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Sei tempi cambiano, anche il sindacato si deve adeguare: il “caso” Luxottica

postato il 16 Gennaio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo”

Notizia di questi giorni è stato raggiunto un ottimo accordo tra la società Luxottica e i sindacati. Vi chiederete dove sia la novità: ebbene la novità è nel “come” è stato raggiunto questo accordo.

La Luxottica aveva la necessità di aumentare la produttività di Sedico facendo girare gli impianti non più solo dalle 8 alle 17 ma dalle 5 del mattino alle 20. Il turno è stato ampliato senza un’ora di sciopero e attraverso una consultazione efficace e diretta tra azienda e lavoratori. Il risultato: accordo in poco tempo sottoscritto con tutti i sindacati, nessuno sciopero e produzione di cinque milioni di occhiali con un giorno di anticipo.

Per la prima volta i sindacati, prima di avanzare proposte, hanno consultato preventivamente i lavoratori che hanno scelto di fare girare gli impianti non più solo dalle 8 alle 17, ma dalle 5 del mattino alle 20 di sera, in quanto alcuni lavoratori hanno scelto di lavorare dalle 5 alle 12 e dalle 13 alle 20. In pratica hanno prima parlato con i lavoratori, poi hanno raccolto indicazioni su orari ed esigenze personali di questi ultimi e infine hanno esaminato con i lavoratori i risultati delle consultazioni. L’accordo è stato poi siglato in “maniera tradizionale” tra sindacati e azienda.

La novità è, quindi, nel metodo che ha portato alla consultazione preventiva dei lavoratori, con i sindacati che hanno ridato centralità ai loro assistiti e non hanno negoziato da “soli”, preferendo la consultazione preventiva.

Questo metodo, a mio avviso, potrebbe e dovrebbe essere usato in tutta Italia: da un lato i sindacati ridarebbero centralità ai lavoratori ed eviterebbero di arroccarsi su posizioni che, in alcuni casi, non sono gradite nemmeno dai lavoratori; dall’altro i lavoratori parteciperebbero attivamente alla vita produttiva maturando il radicamento con il posto di lavoro; l’azienda avvierebbe un percorso collaborativo con i sindacati che eviterebbe trattative estenuanti e scioperi.

Questo mutamento nel modo di agire dei sindacati dovrebbe essere seguito con attenzione perché eviterebbe delle contrapposizioni spesso ideologiche, che danneggiano solo i lavoratori e le aziende, e a tal proposito non possiamo non pensare alla lotta estenuante ingaggiata tra la Fiat e i sindacati Cisl, UIL e CGIL da un lato e la FIOM dall’altro, che ha portato il sindacato guidato da Landini ad essere escluso da tutte le trattative future.

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La differenza tra imprenditori disperati e i soliti furbetti.

postato il 7 Gennaio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

La cronaca giornalistica riesce, a volte, a costruire scenari talmente intrisi di cinismo e disperazione che non sfigurerebbero nelle opere romanzesche di Scerbanenco, Lucarelli o Carlotto; la differenza essenziale è che quello che viene raccontato è tutto tremendamente vero. Così, nei giorni scorsi, l’inchiostro delle rotative di buona parte della stampa nazionale ha disegnato un incredibile rincorrersi di situazioni che ci impone almeno alcune riflessioni e non poche domande.

A metà del mese di dicembre, quando tutto sembrava rarefarsi nell’atmosfera natalizia e le case erano già adorne di luci ed alberi agghindati a festa, un uomo della provincia di Padova, un piccolo imprenditore, un padre e un nonno la cui impresa era in realtà una prosecuzione ideale della sua famiglia, si è tolto la vita per non aver retto al carico dei debiti da cui si sentiva oppresso, non per avere dilapidato i suoi averi ma per non essere riuscito a riscuotere quanto gli era dovuto.

