Tutti i post della categoria: Lavoro e imprese

Disoccupazione e dintorni: osservazioni e proposte

postato il 19 Aprile 2011

La disoccupazione è solo il risultato di una difficile congiuntura economica e sociale, oppure si possono individuare anche delle “colpe personali”? C’è chi è disoccupato perché la crisi ha creato un vuoto in alcuni settori dell’economia ma c’è anche chi è disoccupato per colpa propria. In molti quando hanno cominciato il percorso formativo hanno scelto la via più semplice e lo hanno fatto senza nemmeno leggere gli annunci di lavoro, senza la minima coscienza di quali fossero le figure professionali più ricercate pretendendo però di trovare lavoro con il pezzo di carta che hanno ottenuto. Si tratta di irresponsabilità pura, scaricata sul sistema politico e formativo.

Ma al di là delle colpe personali occorre riflettere seriamente sul sistema della formazione: università, scuola e formazione professionale hanno delle carenze notevoli, e molto spesso quando si esce da quelle esperienze non si è pronti. Un imprenditore che volesse assumere si trova in molti casi  a dover formare al lavoro in neoassunto per mesi o anni con costi assurdi. È chiaro che c’è qualcosa che non va.

Nel mondo del lavoro poi, imprenditori e lavoratori devono avere il coraggio di aggiornarsi. Dieci fa non esistevano Apple e il suo I-phone, Google, Facebook e il resto della “moderna” new economy. Oggi, ragazzini di 12 o 13 anni programmano per questi colossi internazionali creando delle loro micro imprese, il loro lavoro è produttivo e navigano in un mercato che raggiungerà quest’anno 35mld di dollari. Quanti ingegneri elettronici, informatici, periti e figure simili percorrono questa strada? Hanno questi il coraggio di rischiare o si aspettano che la STM di turno faccia un’infornata di assunzioni?

Altra piccola osservazione: quel “lavorano tutti” del ministro Tremonti sugli immigrati voleva semplicemente indicare che questi si adattano meglio e più in fretta dei nostri giovani alle esigenze del mercato. Non si vuole paragonare un immigrato non in possesso di titolo di studio riconosciuto con un qualsiasi laureato italiano, però bisogna anche dirsi alcune “verità”: oggi non c’è modo di assorbire quella massa di competenze acquisite nei nostri atenei, ma restano accessibili i posti come banconista al supermercato. Così essendo inutile il titolo per accedervi, il datore di lavoro guarderà alla puntualità e alla serietà del lavoratore. In questo caso il migrante si adatterà senza pretese, mentre il giovane italiano, con laurea in comunicazione e tante aspirazioni non lo farà.

Ma oltre le osservazioni ci sono anche delle vie da percorrere? Chi è già nel mondo del lavoro, a breve, dovrà adattarsi a tutto, mentre nel lungo periodo dovrà pensare a modi di riqualificazione. La politica deve concordare con le parti interessate e fare le riforme necessarie a garantire una migliore vivibilità delle aziende nel sistema economico internazionale e deve incentivare la loro crescita ed il loro sviluppo.

Chi ancora è in fase di formazione o la deve iniziare deve avere il coraggio di scegliere  percorsi difficili e scomodi ma di “sicura” occupabilità all’università o nella formazione specialistica tecnica: aiuterà a lavorare con continuità e a soffrire meno nelle fasi di recessione.

Chi ha un titolo di eccellenza, lo dico a malincuore, deve andare dove può esprimersi. Tocca all’Italia non farvi scappare.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Carmelo Cutrufello

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La diversità, vera ricchezza delle donne

