Tutti i post della categoria: Riceviamo e pubblichiamo

Una lista per l’Italia per far scendere la “febbre Grillo”

postato il 12 Novembre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Eleonora

Ritengo che la Lista per l’Italia debba essere solo il primo passo verso una riforma profonda della politica attuale.

Grillo ed il suo movimento in questo momento rappresentano la febbre del nostro paese che, ahimè, non accenna a scendere ed a questo punto devono essere apportate modifiche consistenti partendo proprio da questa opportunità chiamata Lista per l’Italia!

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La politica ambientale in Italia e nel resto del mondo: numeri a confronto

postato il 9 Novembre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

È indubbio che per potere attuare delle politiche ambientali bisogna non solo imporre normative contro l’inquinamento (e l’Europa in questi anni ha dato vita ad una normativa antiinquinamento tra le più rigide nel mondo), ma bisogna anche promuovere azioni tese all’utilizzo di carburanti ecologici, all’utilizzo di materiali per il risparmio energetico, il riciclaggio e sviluppare una “cultura verde” nei cittadini. Per fare tutto ciò, ovviamente, occorrono soldi, molti soldi e solamente uno Stato può permettersi di finanziare in maniera compiuta queste attività.

E qui sorge la domanda: come si comporta l’Italia rispetto ad altre nazioni?

È una domanda importante, perché questo settore non conviene solo per tematiche ambientali, ma anche per tematiche “economiche” in quanto può rappresentare un interessante traino per l’economia e il lavoro, basti pensare al mercato, che si è aperto solo negli ultimi due-tre anni, del riciclaggio delle terre rare (attualmente esportate solo dalla Cina e fondamentali per tutti i prodotti tecnologici che usiamo).

Uno dei provvedimenti recenti varato dal governo italiano è il “Fondo Kyoto” che è stato finanziato per 600 milioni di euro, e ha lo scopo di promuovere investimenti pubblici e privati per l’efficienza energetica nel settore edilizio e in quello industriale; diffondere piccoli impianti ad alta efficienza per la produzione di elettricità, calore e freddo; impiegare fonti rinnovabili in impianti di piccola taglia; la gestione sostenibile delle foreste; la promozione di tecnologie innovative nel settore energetico. Altro punto interessante è quello delle energie rinnovabili, soprattutto alla luce degli obblighi assunti dall’Italiaper arrivare a centrare il traguardo che l’Unione europea (e l’Italia) si è data con l’obiettivo 20-20-20, cioè entro il 2020 diminuire del 20% le emissioni di CO2, aumentare del 20% l’efficienza energetica e produrre il 20% dell’energia da fonti rinnovabili. Al di là degli obblighi assunti, dobbiamo considerare che il mondo delle energie rinnovabili è una risorsa da esplorare: i benefici netti delle rinnovabili stimati al 2030 sono pari 76 miliardi di euro, divisi fra maggiore occupazione (+130.000 posti di lavoro entro il 2030), diminuzione dell’importazione di combustibili fossili, export netto dell’industria e riduzione del prezzo di picco dell’energia, come è affermato da uno studio condotto dall’Osservatorio internazionale sull’industria e la finanza delle rinnovabili presieduto da Andrea Gilardoni, dell’Università Bocconi, e realizzato con il supporto di Anev, Aper ed Enel Green Power. A proposito di Enel Green Power, segnalo che entro il 2015 entrerà in funzione la prima centrale termodinamica al mondo con tecnologia a sali fusi, che avrà rendimenti doppi rispetto alle attuali centrali fotovoltaiche e senza i problemi legati allo smaltimento dei pannelli fotovoltaici (questa centrale e tutto il lavoro di ricerca e sviluppo dietro, è stato finanziato in parte da Enel Green Power e in parte dallo stato italiano). Nonostante questo primato osserviamo che nella classifica legata alla capacità diattrarre investimenti nel settore delle rinnovabili siamo solo sesti peggiorando la nostra posizione, visto che nel 2010 eravamo quinti, e questo grazie ad una generale riduzione dei finanziamenti statali in tutta Europa e in particolare in Italia.