Un paio di settimane dopo, il 29 dicembre quando tutti si preparavano a festeggiare la fine dell’anno, la stampa ci dava notizia di un altro piccolo imprenditore astigiano, padre di tre figlie che, preso dalla disperazione di dover licenziare i propri dipendenti per mancanza di liquidità, non trovava di meglio che tentare una goffa rapina alle poste armato di cacciavite. Lo stesso giorno le cronache riportavano che nella dorata realtà di Cortina d’Ampezzo la locale Guardia di Finanza identificava quattro persone che per il fisco risultavano nullatenenti ma che in realtà avevano occultato patrimoni per più di 500 mila euro. Dei cinque protagonisti delle cronache sopra ricordate, il solo a finire in carcere è stato l’imprenditore in rovina, così come prevede la Legge.

E’ delle ultime ore la notizia del controllo, invero un poco muscolare, del personale dell’Agenzia delle Entrate nella stessa Perla delle Dolomiti che ha dato, a quanto si apprende dalla stessa Agenzia, risultati insperati facendo fiorire l’economia locale dato che la presenza degli ispettori tributari avrebbe fatto salire gli incassi di alcuni esercizi fino al 3-400% (altro che decreto “Cresci-Italia”) oltre ad aver fatto scoprire una schiera di poveri pezzenti al volante di automobili da decine di migliaia di euro di valore.

Ironie a parte, nel Nord Est si contano ormai all’incirca 40 casi di suicidio tra imprenditori, tutti piccoli o piccolissimi e per i quali l’impresa è vissuta come una parte della vita famigliare e molto spesso ne è infatti strettamente connessa; il legame con il territorio ed i rapporti che si instaurano con i collaboratori impediscono al “padrone” di estraniarsi dalla sorte dell’azienda quel tanto che basta per non farsi coinvolgere dai rovesci della fortuna, se poi alla crisi vanno a sommarsi i problemi col credito, la concorrenza sleale ed una certa insensibilità delle amministrazioni pubbliche il quadro è completo.

A far da contraltare a questa situazione si trovano però altre realtà in cui, come il caso Cortina dimostra ed i recenti dati fiscali confermano, si verifica che circa il 42% dei possessori di barche dichiara meno di 20.000 euro di imponibile mentre tra i possessori di aeromobili la percentuale è del 26 % e sempre sotto il limite dei 20.000 euro di imponibile si trovano un terzo dei possessori di auto con più di 185 chilowatt di potenza.

A fronte di questi dati, le indignate dichiarazioni di protesta che si sono levate dopo i controlli effettuati dal personale dell’Agenzia delle Entrate forse andrebbero quantomeno riviste ed anzi sarebbe auspicabile che analogo fervore fosse riservato al ricordo di quei piccoli imprenditori che, di fronte all’onta del fallimento spesso causato dai mancati pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, hanno optato per la tragica scelta del suicidio.

Quel piccolo imprenditore padovano con il suo tragico gesto ha forse voluto far intendere che quello era, per lui, l’unico modo per uscire dalla situazione in cui si trovava e dimostrare la sua assenza di colpe, esattamente come nel suicidio rituale dei samurai giapponesi. Le reazioni sopra le righe, anche di alcuni personaggi molto noti, alle legittime iniziative di controllo dell’amministrazione finanziaria fanno invece pensare a tutt’altra predisposizione d’animo.

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Raddrizziamo le storture del mercato del lavoro: l’esempio della Spagna

postato il 20 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Un paio di mesi fa ho parlato dell’esperienza spagnola nel campo della flessibilità lavorativa e sono ancora dell’idea che in Italia il mercato del lavoro è sufficientemente flessibile, ma che anzi bisogna intervenire per evitare che la flessibilità si trasformi in una morsa mortale per i lavoratori. Sono favorevole alle idee di Ichino, quando parla di maggiore libertà negoziale tra le aziende e i lavoratori (sul mondo sindacale, che a mio avviso necessita di una riforma, mi riservo di intervenire in un secondo momento), ma bisogna anche considerare che maggiore libertà nei licenziamenti non implica maggiore produttività, ma maggiori rischi per quegli italiani che si trovano nella fascia d’età tra i 35 e i 60 anni. Io non sono più un giovane; conosco molti miei coetanei che, come me, lavorano con contratti a progetto o finte partite iva o altri trucchetti. A questa generazione, chi ci pensa? Capisco che non facciamo notizia come “i giovani”, ma anche le persone “non più tanto giovani” dovrebbero avere delle tutele: all’estero anzi spesso sono i lavoratori più ricercati, proprio perché la loro esperienza li rende più produttivi.