postato il 2 Aprile 2011

“Non rinunciate a nulla, neppure a una briciola della vostra identità femminile, del vostro amore per i bambini, della vostra cura per i malati, della vostra gentilezza, del vostro dominio su voi stesse, della vostra fedeltà alla coscienza e al senso del dovere, perché la politica ha un enorme bisogno di tutte queste cose”.
Nel leggere queste parole di Millicent Garrett Fawcett mi stupisco di quanto queste parole siano attuali. Eppure sono state scritte nel 1894 da una suffragetta, ai tempi in cui le donne non avevano neppure il diritto di voto. Da quel tempo molte cose sono cambiate, e adesso le donne possono finalmente dire di aver raggiunto una piena parità di diritti nel lavoro e nella politica. Ma ne siamo davvero sicuri? E soprattutto, a quale prezzo?
Di sicuro oggi una donna può studiare in qualsiasi campo, può aspirare ad una ottima carriera lavorativa, può impegnarsi in politica, può addirittura fare il soldato. Ma allora come mai ancora troppe donne occupano i vertici delle aziende o ricoprono importanti incarichi pubblici, nonostante le statistiche indichino che le donne a scuola e all’università conseguono risultati migliori degli uomini?
Credo che la risposta sia da ricercare nella frase che ho ricordato. Noi donne abbiamo lottato e ottenuto di poterci affermare nel lavoro e nella politica, ma credo che nel farlo abbiamo dimenticato chi siamo realmente. Ci siamo trasformate in quegli “uomini mancati” di cui parlava Rousseau quando diceva: «educate le donne come gli uomini e quanto più rassomiglieranno al nostro sesso, tanto minore sarà il potere che avranno su di noi». Se ci pensate, noi facciamo tutto quello che fanno gli uomini, abbiamo gli stessi orari di lavoro, perseguiamo gli stessi obiettivi e manteniamo gli stessi ritmi. Con la colossale differenza che noi, a differenza loro, torniamo a casa la sera tardi, stremate, col pensiero di: frigo da riempire, bambini da andare a ritirare (manco fossero pacchi postali!), cena da preparare, camicie da stirare (poche di noi hanno chi gliele stira), casa da rendere presentabile (pulire è una parola grossa!), genitori anziani di cui quantomeno interessarsi, compiti dei bambini da controllare… E la lista potrebbe essere infinita. Ovvio che, con questi ritmi, poche riescono ad affermarsi e sempre troppe devono scegliere fra carriera e famiglia. Una volta laureate, passiamo un’eternità fra un contratto a progetto e l’altro, senza diritti, pagate con stipendi da fame; comprare casa è un’utopia, fare un figlio poi, ma siete matti? Con la lettera di dimissione in bianco firmata da noi e pronta all’uso nel cassetto del capo? E anche chi ha avuto la fortuna di non arrivare a questi eccessi (tutt’altro che rari), credete che una volta incominciata la gravidanza si vedrà rinnovato il contratto? E quelle mosche bianche che hanno un contratto a tempo indeterminato, come faranno a produrre quanto o più di prima, con quel che costano gli asili nido (quelli aziendali sono molto spesso un’utopia e in quelli comunali non c’è mai posto) e con tutti gli imprevisti che possono portare una mamma ad allontanarsi da lavoro? Ci sforziamo di ricoprire un ruolo che non è tagliato sulla nostra pelle, quello della macchina da lavoro che non guarda il cuore dei propri dipendenti o le sue esigenze, ma che pretende produttività, quasi fossero macchine inanimate, e che fino a sera tardi resta in ufficio perché quella è la sua unica preoccupazione. Ma noi siamo questo? Io dico di no. Le donne in politica finora non ci aiutano molto: se qualcuna solleva il problema delle lavoratrici madri, portando in parlamento la sua neonata, da un’altra ci si sente addirittura dire che quei tre mesi in cui ci viene concesso di costruire un rapporto con nostro figlio appena nato (e qualunque mamma sa che tre mesi non sono nulla) sono un privilegio e che una donna deve saper fare dei sacrifici (come se non ne facessimo abbastanza…)
E perché tutto questo? Perché le nostre madri, che per i nostri diritti hanno lottato, ci hanno insegnato la contrapposizione con gli uomini, ai quali dovevamo dimostrare a tutti i costi di essere migliori di loro; ci hanno fatto credere che la parità fosse essere uguali agli uomini, fare tutto ciò che prima facevano gli uomini, nello stesso modo. Ma noi non siamo uguali e neppure migliori o peggiori, noi siamo diverse. Non siamo uomini, siamo donne.
A questa affermazione di Rousseau Mary Wollstonecraft rispondeva : “io non mi auguro che (le donne) abbiano potere sugli uomini, ma su se stesse.” La natura ci ha creato differenti dagli uomini e questa differenza la urla il nostro corpo innanzitutto, ma anche la nostra anima. Noi siamo fatte di sentimenti, di gentilezze, di maternità, di comprensione che non ha bisogno di parole. La maternità, vissuta o potenziale, è scritta nel nostro Dna, e allora perché ce ne siamo dimenticate? Perché non ci ribelliamo a un sistema che vuole che ci si vergogni di voler crescere i propri figli ma non per questo rinunciare alla realizzazione lavorativa? Perché le donne che ci hanno preceduto si sono battute per l’aborto e per il divorzio ma non si sono battute in una società dove hai il tempo per la condivisione con tuo marito e dove una gravidanza non viene accolta con angoscia? Perché le donne che ci rappresentano oggi non costruiscono un mondo dove le donne riescono a essere presenti nella vita dei propri figli senza rischiare il posto di lavoro?
Noi siamo diverse, e dobbiamo con tutte le nostre forze far si che il nostro essere donne debba costituire un punto di forza per la società, e non un impiccio contro la produttività. A chi dice il contrario, ricordo che i nostri figli che crescono senza dei genitori per quasi tutto il giorno, e quindi senza regole e senza l’amore e il punto di riferimento che solo i genitori sanno dare, saranno i cittadini di domani; un paese che non cresce, perché le donne non ce la fanno a mettere al mondo dei figli, è un paese destinato a morire.
Se noi donne non smettiamo di demandare agli uomini la tutela delle nostre esigenze e non iniziamo noi a costruire un mondo che tenga conto della nostro essere, ne gioverà negativamente tutta la società. La politica e l’Italia in generale ha bisogno di donne vere, che vivano il proprio essere donna come una ricchezza da tutelare e valorizzare per il bene di tutti.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Maria Pina Cuccaru