Migliora, anche se non di molto, la classifica italiana se ristretta al comparto fotovoltaico: quarto posto per l’Italia nel segmento dell’energia solare. Al vertice delle classifiche la Cina, mentre il secondo posto del podio spetta agli USA (grazie alle notevoli detrazioni fiscali per i progetti sulle rinnovabili, che sono in scadenza per fine 2012). Quello che penalizza l’Italia è da un lato un quadro normativo che cambia ogni anno e il prospettato taglio agli incentivi nei prossimi anni. Di contro, nel resto d’Europa, per ovviare al taglio dei finanziamenti statali si procede con una politica “dal basso”, ovvero impianti posseduti e gestiti da piccole comunità locali. Ad esempio in Germania e Danimarca, abbiamo un gran numero di impianti eolici gestiti da piccole comunità locali che si apprestano a soppiantare i grandi impianti nazionali; nel Regno Unito si assiste allo sviluppo di un analogo fenomeno, aiutato anche dalle riduzioni fiscali previste dal Governo per i progetti che vedono coinvolti due o più comunità locali.

Fuori dall’Europa è da segnalare il programma canadese ComunityFeed-In Tariff, rivolto a organizzazioni non profit, cooperative e municipalità, che sta avendo un successo senza precedenti. Se andiamo nello specifico osserviamo che la Cina è il paese dove il settore delle rinnovabili ha una maggiore capacità di attrazione di investimenti, in particolare per l’eolico offshore. Dopo la Cina, come abbiamo detto, vi sono gli Usa, grazie all’impegno preso dal Governo per installare 10 GW da rinnovabili su terreni pubblici oltre all’ipotesi di rinnovo del programma di detrazioni fiscali per i progetti sulle rinnovabili. Al terzo posto troviamo la Germania grazie all’approvazione a inizio 2012 di una nuova legislazione che garantisce di vendere l’energia rinnovabile direttamente ai consumatori e di accedere così a due vantaggi: il primo è la differenza tra la tariffa incentivante e il prezzo mensile medio a cui viene scambiata l’energia, il secondo è legato alla compensazione dei costi per la vendita dell’energia stessa. Dopo la Germania, troviamo l’India,grazie ai 400 MW di energia rinnovabile connessi nel 2011, e la Gran Bretagna che sta finanziando la creazione di un grande parco eolico offshore. Per l’Italia, il settore che attira maggiori investimenti è il fotovoltaico (seguono la geotermia e l’eolico onshore). Tra le sorprese “negative” spicca la Spagna che è uscita dalla top ten dei paesi con maggiori finanziamenti per le energie rinnovabili, a causa della sospensione degli incentivi per gli impianti di nuova costruzione. Anche l’Italia ha tagliato parecchio, ricordiamo che recentemente è stato annullato l’incentivo per la bonifica dell’amianto, una misura che ha consentito di bonificare 12 milioni di metri quadrati circa di tetti, che ospitano ora 1100 megawatt di energia elettrica pulita. Su questa situazione così diversa da stato a stato, interverrà a breve l’Unione Europea che, a giugno 2012, ha fatto sapere di essere intenzionata a sostituire i finanziamenti erogati dai singoli stati, con un corpus normativo unico a cui farà da contraltare una politica energetica europea che armonizzi le varie sovvenzioni.

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Perché sulla Legge Elettorale serve, prima di tutto, buon senso

postato il 9 Novembre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Francesco Scavone

Il dibattito politico, negli ultimi giorni, si è concentrato sul tema della legge elettorale. Su tv e giornali si soprappongono quotidianamente voci discordanti, spesso con toni abbastanza forti, che rischiano di soffocare il vero tema di fondo e far cadere nel nulla ogni sforzo per riformare l’attuale sistema.

Ma chiariamo prima un concetto fondamentale: sono molti coloro i quali pensano che il tema in questione sia di poco conto, che la politica dovrebbe concentrarsi sulle questioni vere e non perdersi in estenuanti confronti su argomenti del genere. Sia chiaro: una migliore legge elettorale non potrà risollevare direttamente le condizioni delle nostre famiglie, non potrà apparentemente dare risposta alle difficoltà dei cittadini. Ma se facciamo un’analisi più attenta, ci accorgiamo che è proprio dalla legge elettorale che possono provenire quelle stesse risposte. È infatti la legge elettorale che determina la composizione del Parlamento, la scelta dei nostri rappresentanti, momento non secondario nella vita di un Paese che vuole pensare a risollevarsi.

