Tutti i post della categoria: Riceviamo e pubblichiamo

C’è chi aspetta la rivoluzione e chi la fa

postato il 3 Aprile 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

“Aspettando la rivoluzione” è l’ultimo testo di Antonio Ghirelli, galantuomo e maestro di giornalismo, che volle mettere nero su bianco cento anni di storia del socialismo italiano. Mi è capitato spontaneamente di accostare il titolo di questo straordinario saggio di Ghirelli alle reazioni piuttosto piccate di Luciano Violante e Fausto Bertinotti alla rinuncia da parte di Pier Ferdinando Casini ai benefit di ex Presidente della Camera.

Violante e Bertinotti,  come uomini di sinistra anche se non assimilabili totalmente alla storia del socialismo italiano, hanno passato gran parte della loro vita ad attendere la rivoluzione. Una rivoluzione, più precisamente la trasformazione della società e la conquista dell’eguaglianza e della libertà, sempre aspettata e sempre rinviata. Purtroppo i rinvii nella sinistra italiana non si contano e la rivoluzione , anche quella più semplice dei comportamenti, diventa difficile se non impossibile. Non stupiscono allora i mugugni e  le accuse di ipocrisia da parte di Violante e Bertinotti alla lettera di rinuncia dei benefit di Casini: forse fanno parte di quella endemica, e per certi versi deleteria, dinamica dell’attesa/rinvio della rivoluzione.

C’è un però in questa storia: la rivoluzione questa volta la sta facendo Pier Ferdinando Casini, uno di quelli che una volta i giovani Violante e Bertinotti avrebbero chiamato reazionario, e che oggi invece si distingue per un rivoluzionario buonsenso che corre veloce come un tweet. Le rivoluzioni in fondo sono così, partono da piccoli gesti e si propagano velocemente sorprendendo i difensori dello status quo e anche coloro che hanno atteso e rinviato per troppo tempo.

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Viaggio tra gli “esodati”

postato il 31 Marzo 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

In questi giorni gli italiani hanno fatto l’orecchio con un neologismo: “esodati”. Chi sono questi esodati? In realtà non si sa con certezza, c’è chi parla di 50.000 persone, chi di 350.000, mentre alcuni parlano di 1 milione di lavoratori. Come mai questa confusione? Sostanzialmente gli “esodati” sono i lavoratori che, in base ad accordi collettivi tra azienda e sindacati, hanno accettato il “prepensionamento” o quanto meno una sorta di “scivolo” (in pratica hanno preso soldi) e hanno anticipato la loro uscita dal mondo del lavoro perché vicini all’età della pensione. Il problema è sorto con la riforma delle pensioni operata da Monti, perché spostando in là la soglia di età della pensione, queste persone si sono trovate “scoperte”. Molte dimissioni erano state date perché l’azienda era in crisi o voleva disfarsi di lavoratori giudicati non più utili e quindi premeva per pre-pensionamenti di fatto. Purtroppo chi è stato spinto a lasciare il lavoro in questo modo e per questi motivi oggi si trova senza stipendio e se prima pensava che la pensione sarebbe arrivata in 2-3 anni e poteva tirare avanti con quanto l’azienda aveva pagato, ora si trova a dovere rifare i conti perché i tempi si sono molto dilatati e rischia di vedere la pensione tra 6-7 anni.

Altri “esodi” sono stati frutto di calcolo, l’azienda non era in crisi, ma intavolava una libera trattativa con il dipendente che sollecitava uno “scivolo” ben oliato verso la condizione di pensionato vista come imminente. Anche questi lavoratori vivono un grosso problema, quantunque questo problema sia stato originato dalla fretta di andare in pensione e dalla voglia di cogliere un’opportunità retribuita, insomma di fare un “affare”.

E vi sono tante altre fattispecie, da qui il problema dell’INPS di dare una risposta univoca su quanti siano: il numero dipende a seconda di quali saranno le decisioni del governo per determinare le caratteristica degli esodati.