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Parmalat, il silenzio assordante del governo

postato il 4 Marzo 2011

Se non fosse per il Decreto Milleproroghe, che contiene di tutto e di più, si può affermare che il Governo si è dimenticato dell’economia.

In questi giorni, c’è l’aumento dei carburanti, ma il governo non prende alcun provvedimento, tanto paga il cittadino. In questi giorni si discute dei futuri assetti di Parmalat, azienda “gioiello” del settore alimentare italiano, e il governo glissa, dopo avere preso un provvedimento che rischia solo di peggiorare la situazione.

Ma andiamo con ordine.

Dopo che Parmalat è stata “graziata” dalla legge Marzano, è rinata con una proprietà azionaria polverizzata. Nel frattempo è stato messo a capo di Parmalat Bondi, il quale ha adottato una strategia molto prudente, che inizialmente poteva pure andar bene, ora non più. Teniamo presente che Parmalat non ha debiti, produce utili e ha 1,4 miliardi di euro di liquidità che provengono dalle cause risarcitorie che ha vinto. Per statuto, può distribuire come dividendi ai soci solo il 50% degli utili annuali.

Indubbiamente la gestione Bondi produce utili, ma con l’enorme cassa detenuta, la società, secondo gli analisti e gli azionisti, potrebbe intraprendere una strategia di crescita con acquisizioni o distribuire un dividendo più alto.

Proprio per questo motivo, tre fondi di investimento esteri (Skagen, Zenit, e Mackenzie) hanno rastrellato il 15% della società e vogliono proporre una lista alternativa all’attuale Consiglio di Amministrazione, in pratica eliminando Bondi, affinchè l’enorme liquidità di cui sopra venga distribuita con un dividendo straordinario, o serva per fare delle acquisizioni.

Il governo, volendo difendere a tutti i costi Bondi, è intervenuto: prima sondando i fondi e cercando un accordo con loro per mantenere gli attuali vertici societari, poi, visto che non ha avuto risultati, inserendo nel decreto milleproroghe una norma che blocca le modifiche dello statuto di Parmalat fino alla scadenza del concordato (che avverrà nel 2020).

I fondi di investimento non hanno desistito e hanno continuato a formare una “lista” per sostituire l’attuale dirigenza di Parmalat.

A questo punto, il governo si è defilato e le banche hanno provato a cercare dei “cavalieri bianchi”, ovvero degli acquirenti che possano difendere Bondi e la italianità di Parmalat.

