Tutti i post della categoria: Spunti di riflessione

Perché l’Italia del 2013 vogliamo Meritarcela sul serio!

postato il 26 Novembre 2012

di Giuseppe Portonera

Sabato prossimo, a Roma, si terrà un nuovo incontro organizzato e promosso da Meritiamolo, che ufficialmente sarebbe pure un’associazione ma che in realtà è una scommessa, un po’ improvvisata e sgangherata ma molto affascinante e interessante, messa in piedi da un gruppo di persone che vanno dal Veneto alla Sicilia, fino agli angoli più remoti di tutto lo stivale. Si sono già incontrati due volte, una a Venezia e l’altra a Palermo, raccogliendo ogni volta spunti, idee, proposte, sogni che provengono dal basso, dalle forze vive che animano (o dovrebbero animare) un partito. A Meritiamolo non interessa chi sei o che ruolo ricopri qui o lì: interessa se hai un’idea, un programma, un progetto, se sei in grado di elaborare una visione alternativa, se guardando ciò che ti circonda non ti fermi a pensare che fa un po’ (o tanto) schifo, ma la testa ti corre già a cosa dovresti fare per cambiare tutto. A Meritiamolo la politica si dà del “tu” – in un incontro di “Io” che diventa “Noi” – attraverso dibattiti, forum, gruppi di lavoro. Chiunque venga a Meritiamolo ha un obiettivo: meritarsi l’Italia del 2013. Perché il “merito” non è una categoria unilaterale: io mi merito una cosa, se la cosa si merita me. Io non mi merito l’Italia dei Fiorito o dei Lusi, delle Minetti o dei Trota; io non mi merito l’Italia in cui vali solo se conosci qualcuno e non se conosci qualcosa. E questa Italia qui – quella che affolla i giornali, le tv, il web – non si merita me.

La vera “questione morale” del nostro tempo è la corruzione, politica sociale economica, che si è metastatizzata in ogni settore della vita pubblica e privata. L’Italia è il Paese delle migliori segretarie e dei peggiori dirigenti: anziché schierare come prime punte le risorse che abbiamo, si preferisce relegarle nelle retrovie, a far da stimolatori a quelli che occupano indebitamente posti di governo. Quella che vogliamo e chiediamo è una rivoluzione dei migliori contro la Peggiocrazia che mina alle basi la competitività del nostro sistema! Il nostro Paese va trasformato, dalle fondamenta: per questo (qui per iscriversi) sabato prossimo ragioneremo di Welfare 2.0 (che da strumento di stagnazione passiva deve tornare ad essere stimolo attivo alla produttività); di Istruzione (è giunta l’ora di investire sul merito e la competenza); di Amministrazione (perché siamo stufi di assistere alla trasformazione dei Cittadini in Sudditi); di Cultura (la quale rende possibile ciò che altamente improbabile, a partire da Roma “città aperta” veramente), di Ambiente (basta cemento! Tuteliamo il nostro patrimonio); di Trasporti (con le nostre ricette per una mobilità sostenibile). C’è chi si definisce rottamatore, chi formattatore: noi non siamo né l’uno né l’altro. L’età anagrafica delle persone ci interessa poco: ci interessa ciò che hanno fatto e ciò che rappresentano. Se hanno fatto bene al Paese, saranno i benvenuti (chi di voi rottamerebbe De Gasperi o Einaudi o La Malfa?). Se, invece, hanno contribuito a trascinarci sull’orlo del default, politico e morale, no grazie: avete avuto la vostra occasione, era meglio se restavate a casa. Diceva Tony Blair: «I didn’t come into politics to change the Labour Party. I came into politics to change the country». Parafrasando le sue parole, noi di Meritiamolo non vogliamo cambiare solo la “politica”: vogliamo cambiare il Paese. Senza arrenderci, senza tornare mai indietro, senza compressi. “Gli ingenui non sapevano che l’impresa era impossibile, dunque la fecero”.

2 Commenti

Coniugare rigore e solidarietà

postato il 19 Novembre 2012

C’e’ la necessità di continuare con l’agenda Monti. L’importante e’ che si riparta dalla vera rivoluzione di questo governo che parla un linguaggio duro, impopolare, senza demagogie e populismi. La politica dei prossimi mesi dovrà essere capace di esprimere anche solidarietà. Si deve parlare di economia sociale di mercato, dove il rigore parte dai sacrifici di chi ha di più. Un rigore che va coniugato con la solidarietà verso i più deboli. E anche l’Europa si deve svegliare, perché di solo rigore si rischia di morire.

Pier Ferdinando

11 Commenti

Monti resti premier con suffragio dei cittadini

postato il 17 Novembre 2012

Noi lavoriamo perché alle prossime elezioni politiche Mario Monti sia richiamato in servizio permanente effettivo e sia investito dalla gente della possibilità di continuare a lavorare. Oggi deve essere ancora la politica, dopo le elezioni, col suffragio dei cittadini, a richiamare questo presidente del Consiglio e dirgli: ‘Continua, fai un governo e cerca di risolvere i problemi con lo spirito con cui li hai affrontati’.
Noi dobbiamo fotografare la realtà dell’Italia. I governi di destra e di sinistra negli ultimi vent’anni non sono stati in grado di affrontare la crisi del Paese. La politica ha chiamato Monti, in un momento drammatico, per evitare di fare la fine della Grecia.
Oggi non vediamo un’alternativa alla sua credibilità e affidabilità. Non è l’uomo della Provvidenza, non governa guidato dallo Spirito Santo. Farà gli errori che fanno tutti, ma ha un grado di affidabilità, di riconoscibilità esterna, di credibilità per guidare l’Italia che da tempo mancava nella politica italiana.

Pier Ferdinando

3 Commenti

Un uomo, due ministri e la storia (felice) di speranza

postato il 2 Novembre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Elisabetta Pontrelli