Chiarito questo, risulta inevitabile affermare la necessità non più rinviabile di mettere mano alla legge tuttora vigente. Sin dall’avvento del Governo Monti le forze politiche hanno sempre concordato su questo punto, avviando un dialogo interminabile che ad oggi non ha ancora visto il raggiungimento di un’intesa, nonostante i continui e attenti moniti di Napolitano. Si sono susseguiti tavoli di confronto, dichiarazioni, smentite, passi indietro che hanno travagliato sempre di più il percorso della nuova legge elettorale. In questo scenario, hanno giocato un ruolo decisivo le posizioni discordanti sul metodo di scelta dei parlamentari e su quella che viene definita stabilità. E così si sono confrontati coloro che considerano migliore il sistema dei collegi con quelli che privilegiano il metodo delle preferenze, così come c’è stato ampio scambio di opinioni sulle percentuali collegate al premio di maggioranza.

Mi limito ad alcune considerazioni. Che si debba recuperare un rapporto diretto tra elettore ed eletto è fuori di dubbio; ce lo ricorda quotidianamente la disaffezione degli italiani dalla politica, che richiede appunto un maggior impegno in questo senso. Ma quale miglior strada delle preferenze, che addirittura ci permetterebbero di esprimere doppie scelte di genere?

Il maggior oggetto di discordia però risulta essere il premio di maggioranza. Sono notizia di questi giorni le forti reazioni del centro-sinistra all’approvazione in commissione di un emendamento che prevede lo scatto del premio solo per la coalizione che superi il 42,5% di consensi. Le critiche provengono da chi, pur consapevole della necessità di una soglia minima riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale, ha accusato di blitz la parte avversa. Tutto ciò risulta ancora più strano se consideriamo le percentuali dei partiti della coalizione in questione: i sondaggi, in ogni caso puro metro indicativo, indicano che PD+Sel+Psi raggiungerebbero livelli che si attestano intorno al 30%. Quindi, tirando le somme, chi ha queste percentuali pretende di avere più del 50% dei seggi in Parlamento? A parer mio, questa non è una questione di stabilità o governabilità, ma di buon senso.

In questa confusione, si sta perdendo la vera bussola. Il dialogo deve essere alla base della riforma, ma non può risolversi in ostruzionismi o  atteggiamenti di critica incondizionata. Ogni forza politica deve assumersi la propria responsabilità, perché è in gioco il futuro di questo Paese. L’incapacità di un certo modo di far politica – determinato, sia chiaro, anche dall’attuale sistema elettorale – ha fatto sì che si dovesse ricorrere a nuove figure esterne. Possiamo permetterci  che queste intervengano anche su un tema così strettamente politico?

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Dopo Di Pietro, io candido Topolino a Presidente degli Stati Uniti

postato il 2 Novembre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

È tempo di endorsement (particolari). E io faccio il mio: con tutto il rispetto per Barack Obama e Mitt Romney, penso che gli Stati Uniti si meritino di meglio. Per la prima potenza mondiale ci vuole un nome solido, affidabile, credibile: ci vuole, in soldoni, qualcuno che sappia il fatto suo, che abbia orecchie lunghe per sentire e comprendere adeguatamente il sentiment del proprio popolo, che – il suo sorrisetto la dice lunga – sappia ciò che serve alla Nazione. E io so che c’è un solo uomo che risponde a questa descrizione: Topolino. Con tutta l’esperienza che ha acquisito in una terra difficile come Topolinia non gli sarà difficile guidare gli Stati Uniti. Ha una first lady stimata e rispettata (qualcosa da dire su Minni?), ha una squadra di tutto rispetto da schierare (volete mettere avere Archimede Pitagorico o Pico De Paperis come consiglieri?), ha già anche il suo cagnolino (Pluto, stupendo) da portare alla Casa Bianca. Ha dimostrato anche di saper tenere a bada un super cattivone della finanza pluto-giudaico-massonica mondiale come Zio Paperone (altro che OccupyWallStreet!). Ha risolto casi impossibili, figuratevi se non riuscirà a sistemare le decine di situazioni politico-militari esplosive sparse per il mondo. Per questi motivi (e per molti altri che non vi sto ad elencare, lo spazio non basta) io candido Topolino alla Presidenza degli Stati Uniti d’America. E state sicuri che le elezioni le vince, a man bassa.