E arriviamo alle notizie di questi giorni: Luca Cordero di Montezemolo con il suo fondo Charme sarebbe interessato all’acquisizione, ma solo se entrano altri fondi di investimenti, anche perché, servirebbe almeno 1 milairdo di euro per il 30% della Parmalat (fatti salvi ulteriori obblighi di Opa e quindi altri esborsi di denaro), e il fondo Charme non li ha a causa di perdite pregresse. Le necessità del fondo Charme sarebbero risolte se nella cordata entrassero altri imprenditori e soprattutto Banca Intesa, che preme per fare fondere Parmalat e Granarolo (di cui la banca detiene il 15%), ma quest’ultimo punto, se da un lato favorirebbe Banca Intesa, dall’altro mancherebbe di senso a livello industriale: le due società non sono complementari, operano negli stessi mercati, e dovrebbero, anzi, cedere pezzi dei loro business in Italia a causa dell’antitrust. Quindi una operazione finanziariamente conveniente per i big (non per i piccoli azionisti), ma dalle scarse prospettive industriali. In ogni caso al momento, anche per i tempi risicati (le liste per sostituire il cda devono pervenire entro il 18 marzo), la cordata italiana sembra molto difficile da realizzare.

Nel frattempo è scesa in campo anche una grossissima società brasiliana per acquistare Parmalat, la Lacteos do Brasil, la quale metterebbe a capo della Parmalat, il manager gerardo Bragiotti, e sostiene che manterrebbe due sedi centrali: una in Brasile e una in Italia.

C’è da chiedersi: per quanto tempo manterrebbe queste due sedi centrali? E chi avrebbe realmente il controllo?

Su tutto questo il governo tace. Ma il rischio è che chi compra Parmalat poi assorba la liquidità per i suoi scopi e non certo per il benessere di tutti gli azionisti, ottenendo in tal modo di comprare Parmalat usando gli stessi soldi dell’azienda (tecnica nota come “leveraged buy out”).

Come ho detto, il governo sembra essersi defilato, ma questo silenzio non è accettabile se consideriamo che parliamo di una azienda che fattura oltre 4 miliardi di euro l’anno e garantisce molti posti di lavoro in Italia.

Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Aggiornamento del 7 marzo 2011:

Come previsto, a causa dei tempi risicati, la cordata italiana difficilmente vedrà la luce, infatti il fondo Charme di Luca Cordero di Montezemolo ha deciso di rinunciare, anzi ha affermato in una nota “di non avere allo studio, e di non essere in alcun modo coinvolto, in alcuna ipotesi relativa alla creazione di cordate per acquisire quote di tale società”.

A questo punto restano due contendenti a fronteggiarsi (senza considerare Bondi che ha fatto sapere di non volere schierare una sua lista, ma lasciare la decisione sul suo futuro agli azionisti): i fondi stranieri Zamechi, Mackanzie, Zenit (a cui sembra che si sia aggiunto il fondo Blackrock che detiene il 6% della società), e l’ipotesi prospettata da banca Leonardo di trovare una “combinazione” con la società brasiliana Lacteos do Brasil.

Si vocifera di manovre di Mediobanca e Banca Intesa, ma sembrano voci senza alcun fondamento e soprattutto, senza un piano industriale da proporre.

Fermo restando che le aziende devono essere libere di agire e che non spetta alla politica guidare le aziende, è anche vero che scopo della politica e del Governo è anche quello di disegnare il quadro normativo in cui le aziende si muovono, e soprattutto quello di vigilare nell’interesse di tutti: deigli azionisti (anche di minoranza), dei risparmiatori, dei consumatori e dei lavoratori.

A tal proposito, si continua a registrare la latitanza del Governo.

Aggiornamento dell’11 marzo 2011

Come ormai tutti sanno, Bondi, amministratore delegato di Parmalat, rischia di essere estromesso dalla società. La sua rispsota non è quella di presentare un piano industirale valido che convinca gli azionisti, ma semmai di cercare l’appoggio del governo che lo difenda, magari con qualche nuova interpretazione della legge Marzano.

Il punto per me non è l’italianità, che nel mondo gloablizzato odierno rischia di essere un concetto obsoleto, ma se una azienda ha un percorso di sviluppo. E questo dovrebbe anche essere l’interrogativo principale di un governo serio che abbia una politica economica degna.

Putroppo si registra l’ennesimo caso in cui il governo, se interverrà, lo farà solo tramite spot elettorali senza pensare realmente a cosa sia meglio per i lavoratori e gli azionisti di una azienda.