D’altronde se il numero fosse davvero di 350.000 persone, avremmo un numero enorme: in Italia i pensionati sono circa 19 milioni e gli assegni pensionistici un po’ più di 22 milioni (alcuni infatti percepiscono doppio assegno). Trecentocinquantamila sono circa il due per cento di tutti i pensionati in essere e sono, all’incirca, quanti vanno in pensione in due anni. Se fossero davvero queste le cifre, non si tratterebbe di una eccezione, ma di una modifica sostanziale al piano pensionistico varato dalla Fornero che anzi, di fatto, sarebbe congelato per i prossimi due anni, se si seguissero le prime proposte di modifica che stanno comparendo sui media.

Ma il punto è che qualcosa non torna: due giorni fa, quando il problema prese le prime pagine dei giornali, si parlò di 65mila esodati. Appena ci si mostrò possibilisti verso una riforma del sistema pensionistico, subito, gli esodati sono diventati 350.000 (o addirittura 1 milione secondo alcune stime), ma passare da 65mila a 350mila non è una bazzecola, non è assolutamente un errore di calcolo e anzi mette ko le previsioni del governo: trecentomila persone a cui consentire di andare in pensione con le vecchie regole, sono un costo di molti miliardi che vanno sottratti al risparmio di spesa previdenziale stimato e messo in bilancio. Forse è giusto e inevitabile perché gli “esodati” non possono essere condannati alla fame e liquidati con un “ci dispiace”. Però, in questo caso va detto chiaramente che tutta la collettività dovrà farsi carico di pagare questo prezzo; se invece si procederà a valutare caso per caso, allora questa cifra è destinata a ridursi, non senza polemiche. In ogni caso, la vicenda si presenta molto ingarbugliata.

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Un impegno concreto per il nostro avvenire, protagonisti del nostro futuro

postato il 30 Marzo 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Andrea Gallorini

In queste settimane stiamo ascoltando ripetutamente, con l’insistenza di una vecchia canzone, un consumato ritornello che più o meno suona così: “Dopo Monti nulla sarà come prima. La politica italiana, dopo l’esperienza del Governo tecnico, sarà radicalmente trasformata”. Sebbene condivida un simile ragionamento, anzi lo auspico profondamente, mi chiedo sostanzialmente quale siano le azioni e le intenzioni promosse da tutti noi, affinché il tanto desiderato cambio di passo nella politica nostrale diventi realtà e non una mera illusione.
Per quanto sia entusiasmante, non basta chiudere il nostro partito, l’Udc, crearne uno nuovo e magari ornarlo con qualche faccia nuova. Le operazioni di restyling funzionano sempre poco, particolarmente in politica. Quindi chi crede che basti cambiare il nome e magari anche il simbolo, aimè, si sbaglia di grosso.
La cosiddetta seconda repubblica, se è mai esistita in quanto tale, o diversamente è stata solo la propaggine di un lungo periodo di “transizione”, si è consumata come un laboratorio d’indiscriminati esperimenti genetici, che a seconda delle combinazioni hanno prodotto composizioni e scomposizioni di partiti invertebrati.
Se vogliamo davvero chiudere con il passato, se non vogliamo creare l’ennesimo partito di plastica di cui nessuno sente il bisogno, se davvero vogliamo offrire agli Italiani un nuovo strumento per fare politica, non possiamo che rimboccarci le maniche e costruire fisicamente un vero partito.
Per fare ciò bisogna tornare a discutere fra di noi, elaborare progetti, nuove idee in grado di dare una scossa al sistema politico italiano, e allora si, poter ereditare la novità innescata dal Governo Monti.
In vista del Congresso Nazionale dunque, spero vivamente che si intraprendano dibattiti in tutti gli organismi del partito, in modo tale da prepararci a celebrare il Congresso in maniera attiva e partecipata. Approfittiamo di questa occasione per delineare il partito che vogliamo, diamo vita nei fatti, ad una sana costituente programmatica.
Se vogliamo essere protagonisti del nostro futuro bisogna predisporci a lavorare con passione, in particolare noi giovani. La porta del rinnovamento è più che mai prossima e se saremo capaci di aprirla per primi, potremo davvero ricostruire questo Paese. Non c’è più tempo, e soprattutto, non possiamo permetterci il lusso di stare alla finestra a guardare. Siamo i portatori di una cultura politica che ha offerto tanto alla nostra Nazione e che ancora oggi ha molto da dare.
Dunque abbiamo una filosofia da seguire, in parte suggerita da Benigno Zaccagnini, storico e indimenticato leader della Democrazia Cristiana, in uno dei suoi tanti discorsi ai giovani dc, allora impegnati in uno stretto confronto con le forze comuniste: “se essi studiano, – riferendosi ai comunisti – noi dobbiamo studiare di più; se essi lavorano, noi dobbiamo lavorare di più; se essi sono seri, noi dobbiamo essere più seri; se essi hanno fede, noi dobbiamo avere più fede e certezza nelle nostre idee di quanta ne abbiano loro”.
Facciamo nostre queste parole, animiamoci d’impegno, in modo da creare assieme un Grande partito; perché come sappiamo, la storia la scrivono i Grandi e non i grossi partiti.