Il  31 ottobre 2012  già fa  parte delle  date  storiche nel mondo della Grave Disabilità. La giornata infatti ha  visto concretizzarsi ciò che  in passato molti altri signori con responsabilità varie avrebbero potuto fare, ma che purtoppo non è mai accaduto. Finalmente  il Ministro Fornero (Lavoro e Pari Opportunità) insieme al Ministro Balduzzi( Sanità) hanno fatto visita a Salvatore Usala, a casa sua, a Cagliari, da dove Tore, malato di sla totalmente paralizzato, insieme a tanti altri malati della Sardegna e di tutta Italia,  combatte da anni per ottenere quello che non dovrebbe essere  chiesto come fosse  una regalia, visto che si tratta di  un sacrosanto diritto, il Diritto Naturale di poter  mantenere la stessa dignità umana nella  tremenda situazione fisica, di non autosufficienza, alla quale la sclerosi laterale amiotrofica conduce. Ed il gesto nobile dei due  Ministri non è certamente stato quello di andare a far visita per sembrare altro…..per dare una pacca sulla spalla condita con i soliti nauseanti “vedremo, faremo, ce la metteremo tutta….” , bensì è stato realmente un incontro  chiarificatore sul  perché ci siano stati intoppi  “tecnici” fino ad ora nell’ elargire i 350/400.000  euro destinati alla Grave Disabilità e su quello che si potrà fare entro 20 giorni, dati alla mano. Si sono impegnati a chiederlo tempestivamente a Monti, visto che i malati non possono permettersi il lusso di aspettare, poiché le malattie gravi, in quanto tali, non hanno certamente i tempi politici ai quali, ahinoi, ci siamo tristemente abituati (fino all’ anno scorso, aggiungerei  per onestà intellettuale….). Insieme ai Ministri della Repubblica c’erano a rendere onore a Salvatore Usala anche il Presidente della Regione Sardegna, Ugo Cappellacci, e l’ Assessore alla Sanità, Simona de Francisci, che si sono altresì impegnati a rendere più snelli i passaggi Governo-Regione e  che hanno pure  ricevuto, ad onor del vero,  i giusti elogi da parte dei due Ministri per il grande, prezioso lavoro già svolto   in Sardegna per i malati non autosufficienti,  soprattutto per  ciò che concerne l’ Assistenza Indiretta ed il Rientro a casa, due temi cari a Salvatore, che, generosamente e giustamente, ciò che funziona nella sua regione, vorrebbe fosse esteso presto anche alle altre! Salvatore Usala è rimasto soddisfatto dell’ incontro e, nonostante abbia avvisato la Fornero di essere un combattente dal grande coraggio, pronto a riprendere  lo sciopero della fame insieme ai 62 disabili gravi in tutta Italia, ha anche  affettuosamente dichiarato che non ha motivi questa volta per non fidarsi della PAROLA DATA da parte di Elsa e Renato, facendoci ricordare con  molta semplicità che le cose grandi si fanno quando ci si ricorda che dietro il ruolo che la vita ci ha assegnato c’ è sempre lui, L’ UOMO, e che se le cose le vogliamo fare in grande è proprio questo che non bisogna dimenticare mai. Sono ormai venti anni, per quanto mi riguarda, che assisto ad un  triste, mediocre teatro delle contrapposizioni, dei derby da stadio, delle urla dei superuomini: ma il teatro che amiamo è quello di Eduardo de Filippo che, consapevole degli orrori della guerra, dell’ uomo contro l’uomo, ci ricorda che “à da passà à nuttata”….. e la nottata di questo 31 ottobre appena trascorsa, celebrata in Sardegna come la notte de IS ANIMMEDDAS  da secoli prima dell’anglosassone Halloween,  sapeva di una magica regia dei tanti amici che ci  hanno già lasciato a causa della SLA, perché non sono riusciti ad essere forti e coraggiosi come gli SlaLeoni (è questo il soprannome di Tore ed altri amici cuor di leone!), ma che ci hanno lasciato però il dovere morale di migliorare il mondo. Ed il mondo si migliora solo se si ama profondamente la vita, passando necessariamente per il nostro prossimo però, altrimenti è sterile narcisismo, affermazione e adorazione patologica del proprio sé… Ma  il sé vero è altro, spesso seppellito dalle maschere sociali che ci soffocano ed impediscono la nostra Evoluzione Interiore. Il sé meraviglioso, poiché pura essenza umana, è quello che ha condotto Elsa e Renato Uomini, ancor prima che Ministri, nel nido di Salvatore Usala, la sua casa, la sua famiglia… Quanto accaduto, proprio perché non abituati a tanto,  sa quasi  di fiaba ed  invece è  già storia! Sicuramente i nostri due Ministri, il Presidente della Regione Sardegna e l’ Assessore alla Sanità  sanno convintamente quanto l’alterità sia una profonda ricchezza dalla quale attingere, non della quale aver paura; sanno quanto sia importante trasmetterla, soprattutto alle nuove generazioni. E chissà, forse  non sarà  nemmeno un caso che proprio il 31 ottobre  tante Istituzioni, tutte insieme, abbiano reso onore  a Salvatore; visto infatti che l’ aspetto spirituale della  festa delle Anime  era proprio quello di onorare i nonni  attraverso la memoria, cioè il racconto delle loro  gesta ai bambini, magari intorno ad un bel fuoco,  introducendo così  una profonda riflessione sul senso della Vita e della Morte, di introspezione che  portava ad analizzare il passato, per apprendere ciò che  non andava  bene , e guardare  il futuro con ottimismo, allora c’ è da sperare che questo incontro sia veramente di buon auspicio per sempre nella storia  del legame fra Politica e mondo della Disabilità e della Malattia in generale. Salvatore Usala  è stato quel Puro, proprio come i bambini,  che ha fatto da spartiacque tra il buio del passato e la luce del futuro. Ora sta a noi, con le nostre scelte, non deludere queste grandi aspettative, che non appartengono solo a lui, ma a tutte le persone di buona volontà.

8 Commenti

La legge anti-corruzione è un passo concreto non più rinviabile

postato il 31 Ottobre 2012

Avremmo voluto che la legge anti-corruzione fosse approvata già mesi fa e comuqnue siamo soddisfatti. E’ un punto di compromesso, ma e’ un passo concreto, un segnale che i cittadini aspettavano e che non poteva essere ulteriormente rinviato

Pier Ferdinando

2 Commenti

Salvate il soldato Sallusti, ma non uccidete il giornalismo

postato il 25 Ottobre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Ho un difetto, lo confesso. Mi piace combattere battaglie scomode: ogni qualvolta si creano due fazioni intorno a una questione spinosa, dopo aver verificato la situazione, mi schiero di solito a favore della parte più in difficoltà. Mi siedo quasi sempre dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti sono solitamente occupati, per dirla con Brecht. Difendo le idee, le istituzioni, anche se questo significa difendere uomini e donne che sono molto diversi e distanti da me. È stato così quando si votavano in Parlamento le richieste d’arresto di diversi parlamentari ed è stato così anche quando ho scelto di “difendere” le ragioni di Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, che è stato condannato per “diffamazione” per un articolo firmato da un anonimo Dreyfus, su Libero, in cui veniva raccontata la storia di una ragazzina “costretta” ad abortire da un giudice, Giuseppe Cocilovo. Da più parti questo è stato visto come un attacco alla libertà della stampa e anche se, tecnicamente, non ci troviamo di fronte a un “reato d’opinione”, è pur vero che vedere un giornalista (non Alessandro Sallusti in quanto tale, ma un giornalista) finire in galera per un articolo (che non aveva scritto neanche lui, ma di cui aveva la responsabilità oggettiva) fa male al cuore. I principali direttori di quotidiani hanno infatti espresso il loro disappunto e la loro preoccupazione: Ezio Mauro, direttore de La Repubblica: «Non si può andare in galera per un’opinione anzi per il mancato controllo su un’opinione altrui. È una decisione che deve suscitare scandalo»; Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere: «È davvero molto grave che si arrivi ad ipotizzare il carcere per un collega su un cosiddetto reato d’opinione»; Franco Siddi, segretario della FNSI: «È sconvolgente. In questo momento siamo tutti Sallusti».

