAS, non è forse intervento (e spesa) pubblico? Il punto è portare avanti le liberalizzazioni e semplificaziopni chieste da imprenditori e cittadini (e Monti lo sta facendo seppur tra mille problemi) e soprattutto riqualificare la spesa pubblica passando da una spesa improduttiva, ad una spesa produttiva. E qui il problema è enorme, perché bisogna cambiare la mentalità degli Italiani. In Italia il tempo dedicato al lavoro è visto come un sacrificio, come tempo rubato alla vita, come un sopruso perché altrimenti potremmo vivere una vita migliore e piena. Negli altri paesi, forse per l’influsso del pensiero calvinista e protestante, il concetto è diverso: il lavoro è visto come una benedizione, come tempo speso bene e in maniera produttiva, come qualcosa che ti rende orgoglioso di quello che fai e proprio per questo motivo sei stimolato a farlo al meglio.
In Italia, il punto non è il diritto al lavoro, che è sacrosanto, ma il diritto allo stipendio. Con questo non si vuole certo dire che dobbiamo lavorare gratis. Assolutamente no. Ma se noi parliamo di diritto al lavoro, noi parliamo di una attività per la quale riceviamo uno stipendio. In altre parole nel momento in cui parliamo di diritto al lavoro, in senso pieno, noi incentriamo il discorso sul fatto che riceviamo uno stipendio in cambio di una nostra controprestazione (il lavoro appunto) che deve essere svolta al meglio. Oggi molti parlano di diritto al lavoro, ma in realtà intendono diritto allo stipendio, senza considerare la controprestazione lavorativa, e quindi passiamo dal concetto di reddito a quello di rendita, ovvero, percepisco del denaro indipendentmente dalla mia attività lavorativa.
E questo non va.
Altro punto è la riqualificazione della spesa pubblica. E a tal proposito è interessante leggere un libro di circa 5 anni fa, scritto da Geminello Alvi e intitolato “una repubblica fondata sulle rendite”, dove è possibile trovare dati interessanti. Analizziamone qualcuno.
Nel 2004 in italia vi erano 17,5 milioni di lavoratori. Di questi, 3,5 milioni erano lavoratori statali. Restano 14 milioni di alvoratori. A questi rapportiamo una cifra: 16 milioni e trecentomila. Bel numero, vero? Ebbene, erano, nel 2004, i pensionati. Significa che per ogni lavoratore non statale, vi erano 1,2 pensionati con un ammontare medio lordo di 12.039 euro. Se noi togliamo i dipendenti statali vediamo che i pensionati, nel 2004, erano più dei lavoratori. Queste sono le cifre ufficiali. E non è finita qui. Di questi 16,3 milioni di pensionati, 4 milioni e novecentomila erano pensionati tra i 40 e i 64 anni (età che dovunque è considerata lavorativa,da noi invece già buona per la pensione) e questo porta ad un fatto: il tasso di occupazione della nostra economia nella fascia di età tra i 55 e i 64 anni arriva solo al 30,5% (dati del 2004), quello generale è di 17,1 punti al disotto dei danesi e di 2,1 punti inferiroe persino ai greci. Chi lavora? Al 90% lavoravano i maschi tra 35 e 54 anni, e meno della metà delle donne. Ma torniamo alle pensioni. Se togliamo 4,9 milioni da 16,3 milioni di pensionati e rapportiamo di nuovo i pensionati ai lavoratori non statali otteniamo 0,8 pensionati per lavoratore. Ovviamente la differenza tra ai contributi e le pensioni erogate, chi le pagava? Lo stato che nel 2004 trasferì all’INPS il 5,1% del PIL. Oltre ai contributi, insomma, gli attivi pagano agli inattivi, in rendite sussidiate, l’equivalente di 1.600.000 salari lordi, l’11% di tutti i salari produttivi.
Nei commenti passati ho parlato di produttività: ebbene nel 2004 vi erano 5.370.000 occupati nell’industria. Ebbene questo numero era abnorme se lo paragoniamo a Francia e Inghilterra: avevamo circa il 25% de i lavoratori italiani impiegati nell’industria, mentre in Francia e Inghilterra tale percentuale scendeva al 20%, con una produzione quantitativa paragonabile alla nostra: significa che quella differenza del 5% era dovuta alla nostra minore produttività ed efficienza. Inefficienza, che riguarda anche altri settori: nel 2004 Germania, Francia e Gran Bretagna vedono che l’11% della popolazione lavorativa ha la partita iva; da noi la percentuale era del 25% (più che in Portogallo e Grecia); siamo il paese delle consulenze, soprattutto delle consulenze fornite al settore pubblico, ma non si sa per cosa (forse che tra 3,5 milioni di dipendenti statali non vi siano persone con competenze pari a questi consulenti esterni? Mistero). Questa differenza di produttività si vede nel confronto tra i profitti delle imprese: le grandi hanno profitti maggiori (pur pagando stipendi in media più alti) delle piccole, anzi per quantificare tale dislivello, si sappia che le prima hanno un profitto pari al 40,5% sul valore aggiunto, mentre le piccole imprese hanno il 20,5% e sono al di sotto della redditività media europea. La retorica politica, vuole che tra il 1992 e il 1998 si risanasse l’Italia. Tutte balle, perché il risanamento fu dovuto ad un notevole risparmio negli interessi pagati dallo Stato per le manovre che ci hanno portati nell’euro: da una spesa per interessi pari al 12,6% del PIL, si passa, nel 1998 all’8%, ovvero quasi 5 punti percentuali in meno. La spesa corrente era calata, invece, solo dell’1,4%
Passiamo allo Stato italiano, anzi ai dipendenti statali. Premetto che mia madre è una 71enne ex insegnate, in pensione e lo dico per togliere ogni dubbio: quello che dirò non è per pregiudizio. Ebbene prendiamo i dati del 1993 e quelli del 2004, osserviamo che la spesa per stipendi pubblici è rimasta inalterata al netto della inflazione e anzi i dipendenti pubblici sono cresciuti, mentre in altri settori come poste e telecomunicazioni si è provveduto a tagliare. Anzi se i dipendenti statali avessero seguito il percorso di Poste e telecomunicazioni, sarebbero dovuti calare di circa 700.000 unità, e invece aumentano di 100.000 unità. Il reddito da lavoro dipendente pubblico nel 1995 era maggiore del 16% rispetto al privato; nel 2003 il vantaggio sale al 37% (cioè, per dire, se il dipendente privato prende uno stipendio pari a 100, il dipendente pubblico prende, in media, 137).
Questi sono i mali dell’Italia e, dati ISTAT e internazionali alla mano, la realtà non è molto cambiata dal 2004 ad oggi, se non in peggio a causa della concorrenza internazionale.