Come dite? Non vi sembro serio? Avete paura che mi stia prendendo gioco di voi? Mannò. Di sicuro, però, sono più serio di un comico che candida Antonio-Di-Pietro alla Presidenza della Repubblica Italiana. Giuro.

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Province, il coraggio di cambiare. Il coraggio di tagliare

postato il 1 Novembre 2012
“Riceviamo e pubblichiamo” di Vincenzo Pezzuto
Era il lontano 1859 quando lo Stato sabaudo preunitario diede vita all’ordinamento provinciale con il Regio Decreto Rattazzi, fortemente ispirato al modello francese. Allora le Province erano all’incirca 59, per poi divenire 69 dopo la terza guerra d’indipendenza e l’istituzione della Provincia di Roma.
Al termine del primo conflitto bellico, con l’annessione della Venezia Tridentina e della Venezia Giulia, il numero salì a 76. In epoca fascita l’intero assetto provinciale subì profonde modifiche giungendo ad un numero complessivo di 95 Province lungo l’intero stivale. E così si andò avanti, con altri interventi statali e regionali, giungendo nel 2005 ad un numero complessivo di 110.
A meno di un anno dalle celebrazioni del 150° anno di vita della nazione Italiana, il Governo delle riforme, del coraggio di potare i rami secchi ed improduttivi del Paese, della Spending Review mette mano all’assetto istituzionale decretando il drastico, ma dovuto, ridimensionamento a 51 enti provinciali. Sarebbe stato meglio una soppressione totale, ma non può passare inosservato agli occhi dei più attenti, il risultato ottenuto. Si avrà un numero inferiore rispetto a quello registrato nell’anno della loro istituzione. Ma l’aspetto più importante è certamente costituito dal segnale che l’Italia invia ai propri cittadini, agli investitori nazionali ed esteri, all’economia e ai mercati. Con il decreto appena approvato in Cdm, si è scelto di alleggerire la macchina e il bilancio statale della presenza di circa 2000 politici e di una spesa di circa 150 mln/euro l’anno (spese di rappresentanza escluse, si badi). Ciò significherà inoltre che non ci sarà più bisogno di nuovo personale e quindi di bandire nuovi concorsi con conseguente esborso di denaro pubblico (2,5 mld euro risparmiati), potendo contare su un numero esorbitante di dipendenti provinciali (circa 61.000). La maggiore efficienza delle amministrazioni provinciali produrrà un risparmio di 500 mln e l’abolizione di enti ed agenzie ad esse strumentali produrrà un vantaggio per lo Stato di 1,5 mld di euro l’anno. Non si tratta certamente di bruscolini o di sottigliezze, specialmente in tempi di crisi. Ora toccherà alle Camere avere lo stesso coraggio che da un anno spinge il Governo Monti a salvare il “malato” Italia. L’unico Governo che ha messo in pratica temi cruciali, prima entrati nel dimenticatoio, come l’agenda digitale, la spending review, la riforma della Giustizia, la riforma pensionistica, le riforme istituzionali e non per ultimo la legge anticorruzione. Siamo sulla buona strada. La strada riformatrice di cui tanto ha bisogno la nostra penisola, per anni vituperata da difese di retroguardia e sterili campanilismi che nulla hanno prodotto in questi ultimi decenni, anzi! I mali atavaci non dovranno riprendere il sopravvento e riemergere quando nelle Camere si dovrà approvare il testo del decreto di riforma delle Province.
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Importiamo buone idee dalla Francia: il CAF per l’affitto

postato il 31 Ottobre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Se in Italia parliamo di CAF, intendiamo il Centro Assistenza Fiscale, ma in Francia è l’acronimo di una delle migliori e più utili istituzioni d’oltralpe che si potrebbero mutuare e sviluppare anche in Italia: Caisses d’Allocations Familiales.