E su quest’utimo punto credo che sia doveroso affermare che non è vero che gli interessi degli azionsiti e dei lavoratori sono divergenti, ma anzi sono coincidenti, perchè una azienda che si sviluppa, porta lavoro per i lavoratori, e porta valore per gli azionisti.

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Il governo è occupato solo a difendere Berlusconi

postato il 22 Gennaio 2011

Il vero scandalo che c’è è che abbiamo un Governo mobilitato a 360 gradi per difendere Berlusconi dai suoi ‘bunga bunga’ mentre il Paese va a rotoli. Gli uomini del Governo e del Pdl sono tutti impegnati nei talk-show per spiegare come erano le serate del bunga bunga e le bugie dei magistrati.
Il Governo non c’è, non si stanno occupando dei problemi del Paese mentre cresce la disoccupazione, i giovani non hanno prospettive, le imprese chiudono. Quando gli italiani capiranno – come credo che stiano capendo- che serve un governo che risolva i problemi del Paese, capiranno il fallimento di questa stagione.

Pier Ferdinando

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100% Made in Italy, il fattore umano dell’impresa, il federalismo: la parola a Confartigianato

postato il 21 Gennaio 2011

La redazione del blog pierferdinandocasini.it intervista quest’oggi il Presidente Nazionale del gruppo Alimentari Vari di Confartigianato, dott. Mauro Cornioli che ringraziamo per la disponibilità.

Il suo settore come sta vivendo la crisi internazionale di questi anni?

Nonostante la crisi finanziaria, posso affermare che il settore alimentare si sta comportando molto bene. Consideri inoltre che la piccola impresa si difende meglio perché realizza un prodotto tipico di una determinata zona, che da un lato non è facilmente omologabile o replicabile altrove, e dall’altro si presta bene anche ad essere esportato quando è un prodotto di qualità.

D’altro canto mi sembra che, nello specifico della sua azienda, il settore erboristico ha vissuto con la globalizzazione e l’import-export con i paesi orientali come ad esempio la Cina, e quindi siete “abituati” a confrontarvi con il Mondo.

Indubbiamente si. Basti pensare a Marco Polo e alla “via della seta” con la Cina su cui transitavano anche spezie e piante officinali. Si importavano prodotti 500 anni fa dalla Cina, si importava dalla Cina 100 anni fa, si continua ad importare dalla Cina anche adesso.

Oggi però vi sono stati alcuni cambiamenti: alcuni prodotti che venivano importati dalla Cina, ad esempio, ora sono importati dall’Est Europa, e certe merci importate dall’Est Europa sono di nuovo prodotte in Italia e poi esportate. Ma questo non è l’unico mutamento.

Un cambiamento molto importante, e che premia l’economia italiana, proviene dal rialzo del costo della manodopera cinese a seguito della crescita di questo paese e il risultato è una crescente difficoltà per i cinesi nei settori dove è preponderante appunto il costo della manodopera.

In molti si lamentano della scarsa capacità competitiva dell’Italia, per migliorare questa situazione, lei cosa farebbe?

E’ importante ripristinare la verità rispetto alla confusione che impera attualmente. Per fare un esempio: una etichettatura trasparente sarebbe molto importante. Ci sono le intenzioni, ma poi queste ultime non si traducono in fatti. La legge Reguzzoni – Versace sul Made in Italy che fine ha fatto? E’ una vergogna che la legge, anche se approvata, sia sparita perchè i decreti attuativi non sono stati fatti. Come vede ci sono buoni slanci, ma poi ci si ferma. E questo non è possibile

Lei cosa suggerisce a tal proposito?

Non mettiamo i dazi, ma trovo che sia una vergogna che i paesi del Nord Europa dicano che l’Italia, paese con una grande tradizione manifatturiera ed estremamente competitivo in termini di manualità, di idee e di inventiva, non possa proteggere il Made in Italy. Il consumatore deve essere informato e deve essere certo che contenuto ha quel prodotto, perché, se vuole un prodotto italiano, deve sapere come e dove è stato prodotto, come diceva le legge Reguzzoni – Versace.

Quindi mi sembra di capire che lei sostenga che la legge Reguzzoni – Versace avrebbe permesso di distinguere tra un prodotto etichettato Made In Italy, ma che di italiano ha solo il passaggio finale e che magari è prodotto altrove, ed un prodotto che è fatto interamente in Italia.