Com’è abitudine del nostro Paese, in molti – scandalizzati, sinceramente o meno non so – hanno aperto gli occhi e diversi parlamentari (quella categoria di persone, cioè, che dovrebbe promulgare leggi lungimiranti e responsabili, non legiferare sull’onda degli eventi) hanno provato a promulgare una norma per impedire al giornalista Sallusti di essere incarcerato. Solo che, anziché fare bene una (e dico una) cosa, i senatori hanno finito per peggiorare la situazione: perché, in una discussione interminabile e in un gioco di veti e interessi incrociati, la prima bozza partorita era davvero un obbrobrio, addirittura pericolosa per la libertà d’informazione (senza contare i nuovi, immancabili attacchi alla Rete, con l’eterno ritorno dell’obbligo di rettifica). L’accordo (raggiunto attualmente) dovrebbe eliminare il rischio di finire in carcere per chi diffama, ma introduce una sanzione massima di 50 mila euro e un obbligo di rettifica online, per le testate giornalistiche e gli articoli che vi saranno pubblicati. Ora, l’abolizione del carcere è finalmente un’opera di buon senso (avrebbero potuto farlo prima, eh), ma l’obbligo di rettifica e le sanzioni pecuniarie mi lasciano perplesso: come può un soggetto che si ritiene offeso, obbligare un giornalista a rettificare l’informazione che lo riguarda, senza che nessuno verifichi se siamo in presenza o meno di vera diffamazione? In questo modo la libertà d’informare (anche scomodamente) viene meno. E della sanzione di 50 mila euro, che dire? Per i piccoli giornali o gruppi editoriali sarebbe difficile fare fronte a una richiesta simile. Così facendo si introduce un clima da guerra psicologica, che indurrebbe i mezzi di informazione a muoversi con i piedi di piombo e, molto più probabilmente, a non muoversi proprio.

È davvero così difficile, per dei legislatori, trovare una mediazione tra la tutela della libertà della stampa e il rispetto della dignità e dell’onorabilità del protagonista di un’inchiesta giornalista? Io non credo. Però i nostri parlamentari fanno di tutto per convincermi del contrario: fanno di tutto per farmi sloggiare anche da quei pochi posti rimasti disponibili alla tavola del “torto”. Per questo faccio un appello, accorato: salvate il soldato Sallusti, ma non uccidete il giornalismo. Siate all’altezza del compito a cui siete stati chiamati, Parlamentari della Repubblica.

 

2 Commenti

Senza il Concilio forse non sarei neppure cattolico

postato il 11 Ottobre 2012

di Paolo Giuntella

L’11 Ottobre 1962 si apriva il Concilio Vaticano II. Vogliamo ricordare l’evento con un articolo di Paolo Giuntella, giornalista del Tg1 prematuramente scomparso il 22 maggio 2008

Senza il Concilio Vaticano II forse non oggi non sarei cattolico. L’ho detto e ripetuto spesso negli anni, ma soprattutto l’ho scritto e ripetuto nei mesi del 40° compleanno del Concilio. Ho sempre detto, o scritto forse perché naturalmente le vie del Signore sono infinite e tanto più, per quanto uno possa avere una testa narrativa, è difficile immaginare a ritroso delle scelte frutto di un condizionale, anzi di un congiuntivo che regge un condizionale: “Se non ci fosse stato il Concilio sicuramente oggi non sarei cattolico”. Non lo so e naturalmente non posso dirlo. Ma questa è la mia netta sensazione di oggi. E perciò lo dico, senza enfasi celebrativa. Perché noi siamo poco avvezzi a ricordare come era la Chiesa prima del Concilio. Spiritualità intimiste, trionfalismo ormai perdente e sopravvissuto a sé stesso, nostalgie del potere temporale, doppia morale, primato della facciata pubblica rispetto all’autenticità e alla coerenza, liturgia in latino cioè in una lingua sconosciuta per il novanta per cento dei cattolici di tutto il mondo, e dunque ritualità che finivano per diventare – anche al di là delle migliori intenzioni e della fede più convinta e genuina – per la maggioranza dei “fedeli” riti avvolti dall’incanto o dal tormento, velati di una sorta di magia, spesso vissuti dalla gente semplice ma anche dalle buone signore della borghesia o dell’aristocrazia più bigotta, con superstizione, o tradizioni popolari.

E’ vero che c’erano stati negli ultimi secoli anche pontefici squisitamente religiosi o pastori e persino riformatori, ma il conflitto irrisolto e perdente con la Modernità, la nostalgia – anche nei migliori – dell’ordine sociale cristiano perduto, delle gerarchie perdute della cristianità, lo sfaldarsi della morale comune che, in molti paesi europei, coincideva con la morale formale, con i costumi esteriori cristiani, condizionavano la vita dei cattolici, soprattutto giovani. Certo, c’erano stati anzitutto i santi, e spesso santi rivoluzionari o poveri alla Benedetto Giuseppe Labre (in totale direzione alternativa alla corte pontificia romana e alle corti di re cattolici o agli stili di vita di ricchi aristocratici e borghesi proprietari agrari “cattolici”).

C’erano stati teologi e intellettuali (per tutti un nome, John Henry Newman). C’erano stati profeti sociali e avanguardie politiche, “les abbés democrates”, i laici cattolici pionieri democratici, i cattolici liberali e cristiano-sociali. E poi era arrivato l’insegnamento sociale della Chiesa dalla “Rerum Novarum” in poi e un intenso movimento di rinnovamento degli studi biblici, di intellettuali, di grandi convertiti, da Oxford ai francesi, da Chesterton a Jacques Maritain. E ancora: il grande rinnovamento teologico degli anni ’50, la “Nouvelle Théologie francese, la spiritualità dell’imitazione del Gesù povero di Charles de Foucauld e dei suoi eredi spirituali, i piccoli fratelli e le piccole sorelle. C’erano i preti alla don Mazzolari e don Milani, alla papa Giovanni, certo, e i parroci come quello dell’Albero degli zoccoli, il film di Olmi.

Ma la prima immagine della Chiesa che aveva un bambino degli anni ’50 ed un adolescente dei ’60, era quella del monsignore romano, vestito di rosso con scarpe con fibbia d’argento e gran cappello, che l’8 dicembre arrivava in piazza di Spagna per portare i fiori alla colonna dell’Immacolata scendendo da una lunga Mercedes nera, con l’autista in livrea che gli apriva lo sportello. E come dimenticare le strazianti messe cantate delle 11.00 e la messa dei signori, dei ricchi borghesi, delle contesse impellicciate e ingioiellate, delle 12? E per di più in quegli anni, vale la pena ricordarlo, la maggioranza degli italiani era proletaria, contadini ed operai, e gli analfabeti superavano il 50 per cento. Per tutti loro, come per la massa dei diseredati analfabeti del Congo o del Salvador, delle Filippine e del Nord Est del Brasile, la messa era in latino. La Bibbia era quasi proibita, comunque ritenuta in grave sospetto, un libro “sconsigliato” come i film di Alberto Sordi, anche se poi al catechismo ti facevano studiare personaggi ed episodi dell’Antico Testamento e del Nuovo. Nella mia parrocchia, nel giorno del tesseramento dell’Azione Cattolica, i bambini iscritti stavano in prima fila e facevano per primi la comunione ricevendo un’immaginetta regalo. E a me tutto questo faceva una grande rabbia e, più ancora – papà che mi proibiva di iscrivermi e protestava con il parroco dicendo che nella Chiesa non ci sono figli di serie A e di serie B, e che, anzi, Gesù aveva proprio predicato la cacciata dei figli dell’oca bianca in ultima fila e aveva chiamato in prima fila poveri, barboni, prostitute e i famosi pubblicani che io, poi, non capivo bene che cosa fossero. Pensavo che fossero come quelli che venivano a leggere le bollette del gas.