Il Fondo francese di Assistenza alle famiglie (ma non fatevi ingannare dal nome, il suo funzionamento lo rende più simile alla nostra INPS) e funziona tramite vari strumenti, ma i più noti sono l’APS ( Allocation de Logement Sociale) e l’APL ( Aide Personnalisée au Logement) che erogano aiuti finanziari.

Il livello di aiuto dipende dal reddito, dal tipo di alloggio e dall’affitto e gli aiuti sono indirizzati a coloro che hanno un reddito basso, in certi casi specifici agli studenti, a coppie di fatto, e a cittadini singoli. Nel caso di proprietà condivise, ogni inquilino può beneficiare dell’assistenza, in base all’affitto di ognuno. Ogni inquilino dovrà farne richiesta per via separata.

Tra i requisiti per inoltrare la richiesta è necessario avere un contratto d’affitto a proprio nome, se l’appartamento è in condivisione, è necessario che compaia il nome del richiedente nel contratto e l’importo dell’affitto sia ben specificato. Se invece non si dispone di un contratto d’affitto, bisogna farsi fare una dichiarazione di hébérgement (ospitalità) da chi offre alloggio in Francia.

E’ importante chiarire che non è mai un contributo integrale, ma solo una parte dell’affitto.

Si potrebbe importare questo sistema per andare incontro a studenti fuori sede (anche stranieri) e per le coppie (di fatto e sposate) con reddito basso. Fondamentale è però a vere chiaro in mente che questo aiuto è limitato nel tempo ed è necessaria una copertura finanziaria adeguata.

Una valida alternativa possono essere i Centri di riadattamento sociale (CHRS) che esistono nelle grandi città francesi per trovare alloggio alle persone che non hanno un posto in cui vivere.

Questa alternativa ha il pregio di potere avere una minore necessità finanziaria da parte dello Stato, perché l’Italia potrebbe usare (riadattandole) le caserme in disuso e gli altri edifici in disuso dello stato. Questi edifici potrebbero essere girati al ministro del Wellfare e risparmiare i soldi degli aiuti (in pratica invece di dare soldi o caricarsi affitti, si forniscono alloggi di proprietà dello stato per un limitato periodo di tempo).

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La vera partita da vincere comincia adesso

postato il 29 Ottobre 2012

di Giuseppe Portonera

Qualche mese fa, su questo sito, pubblicai un articolo, descrivendo quello che – a parer mio – serviva davvero alla Sicilia per uscire dal pantano in cui anni e anni di cattiva gestione delle risorse l’avevano cacciata. Non era ancora certo che saremmo tornati alle urne, ma concludendo il pezzo osservavo che: “in un momento di stringente crisi come questo, i rubinetti sono destinati a chiudersi, bruscamente. Questo vuol dire che se arriveremo impreparati a quel momento, continuando magari allegramente a spartire posti e incarichi di sottogoverno, il default sarà assicurato. La scelta sta a noi. Diciamo basta alla Sicilia-Crono che divora i suoi figli e agli interventi palliativi per pony: diamo avvio a una seria cura da cavallo, per rimettere in sesto la nostra terra”. Il “mio” programma minimo di buon governo constava di pochi ma fermi punti: in primis, una gestione migliore dei fondi pubblici (che passa, inevitabilmente, per un taglio netto alla spesa pubblica); in secundis, la richiesta alla politica di decidersi, una volta per tutte, a fare il proprio mestiere, che non è quello di essere onnipresente e invadente, ma di lasciare libero campo d’azione all’iniziativa privata dei cittadini siciliani.