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Più caro il contratto a tempo determinato. Il maggiore gettito servirà a finanziare l’Aspi

postato il 26 Marzo 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Nell’ottica di combattere gli abusi dei contratti a tempo determinato, spesso usati per mascherare assunzioni a tempo indeterminato, il governo ha varato un importante provvedimento: un incremento del costo contributivo con un’aliquota dell’1,4% destinata a finanziare l’Aspi. “In caso di trasformazione del contratto a tempo determinato”, si legge nel documento, “si avra’ una restituzione pari all’aliquota aggiuntiva versata, con un massimo di 6 mensilità; la restituzione avviene al superamento del periodo di prova, ove previsto”.

Questo significa, che per l’azienda diventa più oneroso ricorrere ai contratti a tempo determinato, e addirittura diventa conveniente mutarli in contratti a tempo indeterminato per avere la restituzione dell’aliquota aggiuntiva.

Il maggiore contributo (pagato dall’azienda), come detto, servirà a finanziare l’ASPI, ma cosa è l’ASPI?

Questa sigla indica l’Assicurazione sociale per l’impiego, ovvero il nuovo strumento governativo per tutelare dalla disoccupazione “a carattere universale” che assorbe la vecchia disoccupazione ordinaria (non agricola) e quella con requisiti ridotti, quelle speciali edili e la mobilità e allarga l’ambito di applicazione ad artisti e apprendisti. A questo si aggiunge una sorta di mini-Aspi, che il governo vorrebbe usare per ampliare la possibilità di richiesta dell’assegno ai precari: l’indennità attuale con requisiti ridotti viene sostituita e «condizionata alla presenza e permanenza dello stato di disoccupazione».

Spieghiamoci meglio: mentre per l’Aspi “ordinaria” l’accesso è garantito con gli stessi requisiti della disoccupazione attuale – 52 settimane nell’ultimo biennio e 2 anni di anzianità assicurativa – per la mini-Aspi è sufficiente dimostrare di aver lavorato 13 settimane negli ultimi 12 mesi. L’assegno che sarà riconosciuto avrà un tetto di 1.119,32 euro «rivalutati annualmente sulla base dell’indice dei prezzi Foi», quelli cioè delle famiglie degli operai e degli impiegati.

La nuova Aspi concede trattamenti iniziali analoghi all’indennità di mobilità fino a 1.200 euro mensili ma «decisamente più elevati per quelle superiori a tale livello». E rispetto alla disoccupazione ordinaria la nuova indennità «è sempre più favorevole, fatta eccezione per le retribuzioni comprese tra 2.050 e 2.200 euro mensili».