La legge Reguzzoni – Versace cosa diceva? Dava forza ad un nuovo marchio che era culturalmente forte e vincente, ovvero il marchio “100% made in Italy”, così il consumatore sapeva che il marchio “Made in Italy” poteva indicare anche un prodotto che in parte era fatto anche in Cina, mentre il marchio “100% Made In Italy” indicava un prodotto fatto interamente in Italia, tutti così sarebbero stati coscienti di quel che compravano. La piccola impresa che produce esclusivamente in Italia, sarebbe stata premiata.

A proposito di grandi imprese: in questi giorni vi è stato il “referendum” di Mirafiori. A mente fredda, lei che impressione ha avuto dell’intera vicenda?

In questo momento il sindacato deve svincolarsi dal difendere chi fa assenze ingiustificate o chi non comprende l’importanza di essere altamente produttivi. Ecco, se il sindacato continua questa difesa, allora sbaglia.

Ma sbaglia anche Marchionne, perchè non si possono buttare via 60 anni di relazioni in 5 minuti. La trattativa doveva essere gestita meglio e la vittoria è stata sofferta. Per altro nessuno ha parlato della cosa più grave che è successa, ovvero che la Fiat è uscita da Confindustria.

Scusi, potrebbe esplicitare meglio questo suo concetto su Confindustria e Fiat?

Io mi chiedo: cosa farà ora Confindustria senza la Fiat? E le altre imprese resteranno in Confindustria o anche loro se ne usciranno? Lo stile Fiat diventerà un modello per tutti ? Anche perchè bisogna vedere cosa decide di fare la Confindustria che è pur sempre uno dei maggiori sindacati datoriali, inteso come sindacato dei datori di lavoro. Bisogna vedere, infatti, se manterrà un concetto etico fondato sulle relazioni sindacali e il confrontro con lo Stato o se deciderà di raggiungere Fiat nelle sue scelte di rottura. Inoltre si apre un altro quesito molto importante: considerando che all’interno di Confindustria vi sono aziende a partecipazione statale (le ferrovie, Finmeccanica, Enel, Eni per citarne alcune), è giusto che lo Stato paghi Confindustria seppur attraverso il constributo associativo? O questo non genera un conflitto di interessi visto che, senza Fiat, cresce il peso dello Stato all’interno di Confindustria che a sua volta dovrebbe confrontarsi con il governo sui temi lavorativi? Ecco, queste sono domande importanti a cui bisognerebe dare risposta, ma che sembrano non trovare posto nel dibattito odierno.

Sostanzialmente lei afferma che vi è il rischio che in Confindustria restino solo le aziende a partecipazione statale o che quanto meno abbiano un peso preponderante; e considerando che queste stesse aziende pagano un grosso contributo associativo a Confindustria, si potrebbe prefigurare una sorta di conflitto di interessi, giusto?

Assolutamente si, anzi vi è anche una concorrenza sleale verso le altre associazioni datoriali, come Confartigianato, CNA, Confcommercio, e così via, che per essere più forti hanno dato vita a Rete Imprese per porsi come quarta gamba del tavolo nelle trattative. Però noi viviamo solo delle quote associative pagate dalle piccole imprese totalmente private, mentre Confindustria, come detto, ha anche questo contributo da parte delle aziende a partecipazione statale.

A proposito di Rete Impresa, Guerrini, il presidente dell’associazione, ha parlato del rischio che il federalismo fiscale porti nuove tasse alla piccola impresa. Lei che ne pensa?

Consideri che la fiscalità generale è rimasta elevata, e in più sono stati aggiunti in questi anni, tutta una serie di balzelli locali anche in ossequio a direttive europee, come quella per i controlli sui prodotti alimentari attuata dalle ASL ad esempio. E qui mi chiedo: il federalismo fiscale non è che porterà nuove tasse a livello comunale, provinciale, regionale? Tenga presente che il piccolo imprenditore non ha usufruito dello scudo fiscale, perchè la grandissima maggioranza delle piccole imprese pagano regolarmente le tasse. Noi vogliamo vedere, ad esempio, come si svilupperò il discorso sugli studi di settore e il redditometro, che può anche essere utile nella lotta all’evasione. In questo momento bisognerebbe tutelare davvero la piccola impresa che fa fatica a chiudere i bilanci, anzi capita che vi è gente che lavora anche in perdita pur di ammortizzare i costi fissi.