Ieri, nella mia Sicilia, si è votato per il rinnovo dell’Assemblea Regionale e per l’elezione diretta del Presidente della Regione. Dai risultati dello scrutinio – che, mentre scrivo, non è ancora concluso: un abbraccio fortissimo agli organi a questo proposti, per la loro celerità – si profila una vittoria, netta, del candidato Rosario Crocetta, sostenuto da un’alleanza di centrosinistra (riformista) tra Pd e Udc (salutateci anche gli amici di SEL e IDV). Prima notazione: è una vittoria “netta”, per una serie di ragioni che elencherò in seguito, ma non è di certo “totale”. Crocetta ha vinto superando di poco il 30%, non avrà una maggioranza solida all’ARS e il dato altissimo dell’astensionismo è comunque una sconfitta, per tutti. Perché, allora, ritengo la sua una vittoria “netta”? Primo, per il profilo personale del candidato: Crocetta è stato un sindaco amato e discusso e ha unito e diviso con la sua ferma e coraggiosa battaglia per la legalità. Secondo, per le modalità con cui questa vittoria è stata conseguita: Crocetta, e i partiti che lo hanno sostenuto, hanno giocato tutto in rimonta, affrontando un candidato di centrodestra dato per vincente sin dall’inizio della campagna elettorale e smontando un blocco politico ritenuto, fino a qualche tempo fa, solidissimo. Terzo, perché – fidatevi, è così – Crocetta ha vinto la sfida con Grillo (ci perdonerà Giancarlo Cancelleri, che ci è parso tuttalpiù un semplice avatar): l’affermazione del M5S c’è stata, innegabile, ma il suo candidato presidente è arrivato terzo e gli elettori siciliani hanno preferito un ex sindaco che gira la Sicilia a spiegare il proprio programma sui palchi a uno che attraversa lo stretto a nuoto e catalizza tutta l’attenzione esclusivamente su di sé (non è un caso, infatti, che l’exploit del M5S sia conciso con il tracollo del PDL: finite le prebende, il richiamo dei caudilli si fa irresistibile). Quarto, perché gli artefici di questa vittoria siamo anche e soprattutto noi, che abbiamo fatto una grande scelta di responsabilità (rinunciando a presentare un nostro candidato e stringendo un’alleanza di buon senso) e che per questo siamo stati premiati dall’elettorato: chi di voi avrebbe scommesso i suoi two cents sul fatto che l’Udc, il partito dato per scomparso dopo la scissione dell’ottobre di due anni fa, oggi avrebbe riconfermato i suoi voti e sarebbe diventato forza di governo?

Concediamocelo: quello di oggi è stato un piccolo capolavoro politico. Sarebbe potuto venire meglio, sicuramente. Ma siamo soddisfatti di quanto abbiamo fatto, anche perché siamo consapevoli che la vera partita comincia adesso. E, per quanto ci riguarda, comincia dal programma minimo di cui sopra: la Rivoluzione, che faceva da leitmotiv alla nostra campagna elettorale, dovrà essere vera, dirompente, liberatoria. Dovrà essere una Rivoluzione del merito e della legalità, della bellezza e della libertà, dell’impegno e del lavoro. Solo così, solo liberando e riformando in profondità la nostra Regione, potremo dirci veramente soddisfatti e vincenti.

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Salvate il soldato Sallusti, ma non uccidete il giornalismo

postato il 25 Ottobre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Ho un difetto, lo confesso. Mi piace combattere battaglie scomode: ogni qualvolta si creano due fazioni intorno a una questione spinosa, dopo aver verificato la situazione, mi schiero di solito a favore della parte più in difficoltà. Mi siedo quasi sempre dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti sono solitamente occupati, per dirla con Brecht. Difendo le idee, le istituzioni, anche se questo significa difendere uomini e donne che sono molto diversi e distanti da me. È stato così quando si votavano in Parlamento le richieste d’arresto di diversi parlamentari ed è stato così anche quando ho scelto di “difendere” le ragioni di Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, che è stato condannato per “diffamazione” per un articolo firmato da un anonimo Dreyfus, su Libero, in cui veniva raccontata la storia di una ragazzina “costretta” ad abortire da un giudice, Giuseppe Cocilovo. Da più parti questo è stato visto come un attacco alla libertà della stampa e anche se, tecnicamente, non ci troviamo di fronte a un “reato d’opinione”, è pur vero che vedere un giornalista (non Alessandro Sallusti in quanto tale, ma un giornalista) finire in galera per un articolo (che non aveva scritto neanche lui, ma di cui aveva la responsabilità oggettiva) fa male al cuore. I principali direttori di quotidiani hanno infatti espresso il loro disappunto e la loro preoccupazione: Ezio Mauro, direttore de La Repubblica: «Non si può andare in galera per un’opinione anzi per il mancato controllo su un’opinione altrui. È una decisione che deve suscitare scandalo»; Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere: «È davvero molto grave che si arrivi ad ipotizzare il carcere per un collega su un cosiddetto reato d’opinione»; Franco Siddi, segretario della FNSI: «È sconvolgente. In questo momento siamo tutti Sallusti».