E tutti i libri di teologia e spiritualità che leggeva papà, e che ordinava nella libreria francese di Roma, erano “proibiti”, non tradotti in italiano. Ed io, che ero l’unico a subire un po’ di fascino governativo ed ortodosso perché ero l’unico della famiglia ad ascoltare la radio, e dunque l’unico ad assorbire anche l’informazione ufficiale, ero preoccupato da questa attività semiclandestina di letture eretiche di papà e di incontri segreti dopo cena nella nostra camera da pranzo. In realtà poi, gran parte degli autori dei libri proibiti degli scaffali della libreria di papà sarebbero diventati cardinali: Journet, Danielou, De Lubac, von Balthasar, Congar. E un altro mito di papà, Giorgio La Pira, era il bersaglio preferito dei giornali più venduti a Roma e di un giornale cattolico che arrivò a definire Aldo Moro un “Rospo” schifoso e ributtante, in un editoriale del 1962 quando si stava preparando il primo governo di centro sinistra.

Si pregava per la conversione dei “perfidi ebrei” (anche se proprio Giovanni XXIII avrebbe ottenuto la rinuncia a quella orribile preghiera della liturgia del Venerdì Santo) ed era proibito anche solo entrare nelle Chiese protestanti. Ed io, che avevo un papà innamorato degli ebrei e persino degli zingari per via del campo di concentramento nazista e che era pacifista e favorevole all’obiezione di coscienza, ero sempre tentato di andare a vedere che cosa c’era dentro la Chiesa valdese di piazza Cavour. Sentivo il fascino di quella chiesa cristiana eppure proibita, e insieme l’orgoglio ma anche il timore, di un padre che frequentava ebrei, protestanti e zingari…E poi l’”Osservatore Romano” che arrivò a censurare il Papa, l’omelia di Giovanni XXIII in una parrocchia romana…

Ora, lo si voglia o no, il Concilio fu veramente una rivoluzione copernicana, come disse il teologo – un altro super proibito amatissimo da papà – Marie-Dominique Chenu. Fu per noi, per me, come se la Chiesa, dei monsignori di curia, la Chiesa delle Mercedes, la Chiesa delle zitelle bigotte e delle signore impellicciate che pensavano di risolvere il problema dei poveri e della giustizia sociale con qualche elemosina e consideravano La Pira un pericoloso comunista, questa Chiesa spalancasse le finestre per far uscire l’aria viziata e le porte per far entrare tutti “i sospetti”.. Pulizie pasquali e rinnovamento delle tinture delle pareti, dei mobili, della cucina della Casa di sempre. Per molti di noi allora giovani, ma anche per molti adulti, per gli intellettuali cristiani, ma anche per persone molto semplici, queste pulizie, questo ammodernamento delle mobilia, cioè essenzialmente la riconciliazione con il mondo moderno, con l’umanità contemporanea e le sue culture, non più considerate perdute e nemiche, sono state una tappa fondamentale. Per noi, che vivemmo in particolare a Roma quella stupenda, esuberante atmosfera, questa invasione di vescovi e teologi da tutto il mondo – la scoperta di tanti vescovi e cardinali poveri che affittavano piccole cinquecento Fiat per arrivare in 4 ai lavori in Vaticano – e tutta la serie di incontri, conferenze, opportunità, scoperte, fu davvero una primavera. Non tutti avevano, i miei amici, alle spalle una famiglia vaccinata: a casa mia entravano solo riviste cattoliche francesi, papà seguiva il Concilio su Le Monde, io che all’inizio ero più moderato su La Croix, solo più tardi ci abbonammo all’Avvenire d’Italia di Raniero La Valle. Ricordo con precisione un episodio, come fosse ieri, quando andammo ad ascoltare il cardinal Suenens, arcivescovo di Bruxelles. Un mio amico disse al padre che andava al cinema. Perché se il padre fosse venuto a sapere che era andato a sentire il cardinale progressista, lo avrebbe chiuso in casa. In genere un ragazzo – e né il padre né tanto meno lui, il mio amico, erano bigotti – magari a quindici anni diceva che andava a sentire un cardinale e poi andava al cinema o diceva che andava in parrocchia e poi usciva con gli amici e le mitiche, allora per noi catto-imbranati, ragazze. Mai il contrario eppure, questo lo ricordo per raccontare il clima di allora, dire una bugia per andare a sentire un cardinale! Ma senza volerlo il buon cardinal Suenens ci ripagò quando, nella sala affollatissima, cominciò a parlare degli schemi preparatori, da cui sarebbero scaturite le costituzioni conciliari. Parlava un perfetto italiano ma con marcata inflessione francese. Così cominciò a parlare di “Scemi del Concilio”, pronunciando la parola schemi appunto alla francese. Resisti la prima volta, resisti la seconda, alla terza non ce la facemmo più ed esplodemmo in una fragorosa, e contagiosa, sonora risata. E dovemmo dare, naturalmente una divertente spiegazione al cardinale…

Per noi fu quella la scoperta di una teologia più vicina alle nostre esigenze, alle nostre sensibilità, alla nostra cultura studentesca per quanto appena ginnasiale e liceale, al nostro bisogno di coniugare fede e cultura, fede e intelligenza e poi, progressivamente fede e storia, fede e politica, ma oltre i tradizionali labirinti della scolastica e del collateralismo obbligatorio con il partito ufficiale d’ispirazione cristiana. Scoprivamo la Chiesa dei poveri, o almeno che la povertà non era soltanto un voto per religiosi o una specializzazione dei francescani, ma uno stile di vita per tutti i cristiani, laici, padri di famiglia, intellettuali o professionisti che fossero. Scoprivamo il terzo e quarto mondo, il drammatico fossato che divideva ricchi e poveri del pianeta, ed una spiritualità dell’essenziale (Charles de Foucauld) ed inesplorata foresta di cultura teologica e politica e di impegno.

Poi ci fu la grande speranza e la grande euforia per la riforma liturgica e le belle avventure nelle nostre messe dei giovani con omelia dialogata, chitarre anche elettriche, e nuove canzoni – alcune delle quali oggi, quarant’anni dopo resistono ancora sulla breccia ma sono ormai lagne quasi insopportabili – e soprattutto, la Bibbia. Destrutturammo, Costituzioni conciliari alla mano, le associazioni di base, fondammo gruppi biblici a ripetizione molto vissuti, alternando cineforum parrocchiali e doposcuola nelle borgate, scoutismo e sogni di un mondo diverso. Ma non fu tanto questo, che ci fece restare nella Chiesa, quanto la liberazione dai silenzi, dagli incensi, dai passi felpati, dagli eccessi di prudenza, dagli obblighi di riverenza, dalle paure, dalle proibizioni.

Emmanuel Mounier ha parole terribili in molti suoi articoli e nel suo libro straordinario L’Avventura cristiana (L’Affrontement chréthien) contro la falsa “prudenza”, contro le virtù deformate, il capovolgimento della gerarchia delle regole dell’«intimidazione morale, del moralismo che mette “la protezione prima dell’amore, una caricatura della Prudenza prima delle virtù teologali. Ama et fac quod vis, non vuol dire riscaldati e fai il pazzo, ma vuol dire che l’assoluta subordinazione di ogni virtù, anche la sacrosanta prudenza, alla Carità, libera uno schiavo e dilata la vita».