Intendiamoci: chi non lavora deve essere licenziato, questo sia chiaro a tutti; ma non si può pensare di rivolgersi ai giovani e al precariato per tenere bassi i costi di una azienda: la soluzione è migliorare la produttività, non raschiare il fondo del barile. Proprio per questo motivo, nella mia proposta, credo che bisogna mettere dei paletti nella legislazione e nell’uso dei contratti a progetto e nelle altre forme di lavoro a tempo determinato: credo che tutti concordiamo sul fatto che se una azienda mantiene al lavoro una persona per, ipotizziamo, due anni, questa persona è formata e produttiva, quindi l’azienda dovrebbe passare ad una forma di contratto a tempo indeterminato.

La mia considerazione nasce anche dall’osservazione del mondo spagnolo, paese con un’alta disoccupazione (la media ufficiale della Spagna è di circa il 23% di disoccupati), alto ricorso ai contratti a tempo determinato (circa il 30% degli occupati spagnoli, lavorano con il nostro equivalente dei contratti a progetto), e che ha introdotto le stesse liberalizzazioni in tema di licenziamento, di cui si parla quando si vuole riformare l’articolo 18 senza ottenere effetti tangibili sul lato delle nuove assunzioni.

Le nuove assunzioni, l’aumento delle proposte di lavoro, nascono tutte se aumentano gli investimenti e si creano le condizioni ideali perché le aziende possano investire crando strutture produttive, e per fare ciò, a mio avviso, spingere sulla flessibilità “spinta” non è la soluzione ideale (come dimostra l’esempio della Spagna). Il contratto a tempo determinato deve servire per mettere alla prova il lavoratore o se l’azienda ha momentanee esigenze di aumentare la propria forza lavoro; ma se questo aumento deve essere strutturale, allora non si può ricorrere alle forme di precariato.

Sostanzialmente bisogna evitare che il contratto a progetto sia una forma di assunzione “mascherata”, e questo lo si ottiene con la trasformazione in indeterminato di un rapporto temporaneo quando si raggiunge una durata determinata, che è il presupposto per stabilire se l’azienda ha bisogno “strutturalmente” di un lavoratore.

A mio avviso, tale limite di tempo può fissarsi in 24 mesi cumulativi di lavoro nell’arco di complessivi 36 mesi: in tal modo, non basterà, per azzerare i conteggi dei mesi, che l’azienda tenga scoperto il posto di lavoro per uno o due mesi (come è accaduto fino ad ora).

Si tratta , in definitiva, di evitare la nota pratica consistente nel fatto che parte dei posti di lavoro di un’impresa siano permanentemente occupati da lavoratori precari , disponendo l’azienda di un organico fisso inferiore a quello necessario per affrontare la sua normale attività produttiva.

Questa norma sicuramente servirebbe a garantire e proteggere l’abuso da parte delle aziende dei contratti a tempo, inoltre è ovvio che il conto dei 24 mesi avviene anche se tra un contratto e l’altro vi è una interruzione breve (che potremmo quantificare in 3-6 mesi). In altre parole, al conteggio non si sfuggirebbe neanche se l’azienda tra i vari contratti mettesse delle interruzioni brevi.