Com’è abitudine del nostro Paese, in molti – scandalizzati, sinceramente o meno non so – hanno aperto gli occhi e diversi parlamentari (quella categoria di persone, cioè, che dovrebbe promulgare leggi lungimiranti e responsabili, non legiferare sull’onda degli eventi) hanno provato a promulgare una norma per impedire al giornalista Sallusti di essere incarcerato. Solo che, anziché fare bene una (e dico una) cosa, i senatori hanno finito per peggiorare la situazione: perché, in una discussione interminabile e in un gioco di veti e interessi incrociati, la prima bozza partorita era davvero un obbrobrio, addirittura pericolosa per la libertà d’informazione (senza contare i nuovi, immancabili attacchi alla Rete, con l’eterno ritorno dell’obbligo di rettifica). L’accordo (raggiunto attualmente) dovrebbe eliminare il rischio di finire in carcere per chi diffama, ma introduce una sanzione massima di 50 mila euro e un obbligo di rettifica online, per le testate giornalistiche e gli articoli che vi saranno pubblicati. Ora, l’abolizione del carcere è finalmente un’opera di buon senso (avrebbero potuto farlo prima, eh), ma l’obbligo di rettifica e le sanzioni pecuniarie mi lasciano perplesso: come può un soggetto che si ritiene offeso, obbligare un giornalista a rettificare l’informazione che lo riguarda, senza che nessuno verifichi se siamo in presenza o meno di vera diffamazione? In questo modo la libertà d’informare (anche scomodamente) viene meno. E della sanzione di 50 mila euro, che dire? Per i piccoli giornali o gruppi editoriali sarebbe difficile fare fronte a una richiesta simile. Così facendo si introduce un clima da guerra psicologica, che indurrebbe i mezzi di informazione a muoversi con i piedi di piombo e, molto più probabilmente, a non muoversi proprio.

È davvero così difficile, per dei legislatori, trovare una mediazione tra la tutela della libertà della stampa e il rispetto della dignità e dell’onorabilità del protagonista di un’inchiesta giornalista? Io non credo. Però i nostri parlamentari fanno di tutto per convincermi del contrario: fanno di tutto per farmi sloggiare anche da quei pochi posti rimasti disponibili alla tavola del “torto”. Per questo faccio un appello, accorato: salvate il soldato Sallusti, ma non uccidete il giornalismo. Siate all’altezza del compito a cui siete stati chiamati, Parlamentari della Repubblica.

 

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Come migliorare la legge di stabilità

postato il 25 Ottobre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

La legge “stabilità” del Governo è ottima se andiamo a guardare il principio che vuole imporre all’Italia: maggiore efficienza nella spesa pubblica, tagliare gli sprechi e cercare, mantenendo i saldi invariati, di agevolare le fasce di reddito più basse.

Ovviamente arrivare a questa legge è un percorso lungo e complicato, come è dimostrato dalla dialettica che si è sviluppata in questi giorni tra le varie forze politiche e i vari organismi.

Ad esempio, la corte dei Conti si è dichiarata soddisfatta e metà, segnalando il rischio di ”un deterioramento della tax compliance sia in conseguenza del depotenziamento del contrasto d’interessi prodotto dai tagli a detrazioni e deduzioni di spese in settori ad elevato rischio di evasione, sia per le ricadute negative che la deroga ai principi dello Statuto del contribuente potrebbe produrre sulla trasparenza e sulla lealtà nel rapporto fisco-contribuente”.