Ma soprattutto fu per noi fondamentale la scoperta di una fede adulta possibile, senza rottura con le nostre conquiste culturali, con le esigenze della nostra intelligenza, senza dover rinunciare ad essere contemporanei; e la riappropriazione della Bibbia, della Parola di Dio. Insomma la scoperta delle fonti ed il respiro forte dei maestri, da Emmanuel Mounier a Thomas Merton da De Lubac, Congar, Chenu, a Rahner, da Helder Camara a La Pira. E poi l’incontro con punti di riferimento ecclesiali come il cardinal Pellegrino…

Giovanni Bachelet ricorda che io dicevo sempre, con una lieve celia, che noi eravamo “cattolici del consenso”, per dire in altre parole che se coltivavamo il dissenso politico e i sogni di una intera generazione, la militanza nonviolenta e pacifista contro la guerra in Vietnam, il sogno di un mondo nuovo, amavamo la Chiesa del Concilio, di Giovanni XXIII, di Paolo VI, della Pacem in terris, della Popolorum Progressio e perciò amavamo, con tutte le esuberanze, le sofferenze, le insofferenze ma anche le speranze di quei giorni che ci apparivano sempre cantati, sempre giorni di svolta, di attesa, di preparazione, di coscientizzazione – come si diceva allora – quasi che nuove terre e cieli nuovi fossero davvero a portata di mano e il famoso fiume di Isaia che evocava La Pira fosse davvero vicino alla foce nel grande fiume dei tempi nuovi.

Costruimmo così, tra illusioni e delusioni, euforie e fondamenta solide, la nostra coscienza laicale che la Lumen Gentium e la Gaudium et spes nutrivano e stimolavano ad altre letture, ad altri impegni. Non crediate che questi fossero nutrimenti o manie di élites o di giovani intellettualini. No. Un nostro coraggioso assistente di gruppo giovanile riuscì a farci studiare il Fenomeno Umano di Teilhard de Chardin (non ancora tradotto in italiano) in gruppo. E c’erano anche studenti di scuole tecniche e persino ragazzi che erano stati costretti ad interrompere gli studi per andare a lavorare. A turno alcuni dei grandi che sapevano il francese studiavano un capitolo e, come si direbbe oggi con vocabolo burocratese orribile, “relazionavano”. Cioè spiegavano a tutti il contenuto del capitolo. Capite perché, e grazie a quanti animatori, vice-parroci, assistenti – oltre che a genitori non comuni – ed alle letture che in quel clima di primavera della Chiesa mi furono messe in mano, trasmesse, suggerite, sono rimasto cattolico e grazie a quante persone e testimoni che avevano “preparato” e “sperato” il Concilio, sono rimasto nella Chiesa ed insieme a molti altri coetanei la considero, nonostante tutte le resistenze e le contraddizioni umane, la mia casa.

Alcuni anni fa Ernesto Galli Della Loggia – secondo una tradizione di certi laici non cristiani (non mi piace, come del resto anche a Cacciari, l’espressione non credenti perché nessuno è non credente, mentre l’aggettivo, la qualificazione, di laico spetta anche a me ed io la amo tanto e credo che proprio i laici cristiani siano i maggiori esperti in fatto di clericalismo e dunque i più refrattari e i più combattenti dall’interno della Chiesa) che spesso si impicciano ed in modo conservatore o tradizionalista di cose ecclesiali – scrisse che il Concilio aveva svuotato le chiese. In realtà è vero il contrario. Dobbiamo chiederci quanto sarebbero ancora più vuote le nostre chiese senza la ventata fresca del Concilio, quanti avrebbero abbandonato, quanto più lontana e museale sarebbe stata avvertita dai giovani di allora oggi sessantenni e cinquantenni e ancor peggio dai giovani diciottenni e ventenni di oggi. Si, le chiese sarebbero molto più vuote, di quanto, purtroppo, comunque non lo siano oggi.

Al di là di tutti i meriti della “rivoluzione copernicana” conciliare, la riappropriazione delle Bibbia, la centralità della Parola di Dio, la definizione teologica del popolo di Dio (i laici finalmente tornati come nelle prime comunità cristiane alla stessa dignità sacerdotale pur nella diversità di carisma con i ministri), la riforma liturgica, l’apertura ecumenica alla libertà religiosa, al dialogo con le chiese cristiane sorelle, con l’ebraismo, con le religioni non cristiane, l’apertura del dialogo con il mondo contemporaneo, il ruolo dei laici nell’autonomia della sfera politica e sociale, quel che ha veramente inciso nella nostra vita di laici e nella vita della Chiesa è lo spirito che ha animato il dibattito e la ricerca teologica, il rinnovamento della catechesi, la maturazione della lettura dei segni dei tempi come categoria, come criterio che progressivamente sostituisce la categoria dell’ordine cristiano o della cristianità da ricostruire, il radicale mutamento delle missioni, la ritrovata centralità delle Chiese locali e l’avvio della collegialità. Per noi laici la dignità di popolo di Dio ha significato il tramonto della condizione di “fedeli”, dunque di soggetti e protagonisti, come dire, inferiori, nella Chiesa.

Ora, a quarant’anni di distanza, dobbiamo chiederci che ne è del laicato, della sua dignità e del suo sacerdozio, il sacerdozio universale del popolo di Dio? Dobbiamo chiederci se c’è un processo di ri-clericalizzazione della Chiesa visibile qui in terra, ovvero nuove forme di delega da parte dei laici. Un certo nuovo modello di laico “collaboratore” – io aggiungo “domestico” – dei parroci, dei preti, delle diocesi, una sorta di vice-parroco mancato, di replicante, donna od uomo che sia, in vilpelle del parroco, mi da molto fastidio, mi fa venire la pelle d’oca. E mi mette paura. Mi ricorda, lo dico intendiamoci con affetto e con il sorriso sulle labbra, le “vecchie bizzocche” che riempivano di “sch…” le nostre navate, prima, appunto del concilio, e certi cattoliconi dalla sfumatura alta untuosi o eccessivamente umili, un po’ in ginocchio e un po’ santamente dabbene, che passano per i laici impegnati, prima, appunto del Concilio. Certo i tempi sono cambiati, oggi le collaboratrici e i collaboratori domestici dei parroci sono in jeans e magari con cinte chiodate e accurate capigliature ben colorate, con lo zainetto o la borsa, ed un linguaggio più spigliato, ma il risultato non cambia. Ma è indubitabile che il protagonismo, anche allo stato un po’ selvaggio, ma fertile, dei primi decenni post-conciliari, il periodo d’oro dei consigli pastorali elettivi per fare un solo esempio, si è impantanato. E non solo per una ripresa di centralismo, come dire, “clericale”.. Anche per una progressiva afonia del laicato.