Per finire mi piacerebbe un suo giudizio sul ruolo delle banche in Italia. Verso gli istituti di credito vi è un rapporto ambivalente da parte del grande pubblico: da un lato si chiede rigore agli istituti di credito per evitare che possano esservi fallimenti come è accaduto negli USA, dall’altro si chiede maggiore elasticità verso il credito alle famiglie e alle imprese. Lei da imprenditore, sente le banche italiane come amiche o pensa che sono “fredde” verso il sistema produttivo e le sue esigenze?

Questo inseguire il modello americano, non è l’ideale, perchè il modello anglosassone ha prodotto la crisi, di contro il sistema bancario italiano, con le sue particolarità si è difeso meglio: grazie all’aver evitato di concedere credito facile garantendosi sempre della capacità di rimborso, sul credito al consumo, su investimenti rischiosi. Però il sistema bancario italiano ha perso il rapporto che aveva prima con l’imprenditore. Troppa attenzione ai bilanci e poca verso l’imprenditore, verso la famiglia, verso le persone .

Bisogna recuperare la dimensione dei valori, dove è necessario mantenere l’attenzione ai bilanci delle piccole imprese, ma poi la banca deve anche valutare il passato e le prospettive future dell’imprenditore. Un imprenditore che magari non ha il bilancio in attivo, ma che investe nella propria impresa, dove la famiglia intera partecipa all’attività imprenditoriale , è un imprenditore che meriterebbe di essere aiutato. Bisogna recuperare il rapporto umano tra l’imprenditore e la banca.

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Mirafiori e la mancanza di progettualità della politica

postato il 18 Gennaio 2011

Fiumi di parole e d’inchiostro si sono spesi, giustamente, per la vicenda di Mirafiori tra chi sosteneva le ragioni della Fiom e chi celebrava l’astro Marchionne e il suo “metodo”. Eppure in questo turbine di parole e di pensieri è mancata quasi completamente la voce rassicurante della politica che invece ha preferito mantenere un basso profilo, rimanendo alla finestra forse temendo di essere stritolata tra i meccanismi della catena di montaggio. Ma il silenzio assordante della politica, a parte qualche timida dichiarazione o apparizione a Mirafiori, è un indice assolutamente negativo.

Ha argomentato acutamente questa latitanza della politica Enrico Cisnetto, che qualche giorno fa sul Il Foglio non ha solamente rilevato questa assenza della classe politica ma anche la mancanza di un piano di politica industriale e dunque di un più generale “piano Paese”. A tal proposito Cisnetto ha sfatato la comune equazione tra il cosiddetto “metodo Marchionne” e il modello di sviluppo tedesco che è ascrivibile unicamente ad una politica responsabile e coraggiosa che pur di salvare l’economia e lo sviluppo tedesco non ha avuto paura di scelte impopolari (che a Gerhard Schröder sono costati la poltrona di Cancelliere) e di mettere da parte interessi di bottega per lavorare unita (la Grande Coalizione tra Spd e Cdu) alla ripresa. Ad oggi la Germania di Angela Merkel, continua Cisnetto, ha messo le premesse, una volta passata la recessione, per diventare la prima economia europea. Mentre in Germania i cancellieri che si sono avvicendati e la politica tutta hanno lavorato alacremente per garantire un futuro a tutti i tedeschi, nella nostra Italia la classe politica non è solo afona rispetto a temi di capitale importanza, ma resta incomprensibilmente impantanata nei problemi politici e giudiziari del Presidente del Consiglio.

La politica in Italia non deve solamente tornare a parlare, ma deve soprattutto rimboccarsi le maniche cominciando, sempre che non sia troppo tardi, a delineare un vero e proprio “piano Paese” dove si ragioni e si guardi al futuro magari cominciando a liberalizzare il sistema dei servizi e a rafforzare l’infrastrutture materiali e immateriali (trasporti, logistica, centrali nucleari e banda larga in primis). E considerato che tutte queste cose costano, la politica, uscita finalmente dall’apofatismo, dovrebbe mettere mano seriamente alle riforme  e – pensioni, sanità, decentramento, intervento una tantum sul debito pubblico – che ci possono creare quei margini di spesa che oggi non abbiamo.