La contribuzione per il fondo Aspi sarà estesa a tutti i lavoratori tutelati dall’istituto che pagheranno due diverse aliquote. Quelli a tempo indeterminato l’1,31 per cento; mentre i lavoratori con una data scritta sul contratto contribuiranno con l’1,4 per cento. Ma in caso di trasformazione in contratto a tempo indeterminato, all’azienda sarà restituita l’aliquota aggiuntiva pagata fino ad allora dal lavoratore «precario». Infine, è previsto un «contributo di licenziamento» da versare all’Inps al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Si tratta di 0,5 mensilità di indennità per ogni 12 mensilità di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni e si applica anche agli apprendisti.
La riforma andrà a regime nel 2016 – una novità rispetto alle anticipazioni che parlavano del 2017. Nel periodo di transizione, si specifica che fino al 2015 per i lavoratori sotto i 50 anni sono previsti 8 mesi di assegni che salgono poi a 10 e dal 2016 a 12. Tra 50 e 54 anni sono già dodici mesi dell’anno prossimo mentre oltre i 55 anni cresceranno dai 12 mesi del 2013 al ritmo di due anni ogni dodici mesi fino a 18 mesi a regime, nel 2016.

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Tina Anselmi, 85 anni per la democrazia e per le donne

postato il 25 Marzo 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

Nei giornali di oggi domina una intervista di Napolitano in cui il Capo dello Stato si augura di vedere, dopo di lui, una donna al Quirinale. La diffusione dell’intervista per una curiosa coincidenza avviene nel giorno dell’ottantacinquesimo compleanno di Tina Anselmi, una grande donna che avrebbe sicuramente meritato la più alta carica dello Stato.

Tina Anselmi ha dedicato tutta la vita alla democrazia e ai destini delle donne: nella Resistenza come staffetta partigiana; nella scuola – laureata in lettere ha insegnato nelle scuole elementari; nel sindacato; nel movimento femminile della Democrazia Cristiana; in Parlamento: deputato per sei legislature, è stata la prima donna ministro in Italia. A lei si devono la legge sulle pari opportunità e la riforma che introdusse il Servizio Sanitario Nazionale. Poi il delicato compito di Presidente della commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2, una responsabilità che Tina Anselmi assume pienamente e con forza, firmando l’importante relazione che analizza le gravi relazioni della loggia con apparati dello Stato e con frange della criminalità organizzata, messe in campo per condizionare con ogni mezzo la vita democratica del Paese.

Tina Anselmi non ha solo costruito questa Repubblica ma l’ha anche custodita. La sua testimonianza civile è quanto di più prezioso possiamo trasmettere alle giovani generazioni nella speranza che, specie le giovani italiane, sappiano farne tesoro e continuare la sua preziosa opera per la democrazia e per le donne.

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Saggio ripensare l’IMU in agricoltura

postato il 24 Marzo 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

Nei giorni in cui l’attenzione del modo agricolo ed agroalimentare si focalizza sulla città di Verona, dove si svolge la 46° edizione del “Vinitaly – Salone Internazionale del Vino e dei Distillati” con i contestuali eventi “Agrifood – Rassegna dell’agroalimentare  di qualità” e “SOL – Salone Internazionale dell’Olio Extravergine di Qualità”, continua a tenere banco tra gli addetti ai lavori la preoccupazione per la prossima entrata in vigore della normativa che potrebbe prevedere l’applicazione della IMU – Imposta Municipale Unica sugli immobili ad uso agricolo.

Il grido d’allarme di tutte le organizzazioni rappresentative del comparto agricolo si è già fatto sentire nelle settimane scorse ed ha consentito di chiarire che alla base della protesta c’è la preoccupazione per il futuro di un settore che già si trova a combattere quotidianamente durissime sfide. Un settore da sempre considerato fondamentale sia per la rilevanza economica che per l’insostituibile ruolo sociale e di salvaguardia del territorio e dell’ambiente e che rappresenta una vera miniera di potenzialità di sviluppo anche per i giovani che intendano impegnarsi in tale direzione.