Voglio parlare con voi con assoluta sincerità in un clima di cristiani adulti. Sembra, a quarant’anni di distanza dal Concilio grazie al quale, e grazie soprattutto al suo spirito, in tanti possiamo dire di essere rimasti cattolici, di essere stati stimolati comprendere con più profondità le verità oltre il tempo e lo spazio dell’esperienza cristiana e dell’esperienza di Dio nella Chiesa, si sia esaurita, almeno nel laicato, proprio quella spinta di rifondazione spirituale e culturale, di tensione intellettuale, di ricerca e creatività che invece aveva preceduto il Concilio. Penso alla fine dell’800, al periodo dei grandi convertiti inglesi, ma anche ai primi anni e quindi agli anni ’30, e poi agli anni ’50 e’60 in Francia. Alla stagione dei grandi scrittori, dei filosofi, degli artisti. Penso ai Chesterton, ai Maritain, Bernanos, Rouault, Mounier, a Mauriac, a poeti come Pierre Emmanuel e Mario Luzi o Betocchi, a musicisti come Olivier Messiaen e Mary Lou Williams, solo per fare alcuni nomi, ma si potrebbe continuare a lungo. Certo ci sono numerosi intellettuali, storici filosofi giuristi economisti, ma è come se mancasse un movimento più ampio, un confronto, una serie di cenacoli, una temperie di riviste, case editrici. Soprattutto voci e personaggi comunicativi, coraggiosi, che sappiano squarciare gli orizzonti verso il futuro, senza rimpianti per il passato ma con radici ben piantate ed in grado di essere interlocutori, di proporre interrogativi e speranze ai lontani, ai non cristiani, di essere catalizzatori di dialogo, di incontro, di confronto. Certo c’è una ricchezza di novità, soprattutto nel volontariato, nella cooperazione internazionale, ci sono missionari laici – spesso sconosciuti come era sconosciuta Annalena Tonelli prima di morire, può essere che questo territorio della testimonianza sia più importante, più decisiva, più a misura evangelica. Ma tuttavia il cristianesimo non può neppure essere ridotto – pur nella misura dei santi, dei testimoni che disposti a dare la vita per gli altri – a volontariato, ai filantropia. Forse sono i ritmi pesanti delle professioni, per vivere, la durezza e il rigore della competenze scientifiche, tecniche, amministrative, giuridiche, il terreno nudo e crudo della laicità, che ci prendono molto tempo. Ma io avverto la necessità di tornare a pensare, di educare le nostre comunità a pensare, a cercare, a sfidare il vuoto di senso e di Dio e questo non può essere delegato ai teologi e neppure agli addetti ai lavori. Né però deve essere questo un territorio troppo affollato di dilettanti o peggio di persone che trascurano le loro professioni, la laicità quotidiana, le responsabilità tecniche e scientifiche, o semplicemente professionali, per dedicarsi ad una generica attività catechetica o formativa. La questione è più profonda. Anche se mi rendo conto che l’età della precarietà – la precarietà è dappertutto diceva con felice sintesi Pierre Bourdieu – e dunque della singolarità, della gratificazione istantanea, della ricerca affannosa di felicità liofilizzate, di storie affettive più che di patti, di stabilità affettive, questa incertezza frammentazione e provvisorietà delle convinzioni, non permette il lusso di pensare, di ricercare, se non nei monasteri.

Dovremmo, ripartendo dalla “Gaudium et Spes”, con una lettura critica perché questa costituzione era anche il frutto di una età al contrario delle grandi speranze, dell’ottimismo sullo sviluppo, della fede nel progresso inarrestabile dell’umanità, ed insieme dalla “Lumen Gentium” – e tenendo conto anche della differenze, delle arcaicità di linguaggio rispetto al linguaggio dei giovani e dei trenta-quarantenni – tornare a riflettere sia sulle sfide che sulla dignità, lo statuto, dei laici cristiani.

Ci sono poi dei modelli, degli stili di vita, penso ai condomini solidali (come qui a Milano Villapizzone), alle famiglie affidatarie, a delle forme nuove di fraternità che coinvolgono laici e religiosi in forme di vita comune che rispettano l’autonomia delle famiglie, delle professioni; ai missionari laici non consacrati ma in coppia o aperti a prospettive matrimoniali; a quei professionisti, infermieri, medici, avvocati, che dedicato uno spazio non resicato della loro giornata o le vacanze al volontariato professionale; insomma ci sono moli segnali di un nuovo stile di vita cristiano più legato ai tempi nuovi della fede “nuda” senza assicurazioni sociali, cioè con istituzioni sempre più povere, come prevedeva Giuseppe Dossetti. Sappiamo poi che la crisi delle vocazioni religiose, comunque il confronto tra modernità e vita consacrata, affida ai laici ruoli sempre più importanti come animatori liturgici di liturgie domenicali senza preti celebranti, ormai anche in Europa, responsabilità catechistiche, pastorali, di conduzione della parrocchia o della comunità cristiana locale priva di sacerdote e progressivamente, dunque, di forme equilibrate, serene, senza eccessivi trionfali entusiasmi che poi spariscono di fronte alle difficoltà, di vita comunitaria, di legami di fraternità tra laici immersi nella vita reale professionale e famigliare.

La dimensione comunitaria appartiene del resto, come negli Atti degli Apostoli, a tutto il popolo di Dio, non solo ai preti e ai consacrati. Le Beatitudini, come giustamente scrive in un suo bel libro il biblista Gherard Lofhink, sono rivolte a tutti. Ciascuno e chiamato viverle sperimentando ogni giorno livelli più intensi di mediazione del Vangelo nella laicità senza integralismi, fondamentalismi, infantilismi troppo ingenui, ma senza neppure cinismo e doppia morale. E senza tuttavia imporre ad alcuno il nostro stile di vita, la nostra via al cristianesimo, la nostra tessera di appartenenza o di militanza, come la via esclusiva al cristianesimo.

Ed attenzione: non è vero che l’entusiasmo di cosiddetti atei devoti, e di ammiratori del cristianesimo senza Vangelo, cioè brandito come scudo, insieme ai crocifissi nelle scuole, (e non vissuto come Parola e segni di pace, perdono, accoglienza, dialogo, di Resurrezione, parola e simbolo del Dio Amore, della debolezza della Croce) e la politica di compromessi e trattative per ottenere soldi per salvare il salvabile – e qualche scuola cattolica – possano riuscire a posticipare l’appuntamento con la stagione della libertà e purificazione ma anche della povertà. Il processo è inesorabile ed è stato avviato dalla fine del temporalismo, dal recupero della profezia, dal vento nuovo del Concilio. Il cristianesimo non è né una cultura né una civiltà, tanto meno una ideologia. Il cristianesimo è universale, è la sequela del Dio trascendente, del Dio Amore rivelato agli uomini attraverso la sua Parola, il suo Logos crocifisso e risorto. Appartiene a tutti, è padre di tutti, non è confini geopolitici, non è una identità.

L’espressione più alta di identità cristiana – che altro non è che la capacità d’amare – non è forse quella testimoniata da mons. Romero o dai sette benedettini e dal vescovo di Orange Pierre Claverie assassinati in Algeria?

Condivido profondamente quanto ha scritto a conclusione del suo bel libro di meditazioni pasquali sulle Sette ultime parole di Gesù in Croce (in italiano per le Edizioni San Paolo) Timothy Radcliffe, che è stato maestro generale dei domenicani dal 1992 al 2001. “Cristo crocifisso sulla Croce non è un nostro possesso ma è tutta l’umanità crocifissa”, senza distinzioni di confessione religiosa, di cultura, di appartenenza etica, geopolitica, storica…Dunque la Croce, simbolo dell’accoglienza e non distintivo o arma identitaria e non solo per dividere buoni e cattivi, non può essere innalzata come vessillo, come bandiera: è presente “per tutti gli uomini che soffrono, poiché non appartiene a nessuna causa umana”, dice l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams. E proprio come scrisse monsignor Pierre Claverie prima di essere assassinato, “Gesù morì sospeso tra cielo e terra, con le braccia allargate per riunire i figli di Dio dispersi dal peccato che li separa, li isola e che li pone l’uno contro l’altro e contro Dio stesso. Si collocò sulle linee di separazione sorte da questo peccato”.