Se guardiamo il comunicato della Corte, emerge , da un lato, un giudizio positivo della legge considerando che è orientata ad una politica di bilancio di alleggerimento fiscale, dall’altro vi sono notevoli rischi e incertezze per quanto attiene gli effetti redistributivi e le incoerenze di alcuni interventi, che potrebbe portare ad un aggravio delle imposte locali.

Proprio per questo motivo, l’UDC sta proponendo delle modifiche, come ha fatto rilevare Gian Luca Galletti che ha affermato l’intenzione di ampliare detrazioni e deduzioni “in particolare a beneficio dei nuclei familiari”.

Sempre Galletti ha affermato l’intenzione di “andare anche oltre, cancellando definitivamente le modifiche su oneri deducibili e detraibili e rafforzando i vantaggi per le famiglie” e di cancellare l’aumento dell’iva per le cooperative sociali che rendono servizi alle famiglie.

Ovviamente per realizzare ciò bisogna rispettare le esigenze della copertura finanziaria (quasi due miliardi), ma si può ipotizzare di limitare la riduzione delle aliquote solo al primo scaglione di reddito e lasciare invariata l’aliquota IRPEF al 27% per il secondo scaglione.

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Senza Erasmus anche l’Europa sarebbe a rischio

postato il 24 Ottobre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Virgilio Falco*

I vantaggi prima della Comunità Europea e poi dell’Unione Europea li conosciamo bene: nazioni che qualche anno dopo essersi fatti reciprocamente la guerra con la CECA hanno iniziato cooperare per garantire i propri interessi nazionali ma anche per solidificare un rapporto comune da secoli tralasciato per via di piccole rivendicazioni territoriali e economiche; poco dopo la possibilità di varcare i confini senza visti ne passaporti; poi una moneta unica che soppiantava i gloriosi marchi, la cara lira, i secolari franchi francesi e le pesete spagnole.
Ma chiedendo tra i giovani la prima cosa che vi diranno sull’Europa sarà l’Erasmus.
Questo progetto voluto dall’UE ha qualcosa di rivoluzionario: esso non nasce per garantire un diritto inalienabile del cittadino, bensì promuove una coscienza europea tra i giovani laureandi. E i primi risultati già si stanno scorgendo: a 25 anni dall’introduzione del progetto la “Generazione Erasmus” ormai laureata e entrata nel mondo del lavoro guarda con molta più facilità, rispetto a coloro che hanno svolto un percorso accademico tradizionale, a lavorare fuori dai propri confini nazionali e tende a muoversi con più facilità dalla propria patria.
Se solo ci pensiamo bene già qualche secolo fa esisteva un antesignano del progetto Erasmus: era quel “tour” che facevano farei ricchi nobili ai propri figli per apprendere le dinamiche oltre il confine del proprio regno.
Oggi questa opportunità è invece aperta ai milioni di studenti universitari europei.

Ma pochi giorni fa qualcuno ha lanciato un segnale d’allarme: il deputato francese Alain Lamassoure (PPE), presidente della commissione parlamentare bilancio del Parlamento Europeo, ha denunciato che alcuni paesi, se non si operano modifiche al budget europeo, rischiano di non poter garantire più ai propri studenti la possibilità di studiare all’estero.
A seguito di questa dichiarazione quasi tutte le forze politiche europee si sono attivate per garantire che questa “Generazione Erasmus” possa continuare a sentirsi protagonista a pieno titolo del progetto UE.

E’ di poche ore fa la notizia che la Commissione Europea avrebbe approvato un bilancio rettificato per finanziare, tra le varie cose, il progetto Erasmus con 90 milioni di euro.
Questa è sicuramente una buona notizia ma l’Europa deve dire con chiarezza quali sono le proprie priorità altrimenti il rischio che si corre riguarda proprio il futuro dell’Unione: non si può, soprattutto in un periodo di crisi economica, politica e valoriale, fare un passo indietro nel processo di integrazione europeo. Questo, infatti, potrebbe essere il primo passo verso il fallimento del tanto agognato sogno europeo.
*portavoce nazionale StudiCentro
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