Il ritorno della politica, della progettualità della politica è l’unica risposta che c’è al declino ed è l’unico modo che la classe dirigente di questo Paese ha per tornare ad unire i lavoratori che a Mirafiori si sono divisi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Se la maggioranza vuole andare al voto, noi siamo pronti

postato il 17 Gennaio 2011

L’intervista al Tg3

Se la maggioranza vuole confessare il proprio fallimento rispetto ai problemi del Paese e vuole andare a elezioni anticipate noi siamo pronti.  Se invece spera che un partito per evitare le elezioni sia pronto a qualsiasi cosa, noi non rispondiamo a questo indirizzo. Noi non offriamo niente al governo: offriamo un patto agli italiani, ed è una cosa ben diversa. Vogliamo un piano contro la disoccupazione giovanile, che dia detrazioni fiscali a chi assume i giovani, vogliamo la partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa. Perché non si parla queste cose? Non possiamo continuare ad accettare che l’agenda dei problemi degli italiani venga dopo quella di alcuni.

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Referendum Fiat, risultato di grande saggezza

postato il 15 Gennaio 2011

Il risultato del referendum di Mirafiori segnala grande saggezza da parte degli operai della Fiat. Ma emerge anche un messaggio rivolto all’azienda e a Marchionne: non tirate troppo la corda, perché stiamo facendo sacrifici pesanti.

Pier Ferdinando

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Per Marchionne? Per la Fiom? Per cosa si vota a Mirafiori

postato il 13 Gennaio 2011

Non ci si può esimere dall’esprimere una riflessione sul referendum di Mirafiori, un referendum che assume importanza non solo per la situazione contingente dei rapporti tra la Fiat e i lavoratori, ma in quanto spartiacque, un punto di volta, su cui si potrà innestare ogni futura discussione sul lavoro e sulle aziende.

Sgombro subito ogni equivoco: parlare di sviluppo e di investimenti in Italia è arduo, non solo perchè si va a trattare una materia per sua natura molto ampia e complessa (i rapporti industria-lavoratori vanno ad iscriversi all’interno del ben più ampio discorso sulla politica economica e sulle scelte che questa comporta), ma perchè l’Italia ha sempre pagato il dazio di non avere una vera politica in campo economico.

Il referendum di Mirafiori è importante perchè impone una seria riflessione: è indubbio che non si possono contestare e ledere i diritti dei lavoratori, e giustamente i sindacati devono tutelare ciò, ma non si può neanche permettere che la difesa di certi diritti, trasformi questi ultimi in privilegi e impunità. Si deve impostare il discorso, oggi, sulla produttività, perchè solo con la produttività si possono attirare investimenti in Italia: ormai le competenze tecniche non sono più un patrimonio esclusivo dell’occidente, il mondo è sempre più globale e con una competizione sempre più feroce.

E’ vero che gli stipendi in Germania sono più alti, ma è anche vero che la produttività dell’operaio tedesco è ben più alta di quella dell’operaio italiano. Rompere il vecchio sistema della contrattazione nazionale per dare spazio a quella aziendale direttamente con i lavoratori è il modo per avvicinare i lavoratori alle imprese, per instaurare un proficuo dialogo.

In Italia per troppo tempo si è evitato di affrontare il tema della produttività, mentre i nostri concorrenti lavorano con tassi di produttività molto superiori e con costi molto inferiori. Le stesse competenze, come ho avuto modo di dire, se prima erano specifiche di poche nazioni, ora sono facilmente replicabili ovunque, e il rischio concreto è che gli investimenti di Fiat, e questi posti di lavoro, vengano spostati all’estero, come stanno facendo molte altre aziende straniere ed italiane, piccole e grandi.

Vorrei che l’Italia per una volta si mettesse in discussione.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Referendum Fiat, rispettare la volontà dei lavoratori

postato il 11 Gennaio 2011

L’amministratore delegato della Fiat Marchionne non è un santo, ma oggi il fatto di evitare che gli investimenti scappino all’estero è una grande questione sociale e politica che riguarda tutti, la sinistra e la destra. Mi colpisce molto sentire che c’è qualcuno che ritiene che non si debba prendere atto del risultato del referendum di Mirafiori, perché credo che rispettare la volontà dei lavoratori sia sacrosanto.

Pier Ferdinando

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