Ecco il Concilio, grande graduale paziente ma inesorabile ritorno al futuro, al primato del Regno, agli stili di vita degli Atti degli Apostoli e delle prime comunità cristiane, ci fa riscoprire ogni giorno questa linea di confine, queste linee di separazione, che dobbiamo cercare di colmare e cancellare. E tuttavia per fare questo, come il Cristo Parola Crocifissa, anche noi dobbiamo metterci con le nostre tende su questa frontiera. Il Concilio ci ha permesso di riscoprire la spiritualità dell’esodo, la dinamica del provvisorio, una quotidiana tensione escatologica, una libertà di figli di Dio per i quali ogni confine è il frutto del peccato, della finitezza incompiuta della condizione umana. Perché Cristo e la sua Croce, e così dovrebbero essere spiritualmente i suoi discepoli, sono vita per abbattere i confini: scandalo per i gentili e per i pagani, per identitari, fondamentalisti e perbenisti, simbolo e luogo universale di accoglienza, di liberazione, provvisorio permesso di soggiorno per tutti gli uomini in tutte le terre, in vista della città futura.

Il cristianesimo, nel senso teologico ripetuto da Enzo Bianchi e da Joseph Moingt nel suo bel contributo nel libro affascinante e divulgativo ma colto e intenso La plus belle histoire de Dieu (gli altri due contributi sono di Jean Bottero, già titolare di assiologia alla scuola di Alti studi, e il rabbino e filosofo Marc-Alain Ouaknin Parigi 1997) non è neppure una religione. E’ la liberazione dalla morte, dunque dalle prigionie del limite, della finitezza, per essere redenti dalla condizione finita cioè umana e liberati nella condizione infinita cioè divino-umana. Ecco perché cercare anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia non è compito di preti o consacrati ma vocazione universale di tutto il popolo di Dio a cominciare dai laici.

“Fino all’epoca contemporanea, la chiesa non ha dovuto preoccuparsi più di tanto d’annunciare Dio o l’Esistenza di Dio. Ha sempre vissuto, infatti, in società nelle quali si credeva in Dio, qualunque fosse, E la Chiesa, almeno in parte, si è allineata sulla concezione che questi mondi avevano di Dio. Oggi è radicalmente diverso: molti uomini non credono più in Dio, e la situazione obbliga a ripensare quello che è stato detto”, come cioè è stato presentato Dio. Obbliga alla fatica di pensare, di dire, di annunciare Dio, in modo nuovo e di testimoniarlo con comunità e forme nuove. Insomma il nostro tempo, questo tempo nel quale ci è dato vivere e che Dio ha scelto perché noi lo animassimo, e che in nessun modo possiamo maledire, che non è migliore o peggiore di altri, è semplicemente il nostro tempo, la nostra ora, ci propone e ci impone questa sfida.

Commenti disabilitati su Senza il Concilio forse non sarei neppure cattolico

Agenda Digitale trasformerà il Paese

postato il 11 Ottobre 2012

di Giuseppe Portonera

Su questo blog abbiamo ripetuto più e più volte che Agenda Digitale è la tra le più importanti pietre miliari da posare, per costruire un Paese più efficiente, rapido e moderno (abbiamo anche cercato di spiegare perché un kilometro di banda larga è preferibile a un kilometro di autostrada). Una rivoluzione digitale, infatti, sarebbe portatrice di nuovi shock positivi per l’economia, favorirebbe una maggiore inclusione sociale, garantirebbe un livello più alto di trasparenza e controllo. I nostri rappresentanti in Parlamento hanno sempre operato in questa direzione, cercando di rilanciare un’opera di mediazione e collaborazione tra le varie forze politiche, nel tentativo di varare il prima possibile un provvedimento per Agenda Digitale. Il Governo attuale, dopo qualche tentennamento di troppo, ha finalmente deciso di compiere un primo, importante passo in avanti, varando la sua Agenda Digitale. Da ciò che è filtrato (siamo ancora in attesa di leggere il testo del decreto), si tratterebbe di un documento molto interessante, ricco di proposte e progetti accattivanti, che potrà sicuramente essere migliorato al momento della sua conversione in legge, ma che rappresenta – prima di tutto – una vittoria “culturale”, perché denota un cambio di mentalità: finalmente, in mezzo a tante manovre emergenziali per affrontare la crisi (principalmente tasse e tagli) si sceglie di varare un provvedimento del genere, che molto può fare sul versante della crescita.

Il Premier Mario Monti, presentando venerdì scorso il pacchetto, aveva giustamente sottolineato che «Agenda Digitale è un modo per trasformare il Paese», attraverso la circolazione del sapere, la condivisione delle informazioni, la connettività, i servizi digitali al cittadino, che sono «le basi per recuperare il gap tecnologico paese». Le norme, quindi, «puntano in modo ambizioso a fare del nostro Paese un luogo nel quale l’innovazione sia un fattore di crescita sostenibile e produttività delle imprese». Non è un caso se qualcuno ha ribattezzato questo provvedimento come “TrasformaItalia”, e anche gli esperti del settore (come l’ex direttore di Wired, Riccardo Luna) si sono espressi favorevolmente. L’Agenda Digitale del Governo recepisce molti dei suggerimenti e delle intuizioni che noi avevamo avuto nei mesi precedenti: il capitolo sulle Start Up sembra ben fatto, dalla definizione dei caratteri di “impresa innovativa” (sostenere spese in ricerca e sviluppo in misura pari o superiore al 30 per cento del maggiore tra il costo e il valore della produzione; impiegare personale altamente qualificato per almeno un terzo della propria forza lavoro; essere titolare o licenziataria di una privativa industriale connessa alla propria attività) alle misure da attuare in caso di loro fallimento (dato l’alto rischio imprenditoriale, si congelerebbe solo la parte di patrimonio necessaria a ripagare i creditori, senza gravare ulteriormente sulle disponibilità personali dell’imprenditore). Ben congegnate sono anche le novità elaborate su Sanità Elettronica e Giustizia Digitale: vengono introdotti l’Unico Documento Elettronico – che unificherà carta d’identità e codice fiscale – e il fascicolo sanitario elettronico, e accelerate le procedure per prescrivere farmaci via telematica (con risparmi consistenti sui tempi burocratici); mentre tutte le comunicazioni di cancelleria, in tribunale, dovranno avvenire per via telematica all’indirizzo di posta certificata. Viene poi normato, per la prima volta, il crowdfunding, un sistema di raccolta di denaro “dal basso” che sarà regolato e monitorato, e che amplificherà quindi tutele e diritti di chi oggi semplicemente si affidava alla propria buona fede e alla voglia di “donare” risorse.