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Riforma del lavoro, facciamo vincere i figli

postato il 19 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Ieri, il Ministro del Lavoro e del Welfare, Elsa Fornero, ha rilasciato una lunga intervista a Enrico Marro del Corriere della Sera, in cui ha rilanciato una delle priorità del governo Monti: la riforma del mercato del lavoro, da approntare da gennaio in poi, e che rappresenti il trait d’union con la riforma del sistema previdenziale, al fine di ridurre gli squilibri tra le nuove e le vecchie generazioni. La Fornero ha ricordato che «sono abbastanza anziana per ricordare quello che disse una volta il leader della Cgil, Luciano Lama: “Non voglio vincere contro mia figlia”. Noi, purtroppo, in un certo senso abbiamo vinto contro i nostri figli. Ora non voglio dire che ci sia una ricetta unica precostituita, ma anche che non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte». Da parte nostra non abbiamo mai mancato di elogiare quello che consideriamo un tratto caratterizzante delle proposte del Ministro e cioè il volgere lo sguardo al futuro, il voler riformare non per aggiustare momentaneamente una brutta situazione, ma per disegnare scenari completamente nuovi e sicuramente più sostenibili. Per farlo, quindi, è necessario mettere da parte ogni preconcetto e superare ogni pregiudizio: non si può pensare di affrontare con serietà un tema del genere, se le varie parti in causa cominciano ad erigere totem o barriere varie. L’articolo 18, per dire, che rappresenta una tutela importante per le azienda con oltre 15 dipendenti, è ormai largamente insufficiente per rispondere all’esigenze del momento e non si può pensare, quindi, di agitarlo come discrimine per ogni tipo di riforma (del resto, come ha anche ricordato Casini, “è inaccettabile che la messa in discussione di quest’articolo, che è perfettibile, sia di per sé motivo di scontro”).

Sempre nell’intervista di ieri, il Ministro Fornero ha confermato il proprio personale orientamento al sostegno del cosiddetto “pacchetto Ichino” (o a quello “Boeri-Garibaldi”), a quelle proposte – cioè – elaborate dal giuslavorista Pietro Ichino, senatore democratico, ispirate alla flexsecurity danese, che fino a poco tempo fa erano rimaste confinate in una specie di ghettizzazione forzata all’interno del PD, ma che adesso hanno trovato molti sostenitori (in primis proprio noi del Terzo Polo, in discussione alla Camera c’è una proposta targata Dalla Vedova-Raisi molto interessante) e una posizione centrale nella piattaforma programmatica del Governo. In sostanza, una riforma che va in questa direzione dovrebbe riuscire a fermare la polverizzazione dei contratti, ad introdurre un contratto unico (con maggiore flessibilità, non solo in uscita ma anche in entrata) e un sistema universale di unemployment benefit e aprire a politiche attive maggiormente efficaci. Il tutto per cercare di superare il vero vulnus del nostro mercato occupazionale, che non consiste tanto nella contrapposizione tra chi lavora e chi no, ma tra i garantiti e i non garantiti, tra chi ormai è fin troppo tutelato e chi invece è totalmente privo di paracadute in caso di disoccupazione. La flexsecurity non potrà certo essere la soluzione a tutti i mali, ma – come dimostra uno studio del Ceps – rappresenterebbe un’occasione di incremento dell’occupazione, di cui beneficerebbero in misura maggiore giovani, donne e lavoratori maturi: secondo queste stime, un aumento del 10% dell’indicatore di flexsecurity in Europa, garantirebbe un incremento medio stimato del 3% del tasso di occupazione giovanile, del 2,5% di quello femminile e del 2% di quello dei lavoratori anziani (al top del ranking europeo c’è la Danimarca, mentre gli ultimi due posti sono occupati, guarda caso, da Italia e Grecia). Una riforma in tal senso, che si applicherebbe solo ai rapporti lavorativi che si costituiranno solo d’ora in avanti, garantirebbe a tutti i nuovi lavoratori contratti a tempo indeterminato, con tutte le protezioni essenziali, ma senza l’inamovibilità; e a chi perde il posto di lavoro, un robusto sostegno economico e investimento sulla sua professionalità, in funzione della rioccupazione più rapida possibile.

Ecco, in sostanza, il perché del nostro sostegno al progetto della flexsecurity. Perché siamo stanchi di avere lavoratori di serie A e lavoratori di serie B e perché – al contrario, evidentemente, di altri – non possiamo sopportare l’idea di veder vincere le ragioni del passato su quelle del presente (e del futuro).

