Riforma del lavoro, facciamo vincere i figli
postato il 19 Dicembre 2011“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera
Ieri, il Ministro del Lavoro e del Welfare, Elsa Fornero, ha rilasciato una lunga intervista a Enrico Marro del Corriere della Sera, in cui ha rilanciato una delle priorità del governo Monti: la riforma del mercato del lavoro, da approntare da gennaio in poi, e che rappresenti il trait d’union con la riforma del sistema previdenziale, al fine di ridurre gli squilibri tra le nuove e le vecchie generazioni. La Fornero ha ricordato che «sono abbastanza anziana per ricordare quello che disse una volta il leader della Cgil, Luciano Lama: “Non voglio vincere contro mia figlia”. Noi, purtroppo, in un certo senso abbiamo vinto contro i nostri figli. Ora non voglio dire che ci sia una ricetta unica precostituita, ma anche che non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte». Da parte nostra non abbiamo mai mancato di elogiare quello che consideriamo un tratto caratterizzante delle proposte del Ministro e cioè il volgere lo sguardo al futuro, il voler riformare non per aggiustare momentaneamente una brutta situazione, ma per disegnare scenari completamente nuovi e sicuramente più sostenibili. Per farlo, quindi, è necessario mettere da parte ogni preconcetto e superare ogni pregiudizio: non si può pensare di affrontare con serietà un tema del genere, se le varie parti in causa cominciano ad erigere totem o barriere varie. L’articolo 18, per dire, che rappresenta una tutela importante per le azienda con oltre 15 dipendenti, è ormai largamente insufficiente per rispondere all’esigenze del momento e non si può pensare, quindi, di agitarlo come discrimine per ogni tipo di riforma (del resto, come ha anche ricordato Casini, “è inaccettabile che la messa in discussione di quest’articolo, che è perfettibile, sia di per sé motivo di scontro”).
Sempre nell’intervista di ieri, il Ministro Fornero ha confermato il proprio personale orientamento al sostegno del cosiddetto “pacchetto Ichino” (o a quello “Boeri-Garibaldi”), a quelle proposte – cioè – elaborate dal giuslavorista Pietro Ichino, senatore democratico, ispirate alla flexsecurity danese, che fino a poco tempo fa erano rimaste confinate in una specie di ghettizzazione forzata all’interno del PD, ma che adesso hanno trovato molti sostenitori (in primis proprio noi del Terzo Polo, in discussione alla Camera c’è una proposta targata Dalla Vedova-Raisi molto interessante) e una posizione centrale nella piattaforma programmatica del Governo. In sostanza, una riforma che va in questa direzione dovrebbe riuscire a fermare la polverizzazione dei contratti, ad introdurre un contratto unico (con maggiore flessibilità, non solo in uscita ma anche in entrata) e un sistema universale di unemployment benefit e aprire a politiche attive maggiormente efficaci. Il tutto per cercare di superare il vero vulnus del nostro mercato occupazionale, che non consiste tanto nella contrapposizione tra chi lavora e chi no, ma tra i garantiti e i non garantiti, tra chi ormai è fin troppo tutelato e chi invece è totalmente privo di paracadute in caso di disoccupazione. La flexsecurity non potrà certo essere la soluzione a tutti i mali, ma – come dimostra uno studio del Ceps – rappresenterebbe un’occasione di incremento dell’occupazione, di cui beneficerebbero in misura maggiore giovani, donne e lavoratori maturi: secondo queste stime, un aumento del 10% dell’indicatore di flexsecurity in Europa, garantirebbe un incremento medio stimato del 3% del tasso di occupazione giovanile, del 2,5% di quello femminile e del 2% di quello dei lavoratori anziani (al top del ranking europeo c’è la Danimarca, mentre gli ultimi due posti sono occupati, guarda caso, da Italia e Grecia). Una riforma in tal senso, che si applicherebbe solo ai rapporti lavorativi che si costituiranno solo d’ora in avanti, garantirebbe a tutti i nuovi lavoratori contratti a tempo indeterminato, con tutte le protezioni essenziali, ma senza l’inamovibilità; e a chi perde il posto di lavoro, un robusto sostegno economico e investimento sulla sua professionalità, in funzione della rioccupazione più rapida possibile.
Ecco, in sostanza, il perché del nostro sostegno al progetto della flexsecurity. Perché siamo stanchi di avere lavoratori di serie A e lavoratori di serie B e perché – al contrario, evidentemente, di altri – non possiamo sopportare l’idea di veder vincere le ragioni del passato su quelle del presente (e del futuro).