Certo, lo dicevamo su, il testo del Governo potrà e dovrà essere integrato, migliorato. Alcuni suggerimenti: innanzitutto, deve essere prevista una tassazione agevolata per il commercio dei cosiddetti beni digitali (l’Udc aveva proposto di fissare l’IVA al 4%). Poi – visto che il Ministro dell’Innovazione digitale è lo stesso che ha le deleghe all’Istruzione e alla Ricerca – bisogna programmare una riforma dell’insegnamento dell’informatica nelle nostre scuole (abbiamo bisogno di creare tecnici e professionisti digitali). Infine, come fatto rilevare anche dalla FNSI, si fa sentire la mancanza di una norma che introduca nell’ordinamento italiano i principi di trasparenza del Freedom Of Information Act (FOIA), che permette a ogni cittadino (non soltanto a chi abbia un interesse diretto e personale nella materia) di avere accesso ai dati sull’attività pubblica di ogni tipo e livello. Confidiamo dunque nel Parlamento, che ha già dimostrato grande sensibilità sul tema: Agenda Digitale può davvero trasformare il Paese. Non buttiamo via un’occasione come questa.

Commenti disabilitati su Agenda Digitale trasformerà il Paese

Casini: bene taglio Irpef, ora detassare famiglie

postato il 10 Ottobre 2012

Su federalismo unici a dire no, ripensare Titolo V


Siamo soddisfatti per il taglio delle aliquote Irpef per i redditi più bassi e ci piacerebbe che il taglio delle tasse fosse modulato intorno al numero dei componenti della famiglia: il segnale arrivato dal governo deve essere coniugato con la difesa delle famiglie, molte delle quali stanno scivolando verso la povertà. E’ possibile farlo e noi presenteremo proposte in Parlamento. [Continua a leggere]

30 Commenti

La lezione di Simone Weil per ripensare il futuro dei partiti e della politica

postato il 10 Ottobre 2012

di Giuseppe Portonera

“Crisi”, che è diventato il termine caratterizzante del tempo in cui viviamo, ha una chiara valenza negativa: eppure, la sua etimologia ci fa risalire al verbo greco “krino”, che vuol dire “scegliere”; la “crisi”, quindi, è prima di tutto una “scelta”, che in un dato momento storico si è chiamati a compiere. È nei momenti di “crisi”, infatti, che bisogna “scegliere” cosa salvare e cosa buttare, cosa rivoluzionare o cosa conservare: “krino” vuol dire anche “giudicare”. Vivendo noi in un tempo di crisi, dobbiamo essere pronti a compiere delle scelte, consapevoli che si tratta di costruire un mondo nuovo, perché questo non potrà più tornare ad essere quello in cui eravamo abituati a vivere.

 Sono scelte, certo, che non si possono prendere a cuor leggero, ma che vanno meditate e progettate con cura. Un’occasione di confronto e riflessione è stata offerta lunedì scorso dal Centro Studi Cammarata e dall’Associazione Alcide De Gasperi, che hanno organizzato un dibattito sulla crisi dei partiti, sul superamento della partitocrazia e sulla nascita di nuove forme di partecipazione politica, a partire dalla recente ripubblicazione del “Manifesto per la soppressione dei partiti politici” (Castelvecchi Ed.), opera della filosofa francese Simone Weil. L’incontro è stato organizzato per commemorare il sesto anniversario della scomparsa di mons. Caltaldo Naro, che fu fondatore e direttore per 19 anni del Centro Studi Cammarata, oltre che storico del movimento cattolico tra Otto e Novecento e attento studioso di scienza politica. Relatori erano l’on. Savino Pezzotta (deputato Udc e Presidente della Costituente di Centro), Gianni Notari (gesuita, professore della Facoltà Teologica di Sicilia) e Paolo Liguori (direttore TgCom). I tre si sono confrontati a lungo proprio sull’evidente crisi, di credibilità e progettualità, che ha investito i nostri partiti, e di conseguenza la nostra politica: possibile che avesse davvero ragione la Weil, e che i partiti siano «un male allo stato puro, o quasi?». Le tesi erano diverse, anche se partivano da una comune diagnosi: gli scandali, le polemiche, le rivelazioni degli ultimi giorni che ci vengono dal Lazio, come dal Piemonte, dalla Lombardia o dalla Sicilia, sono la prova – definitiva, certificata – che qualcosa si è rotto. Non si può più parlare solo di “mele marce”: questi non sono più casi isolati, è il contenitore ad essere marcito, ad essere stato infettato e divorato dal malcostume e dalla cattiva politica. I partiti sono quei contenitori: e si deve partire proprio dal curarli, se si vuole frenare l’espansione di questo male letale. Cosa si può fare, dunque? Si deve procedere, prima di tutto, a una seria opera di riforma del concetto stesso di “partito”, mettendo da parte la concezione otto-novecentesca a cui siamo stati abituati e aprendoci invece a nuove forme di impegno politico: perché, come ci insegna anche la lettura del “Manifesto” di Weil, i “partiti” e la “Politica” non sono sinonimi e se pure si può provare a fare a meno dei primi, certo non ci si potrà mai disfare della seconda. Bisogna poi riappropriarsi (come sottolineato da Notari) del senso etico del fare politica: chi sceglie di occuparsi del bene della comunità (unico vero fine dell’uomo politico, sosteneva Weil) deve essere onesto e giusto, non sono accettabili compromessi di sorta. È necessario, poi, recuperare il senso delle istituzioni: per dirla con Pezzotta, i partiti sono un “male” quando tendono a diventare il “tutto”, a espandersi oltre i propri confini, dimenticando il valore di “essere una parte”. Se si correggeranno queste gravissime storture, allora sì che i partiti (o qualsiasi cosa prenderà il loro posto) potranno tornare ad essere il cuore della democrazia, di quel sistema politico, cioè, che ci permette di scegliere come nostri rappresentanti uomini e donne tra i migliori. Se così non dovesse essere, se si continuerà a guardare a questa crisi solo come a una congiuntura momentanea, il risultato non potrà che essere la morte dei partiti (come paventato da Liguori): del resto, André Breton, che firmò la prefazione del volume della Weil, sosteneva che la “soppressione”, o peggio la “messa al bando”, dei partiti sarebbe avvenuta dopo un lungo sforzo di “disinganno collettivo” del popolo. E a guardare le ultime stime elettorali, con il dato degli astenuti e degli incerti in perenne aumento, direi che non siamo molto lontani da una situazione del genere.

Il dibattito è stato foriero di numerosi spunti di riflessione prontamente recepiti, come hanno dimostrato gli interessanti interventi dal pubblico: hanno chiesto e ottenuto la parola esponenti di diverse forze politiche, giovani impegnati, rappresentanti del mondo imprenditoriale locale, operatori nel campo della formazione all’impegno socio-politico. Ciascuno di loro aveva ricette e soluzioni diverse, ma tutte unite da una condivisa sensibilità politica. Che della Politica, intesa come attività sociale e umana, non si possa proprio fare a meno è quindi la prima “scelta” che questo tempo di “crisi” ci impone di compiere. Altre scelte saranno prese, e molte di queste riguarderanno certamente il futuro dei partiti. È a questo proposito che proprio la lettura di Weil ci offre un suggerimento fondamentale: quando e se si tratterà di riformare o rifondare i partiti, bisognerà stare attenti a non dare vita (nuovamente) a «organismi costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della giustizia e della verità», pena la reiterazione di uno stato di crisi da cui, allora, sarà davvero impossibile venire fuori.

Commenti disabilitati su La lezione di Simone Weil per ripensare il futuro dei partiti e della politica


Twitter


Connect

Facebook Fans

Hai già cliccato su “Mi piace”?

Instagram