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Lavoro: riforma non lesa maestà, ma moderare i toni

postato il 19 Dicembre 2011

No a scontri ideologici su articolo 18

Non vogliamo scontri ideologici sull’articolo 18, ma neanche che sia un totem per cui la messa in discussione diventi lesa maestà. Certo, le medicine amare sono indispensabili ma a volte, come in questo caso, un po’ di zucchero che le addolcisca non fa male.
L’onestà intellettuale del ministro Fornero è fuori discussione e non condivido le parole indirizzatele dalla Camusso. Non credo che questo governo sia contro i lavoratori o arrogante con essi, è un governo che usa un linguaggio di verità, scomodo e difficile da accettare. Certo, bisogna superare le impostazioni del passato e questo non è facile.
Le forze sindacali, anche quelle più vicine a noi, hanno tutta la nostra considerazione e fanno ognuna il proprio mestiere, l’importante e’ che lo facciano alla luce del sole: l’Italia si può salvare solo se le forze sociali concorrono ad individuare l’uscita dalla crisi.

Pier Ferdinando

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Chi nasce in Italia sia italiano

postato il 14 Dicembre 2011

Alla strage dei senegalesi a Firenze un Paese civile risponde con i fatti e non con le parole. Lo sostenevo da Presidente della Camera sei anni fa e non ho cambiato idea: è ora che i bambini nati sul territorio nazionale vengano considerati a tutti gli effetti cittadini italiani (dallo “ius sanguinis” allo “ius soli”).

Pier Ferdinando

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La manovra incentiva l’assunzione di donne e giovani

postato il 8 Dicembre 2011

Giovanni Villino racconta, a modo suo, le novità presenti nella manovra:

Se mi assumete potete dedurre 15.200 euro

Il testo ufficiale della manovra varata dal governo Monti fa emergere piacevoli novità. Una di queste è contenuta nell’articolo due che potete leggere qui. Cari datori di lavoro, non lasciatevi sfuggire questa occasione:

Le imprese che assumeranno donne e giovani sotto i 35 anni a tempo indeterminato avranno la possibilità di dedurre 10.600 euro per ogni donna e giovane sotto i 35 anni assunto a tempo indeterminato. Lo sconto sale a 15.200 nelle regioni del Sud. Le imprese interessate allo sconto maggiorato, a 15.200 euro, sono quelle che assumeranno giovani a tempo indeterminato sotto i 35 anni o donne in Sicilia.

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Giovani, è ora di cambiare passo.

postato il 29 Novembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Anna Giunchi

Qualche giorno fa è arrivato un messaggio molto chiaro, a firma del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco: “Il capitale umano e l’investimento in conoscenza rappresentano una variabile chiave nella nostra azione di politica economica”.

“I giovani”, e a pronunciare queste parole è lo stesso Visco: “sono stati i più danneggiati dall’introduzione dell’Euro”. “Non c’è una ricetta per uscire dalla crisi”, conferma lo stesso Visco, “se non quella di ascoltare i giovani, di dare loro concrete speranze”.

I giovani che attualmente si affacciano sul mercato sono infatti esclusi dai benefici della crescita del reddito degli ultimi decenni: non vengono infatti valorizzate le risorse umane, ovvero quegli aspetti di valore racchiusi nella professionalità e nelle competenze del personale operante.

In Italia i differenziali salariali a parità di livello di istruzione non solo sono inferiori a quelli degli altri Paesi, ma coinvolgono in misura maggiore i giovani lavoratori che non gli anziani.

I nostri ragazzi hanno retribuzioni ferme da almeno dieci anni: non vengono valorizzati, insomma, come capitale umano.

La situazione dell’istruzione in Italia è tristemente nota: negli ultimi anni si è investito il 2,4% del Pil in scuola e università, contro il 4,9% degli altri paesi. Nel 2010 in Italia, inoltre, gli insegnanti con meno di 40 anni erano solo il 9%, a differenza del 25% in Germania, del 34% in Francia e dell’oltre 40% del Regno Unito.