D’altro canto, la reale applicabilità dell’IMU al settore è oggetto di forti dubbi in quanto è ancora in corso l’aggiornamento delle procedure di accatastamento dei fabbricati rurali che dovrebbe terminare, per legge, entro il 30 novembre 2012; da qui il rischio concreto di un’applicazione disomogenea ed ingiusta della normativa stessa che sembrerebbe inoltre penalizzare le aziende più strutturate ed aperte all’innovazione: il contrario di quanto ci si aspetterebbe per logica.

Sembra pertanto più che ragionevole ipotizzare un differimento dell’applicazione delle norme sull’IMU per gli immobili destinati all’agricoltura al fine di consentire il perfezionamento della base di calcolo e l’introduzione di opportuni meccanismi di sgravio da destinare al sostegno di un settore che, per sua natura, deve tornare a rappresentare una priorità negli interventi del Governo miranti a condurre il nostro Paese fuori dall’area di crisi.

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Finalmente la riforma del mercato del lavoro

postato il 21 Marzo 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Nei prossimi giorni il governo manderà al parlamento, dopo una lunga trattativa, la riforma del mercato del lavoro, e al di là di simpatie, antipatie e di veti incrociati minacciati da alcuni soggetti la maggior parte dei sindacati e delle parti che si sono confrontate sono arrivate ad un accordo che dovrà essere sottoposto al vaglio del Parlamento.

Ma cosa prevede questa riforma?

Essenzialmente i punti fondamentali sono due: da un lato un intervento sul mondo dei contratti a termine per combattere il precariato, dall’altro modificare l’art.18.

Per quanto riguarda il primo punto, faccio rilevare che ne avevamo già parlato portando avanti una proposta che era a costo zero e che sembra essere stata accolta dal Governo, ovvero una limitazione alla possibilità di reiterare i contratti a tempo determinato per più di 36 mesi e saranno posti “vincoli stringenti ed efficaci” sui contratti intermittenti e quelli a progetto.

Per quanto riguarda la modifica dell’art. 18, diciamo subito che le novità più importanti saranno la sua estensione a tutte le aziende, quindi anche a quelle con meno di 15 dipendenti (molte piccole aziende rinunciavano ad assumere o a crescere proprio per evitare di incappare nel famigerato art. 18) e un riordino delle tutele.

Quest’ultimo punto è molto importante, è assolutamente falso che le intenzioni siano quelle di cancellare le tutele, infatti la proposta del governo prevede per i licenziamenti discriminatori la tutela anche alle imprese sotto i 15 dipendenti. Sul fronte dei licenziamenti disciplinari, invece, la parola spetterà al giudice che deciderà il reintegro oppure un indennizzo economico per un massimo di 27 mensilità tenendo conto dell’anzianità. Per i licenziamenti economici è previsto solo l’indennizzo da un minimo di 15 a un massimo di 27 mensilità.

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PhotoRepublik: la legislatura in quattro flash

postato il 19 Marzo 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

Diceva Nick Knight, un celebre fotografo britannico, che “la forza della fotografia è come un passaporto: vi dà il permesso di partecipare appieno a diverse situazioni della vita in cui normalmente non avreste avuto accesso”. E al tempo di internet questo è doppiamente vero come ha confermato il recente successo della foto del vertice di maggioranza postata da Casini su Twitter. Ma la foto lanciata in rete da Casini ha un grande valore simbolico e politico come almeno altre tre in questa legislatura. Proviamo a passarle in rassegna.

La prima foto che mi viene in mente è la celebre stretta di mano tra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni. Era il lontano 30 novembre 2007 e questa foto sancì la nascita del cosiddetto “Veltrusconi”, il bipolarismo dominato da Pd e Pdl.