Già il Consiglio Europeo di Lisbona, nel 2000, ribadì che la più importante economia dell’Unione Europea sarebbe stata possibile soltanto se l’istruzione e la formazione avessero avuto ruolo preponderante come fattori di crescita economica, nonché di ricerca, innovazione, competitività, sviluppo sostenibile e cittadinanza attiva.

Il contributo dell’istruzione e della formazione alla crescita è stato ampiamente riconosciuto dal Consiglio di Lisbona: le stime suggeriscono che investimenti nell’istruzione e nella formazione producono tassi di ritorno agli individui (ritorno privato) e alla società (ritorno sociale) comparabili all’investimento nel capitale fisico.

La crescente quota di servizi economici, i continui cambiamenti tecnologici, l’aumento di conoscenze/informazioni insite nel valore della produzione, nonché la ristrutturazione socio-economica renderebbero oggettivamente ancor più proficuo un simile investimento.

Un invito, dunque, ad un cambio di passo, verso un’ Europa che non aspetta.

 

 

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Immigrazione: non è tempo di barricate, la Lega discuta

postato il 23 Novembre 2011

Sono d’accordo con le parole di Napolitano: quello della cittadinanza ai figli degli immigrati è un tema molto serio, che affrontai già da presidente della Camera dicendo che era necessario arrivare allo ius soli.
Quanto all’atteggiamento della Lega, non è tempo di barricate. Mi auguro che, come dichiarato all’atto della fiducia al governo Monti, il Carroccio assuma un atteggiamento costruttivo e sieda attorno a un tavolo a discutere, tenendo in considerazione che l’integrazione va di pari passo con la sicurezza.

Pier Ferdinando

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#ammazzastartup: non confondiamo le startup con le società di comodo

postato il 11 Novembre 2011

di Mario Pezzati.

Nessuno di noi confonderebbe mele con pere: sono entrambi frutti, ma sono differenti.  Allo stesso modo non si dovrebbero confondere le aziende start up (con questo termine si identifica l’operazione e il periodo durante il quale si avvia un’impresa, si tratta di solito di imprese appena costituite, nelle quali vi sono ancora processi organizzativi in corso) e le società di comodo (società costituite per occultare patrimoni, generalmente utilizzate per procedure di evasione fiscale).

Eppure, come fa rilevare Quintarelli, per lo Stato italiano sono la stessa medesima cosa e questo crea notevoli problemi perché rischia di castigare e fare scappare coloro che volessero iniziare nuove attività imprenditoriali, in particolare nel campo dell’alta tecnologia.

E’ normale per una start up avere un periodo iniziale (generalmente un paio di anni) di profondo rosso, ma questo, per il fisco italiano, equivale ad una società di comodo che, tramite perdite fittizie, permette di occultare capitali per evitare che vengano tassati. Lotta dura all’evasione fiscale, ma altra cosa è penalizzare chi, nel rispetto delle regole, decide di investire, creando occupazione e sviluppo, perché se sei considerato società di comodo, non puoi detrarre le perdite pregresse e neppure l’IVA.

Il problema è che il sistema italiano si fonda tutto sulla “presunzione”. Effettuare le verifiche del caso è impegnativo e costoso, allora: tutte le aziende che hanno 3 anni in perdita oppure due anni in perdita e un anno con un profitto inferiore a quanto “previsto” dallo Stato, sono considerate società di comodo. Per evitare questa presunzione, l’imprenditore deve dimostrare (in quanto “presunto colpevole”) la sua innocenza. Tale dimostrazione avviene tramite una sorta di “entità astratta”, ovvero “l’istanza di interpello disapplicativo”, in pratica altra burocrazia inutile, nonostante già nel 2006 fosse stata varata da Visco e Bersani una legislazione molto stringente per le società di comodo.

Il prossimo governo si preoccupi pure di questo.

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