Il tempo passa e passano anche Veltroni e Berlusconi. Del crepuscolo Berlusconiano rimarrà impresso, specialmente al Cavaliere, il dito impertinente di Gianfranco Fini durante la direzione nazionale del Pdl, il 21 aprile 2010, con la celebre frase “Altrimenti che fai? Mi cacci?”. Eccolo immortalato.

Della crisi del berlusconismo se ne sarebbero dovuti approfittare Pierluigi Bersani, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola alleati in una specie di riedizione de “L’Unione” che però questa volta prende il nome da una foto. La foto di Vasto appunto.

Ma la foto di Vasto sembra ormai archiviata, non soltanto per i problemi interni al centrosinistra, ma perché uno dei componenti della triade ha trovato posto in un’altra foto, una foto di gruppo per la precisione.

La foto del vertice di ABC con Mario Monti sarà la foto conclusiva di questa legislatura? Non ci è dato saperlo, ma di sicuro è la foto del momento.

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L’arresto dei marò italiani viola il diritto internazionale

postato il 17 Marzo 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Vincenzo Massimo Pezzuto

Nella vicenda che coinvolge i marò italiani un dato fondamentale non può essere tralasciato: la violazione da parte dell’India delle norme vigenti del diritto internazionale. L’India sembra aver dimenticato che nel diritto internazionale consuetudinario vige il principio dell’immunità funzionale, una regola antichissima in quanto risalente al lontano ’700. I due marò hanno agito nell’ambito di una funzione ufficiale per conto dello Stato italiano, adempiendo la missione anti-pirateria prevista dalla legge italiana e autorizzata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Pertanto gli atti di un organo dello Stato connessi all’esercizio delle funzioni vanno imputati allo Stato e non alle persone che li hanno commessi.

Quindi un eventuale illecito va direttamente imputato all’Italia nell’ambito del diritto internazionale e non al soldato nell’ambito del diritto penale indiano. A questo punto è auspicabile che l’Italia adotti delle contromisure atte a salvaguardare oltre che i nostri due valorosi connazionali, anche l’incisività e l’efficacia della lotta anti-pirateria, missione che rischia subire un duro colpo a seguito di tale vicenda.
Diverse sono le soluzioni attuabili: l’interruzione dei rapporti diplomatici, la richiesta di apertura di una commissione di inchiesta o di arbitrato, il ricorso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Non è ammissibile quanto sta accadendo, soprattutto perchè l’Italia ha sempre applicato correttamente il diritto internazionale, malgrado ciò abbia spesso comportato dure reazione da parte dell’opinione pubblica. Un esempio è costituito dalla vicenda Calipari e dal caccia americano in volo a bassa quota che fece precipitare la funivia del Cermis.

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Il problema della rappresentanza e del consenso

postato il 14 Marzo 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Gianluca Borrelli*

E’ una frase che sto sentendo sempre più spesso da un po tutte le parti, si riferisce alla politica che ha smesso di ascoltare e di rappresentare tutti.
Si riferisce alla democrazia che non può essere, come dicevano Stuart Mill e Tocqueville, una dittatura della maggioranza tout-court, ma che deve ascoltare di più, anche le minoranze.

Ora veniamo ai fatti degli ultimi mesi, alcuni in particolare hanno attirato la mia attenzione.
2 proteste molto forti che hanno causato milioni di danni, alla comunità e alle persone coinvolte loro malgrado.
Lo sciopero selvaggio dei TIR e le proteste violente dei No Tav.

Per violenza non intendo soltanto quella dei camionisti verso chi non voleva scioperare o le pietre e gli insulti contro la polizia o contro i giornalisti, ma anche verso quei poveri cristi bloccati in autostrada o in treno per ore. Persone che si sono viste di fatto sequestrate da una protesta improvvisa e inattesa, persone che non saranno mai ascoltate da nessuno perché non gridano, perché portano sulle proprie spalle i propri problemi senza scaricarli sugli altri con azioni spettacolari per attirare l’attenzione di tutti (che tradotto vuol dire: fatte per finire in tv o sui giornali). Credo che ci sia una buona dose di narcisismo e di disgustoso egoismo in questa spettacolarizzazione della protesta ma andiamo avanti.

Dicevamo quindi che c’è una crisi di rappresentanza, della politica, ovviamente, ma solo della politica?
Leggendo questo articolo viene fuori che il sindacato che dice di rappresentare l’85% dei camionisti aveva stretto un accordo col governo, l’85% mica il 51% eppure il risultato è stato che gli scioperi ci  sono stati lo stesso e per giunta selvaggi, ed hanno paralizzato l’Italia per giorni causando svariate centinaia di milioni di danni. Delle due l’una: o questo sindacato non rappresentava nessuno o in Italia bastano percentuali minime di dissenso per mandare tutto all’aria. Ci sono in questo caso anche sospetti di infiltrazioni malavitose, resta il fatto che il Governo ha fatto il suo dovere cercando e trovando un accordo condiviso con sindacati che rappresentassero quanti più lavoratori possibili e poi si è trovato impotente davanti ai blocchi delle autostrade. Nemmeno sul fronte No Tav le cose vanno meglio per il sindacato, dove la FIOM, dopo aver “sposato” il movimento No Tav fischia la CGIL (di cui fa formalmente parte) rea di essere a favore della Tav, ed è al tempo stesso divisa al suo interno. Una situazione che vista nel suo insieme ha in effetti del comico, insomma se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere o viceversa, fate voi.
Ovviamente una parte della sinistra (quella più radicale e più antagonista come FDS e SEL, ma anche spesso e volentieri IDV) si è subito schierata con la protesta (lo fanno sempre e comunque non si ricorda a memoria d’uomo una protesta di piazza che non abbia avuto il loro appoggio e la loro solidarietà, chi protesta in piazza deve per forza avere ragione, sembra quasi un “tic” il loro, un riflesso pavloviano proveniente da retaggi di antiche lotte).

Leggendo questo articolo, e quest’ altro, si capisce che la protesta No Tav non è la prima volta che si palesa e che in passato questa protesta è stata ascoltata eccome.

Ferrentino pare fosse uno dei leader della protesta portata avanti nel 2005, noi non condividiamo affatto l’etichetta di “pentito” affibbiata da “Il Giornale” perché quella particolare protesta pare che ottenne molti risultati, e che senso ha continuare a protestare dopo aver ottenuto molto di quello che si chiedeva? Per il resto l’intervista è estremamente interessante soprattutto quando cita l’opportunismo dei partiti nella vicenda, un vero e proprio “j’accuse” soprattutto verso Di Pietro, reo di sfacciato opportunismo politico.

Dai 3 articoli appena linkati si capisce che dopo il 2005 si è cambiato il percorso, si è istituita una fermata “Susa” inizialmente non prevista, e tutta un’altra serie di agevolazioni fiscali e di altri benefici per la valle.

Insomma i governi dell’epoca avevano ascoltato eccome le popolazioni locali e se vogliamo, visto che questo discorso è andato avanti per molti anni, si è ascoltato un po tutti.
Chi rimane fuori? Una percentuale minoritaria di persone del luogo anche aizzate e impaurite da paure irrazionali sulla presenza di amianto e uranio (non verificata al momento come sostiene l’ARPA Piemonte) che pure se ci fossero non dovrebbero destare preoccupazione, sarebbe come avere paura del fluoro del dentifricio perché in forma pura è l’acido più potente che esista (ma nel dentifricio è sotto forma di sale, quindi assolutamente innocuo). Tutti i materiali sono potenzialmente pericolosi o assolutamente innocui a seconda di come si trattano, e instillare false paure nella popolazione per ottenere i propri scopi politici ha un che di criminale.
A questi si aggiungono i difensori del trasporto su gomma (e ci vuole un bel coraggio da parte loro di accusare il treno di impatto ambientale ma tant’è) e un gruppo di antagonisti e di anarchici, professionisti della protesta fine a se stessa, pronti a fiondarsi in qualsiasi scenario di protesta ma non per farsi votare (non si candideranno mai, sono anarchici) ma per fare la guerriglia, per farsi notare, per andare sui giornali o in tv (come Casarini a Servizio Pubblico), per fare i patetici emuli di rivoluzionari del passato. A questi ultimi non interessa alcuna ragione, interessa solo alimentare gli scontri e parteciparvi, per poter scaricare la propria rabbia verso un mondo che non gli ha dato quello che sognavano.
Per quanto mi riguarda a questi basterebbe dargli una trasmissione tv su qualcuno degli infiniti canali del digitale terrestre o del satellite e dargli uno stipendio a fine mese. E problema risolto. costerebbe anche meno che metterli in carcere e tanto non li seguirebbe comunque nessuno nei loro deliri.

Insomma avevano ragione o no Stuart Mill e Tocqueville quando parlavano di rischio di “dittatura della maggioranza”? Non lo so, ma certo se è vero che le minoranze vanno ascoltate è pur vero che non si ci può fermare se non siamo tutti, ma proprio tutti, d’accordo.
Perché pensare di mettere d’accordo tutti, ma proprio tutti, non è politica, è follia, e la democrazia serve proprio per evitare paralizzanti diritti di veto.
Se proprio si vuole ascoltare le minoranze, si faccia in modo di farlo attraverso qualche entità davvero rappresentativa e che una volta ascoltate queste persone e trovato un accordo con loro non si presenti qualcun altro, magari dopo qualche anno, a chiedere di ripetere all’infinito lo stesso processo, perché questo causerebbe la paralisi totale.
L’assenza della politica e la sua mancanza di credibilità hanno causato molti danni tra i quali da questa riflessione ne spicca uno: basta qualche centinaio di persone che protestano per paralizzare mezza nazione, con chi governa terrorizzato dall’idea di usare il pugno duro per fare rispettare le leggi proprio per mancanza di credibilità, e con tutta una pletora di politicanti in tv e nei giornali a mostrare la loro sensibilità verso chi protesta (manifestanti che spesso protestano per validi motivi ma che in alcuni casi sono dei veri e propri criminali, in altri dei disadattati, in altri semplicemente gente male informata e preda di paure irrazionali e senza fondamento), pensando di accaparrarsi chissà quale consenso o di accreditarsi chissà quale leadership di chissà quale gruppetto minoritario. Che poi una volta che la bolla mediatica alimentata ad arte da qualche giornale (definire pacifici i No Tav, dopo tutto quello che è successo, è qualcosa di inspiegabile) e qualche programma tv, si sgonfierà questa pletora di politicanti verrà punita, inevitabilmente, nelle urne (e parlo ovviamente della partita che conta: le elezioni politiche).

Quando la politica saprà distinguere i cittadini, tra quelli che hanno qualcosa da dire davvero e che quindi meritano ascolto, dai criminali o dai bambini viziati e frignanti, e saprà finalmente informare come si deve tutti (non siamo a tuttora in grado di dire quanto costa davvero la Tav, girano le cifre più assurde e disparate da mesi senza nessuno che dica come stanno davvero le cose) allora riguadagnerà gran parte della propria rappresentatività.

Nel frattempo sarebbe opportuno che la riguadagnassero anche i sindacati (alcuni dei quali si comportano oramai come un partito) e gli altri attori coinvolti in queste proteste, perché a dirla tutta nemmeno loro ci stanno facendo una gran figura.

*Salernitano, ingegnere delle telecomunicazioni, da sempre appassionato di politica. Ha vissuto e lavorato per anni all’estero tra Irlanda e Inghilterra. Fondatore ed editore del «Termometro Politico».

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