Tutti i post della categoria: I 9 punti

Lo sciopero Cgil è un grande errore politico

postato il 24 Agosto 2011

Abbiamo salutato l’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria come un elemento estremamente positivo che dimostrava consapevolezza del proprio ruolo e grande responsabilità delle parti sociali.

Oggi, con la stessa onestà intellettuale, diciamo che per noi lo sciopero generale che la Cgil ha indetto è un grande errore politico. Serve ai falchi della Fiom e a quanti nell’attuale maggioranza non vedono di buon occhio l’unità del sindacato.

Sfilino pure Vendola, Ferrero e Di Pietro insieme alla Cgil, ma sappiano che tante cose possono impensierire Berlusconi, salvo uno sciopero generale che rischia di essere solo un grande regalo al fronte del conservatorismo politico e sociale. Ci auguriamo che il Pd abbandoni ogni ambiguità e scelga con nettezza da quale parte stare.

Pier Ferdinando

 

20 Commenti

Tecnologia e società, il dialogo necessario per superare la crisi

postato il 4 Agosto 2011

L’andamento dell’economia a livello mondiale impone una attenta riflessione che non può più essere solo locale, ma globale. A mio avviso il progresso tecnologico ha portato al punto di rottura il sistema sociale su cui ci siamo sempre basati: il nostro sistema è centrato sull’assunto di “lavorare di più, per produrre di più e guadagnare di più”. Aumentando la produttività, aumenta la ricchezza, i consumatori aumentano e si assumono altri lavoratori. Questo trade off era particolarmente vero in una società preindustriale. Con l’avvento della industrializzazione negli ultimi secoli, si è assistito ad un prosieguo, a mio avviso fittizio, dell’assunto di cui sopra. Perché dico fittizio? Inizialmente l’industrializzazione ha portato un aumento nella produzione di merci con una progressione di poco superiore a quella del passato. Anche se di poco superiore, questa progressione aumentò enormemente la disponibilità delle merci e abbassò il loro prezzo. Al contempo il progresso tecnologico creò nuovi beni, servizi e soprattutto nuovi bisogni: l’industria dell’intrattenimento, ad esempio, è “recente”, ha circa 100 anni; come pure altri settori industriali (auto, frigoriferi, televisione, computer) e altri servizi (servizi finanziari, l’industria del marketing, della pubblicità, del turismo di massa, e così via). Chiaramente la tecnologia ci ha portato immensi benefici: la qualità della vita è enormemente migliorata, e questo è innegabile.Ma questo ci ha resi ciechi di fronte ai pericoli intrinseci, e ci “impedisce” di impostare una analisi seria della situazione attuale. La crisi mondiale ci impone di analizzare la situazione attuale, soprattutto perché, nonostante gli indici di produttività segnino un aumento costante, non altrettanto si può dire con la disoccupazione, vecchia e nuova: nell’ottobre del 2010, gli studi del FMI evidenziarono come non solo non si era ancora assorbita la disoccupazione creata con la crisi del 2008, ma che bisognava “creare” almeno 40 milioni di posti di lavoro annui (su questo punto si veda il rapporto dell’autunno scorso del FMI, su cui mi soffermerò un altro girono), per reggere le pressioni di chi si affacciava al mondo del lavoro nei paesi occidentali, in quelli arabi e senza contare le pressioni demografiche cinesi.Come si spiega l’aumento di produttività, con un indice di disoccupazione che non mostra sensibili miglioramenti? Spesso il problema si pone e viene discusso a livello nazionale, ed è una cosa logica se consideriamo che i politici devono rendere conto al loro elettorato: un politico italiano deve “tutelare” chi lo ha eletto, e quindi gli elettori italiani, la stessa cosa per i politici tedeschi (ricordiamo come la Merkel ritardò molto gli aiuti alla Grecia, proprio perché aveva prima bisogno del consenso popolare della Germania), francesi, statunitensi, cinesi e così via. Ma questo non risolve il problema, perché non lo individua correttamente. Il problema, come ho accennato prima, risiede nel fatto che ormai la tecnologia, permette una produzione sempre più automatizzata, con tassi di efficienza e produttività sempre più alti e sempre meno bisogno di manodopera umana. Per fare degli esempi: nell’industria dell’auto gli impianti sono quasi totalmente automatizzati e una fabbrica con 7000 operai può oggi produrre lo stesso quantitativo di macchine che prima producevano 20.000 operai. Altro esempio è nell’industria dei microchip: oggi si può produrre lo stesso quantitativo di microchip del 2000, impiegando solo un quarto della forza lavoro che serviva nel 2000: in pratica oggi con 25 operai si produce quanto 10 anni fa producevano 100 lavoratori. E questo processo è in atto da anni, solo che non ce ne rendevamo conto, perché con il progresso tecnologico si creavano nuovi settori produttivi (ad esempio il marketing) e nuovi bisogni (ad esempio fino a 20 anni fa, chi aveva bisogno di un cellulare?) su cui si spostava la forza lavoro in eccesso degli altri settori. Oggi purtroppo non si riesce più a creare nuovi servizi, o nuovi prodotti, si tende a migliorare ciò che c’è, e anzi si procede ad una automazione sempre maggiore. In Francia le aziende hanno bloccato le assunzioni, come anche in Italia, e la Germania tiene grazie alle esportazioni, ma anche nel paese della Merkel si notano i primi rallentamenti. Pensare che una nazione possa lavorare ed esportare a tempo indeterminato, è utopico: la tecnologia e il sapere sono facilmente esportabili e replicabili. Il Brasile, la Cina, l’India ne sono un esempio. E quando i lavoratori cinesi e indiani passeranno dall’agricoltura all’industria, cosa avverrà?

Un altro esempio sono gli uffici pubblici o privati: un tempo i documenti dovevano essere archiviati, e vi erano enormi archivi cartacei e persone che si occupavano del loro controllo e dell’archivio, ma oggi con i computer, questo stesso lavoro può essere svolto da una persona.

Le banche, ad esempio, stanno investendo molto sui servizi via internet e sui bancomat “evoluti” dove si può non solo prelevare, ma anche pagare utenze e depositare soldi.
Ma se queste operazioni si possono fare da casa o tramite bancomat, viene meno la funzione di chi lavora allo sportello e con il tempo molte filiali potrebbero chiudere.Giusto per citare una notizia di questi giorni la banca britannica Barclays  ha annunciato che potrebbe tagliare circa 3mila posti di lavoro nel 2011 nell’ambito del piano per ridurre i costi. Il numero uno del gruppo, Bob Diamond, ha detto nel corso di una conference call, che nel primo semestre c’e’ stata una riduzione di 1.400 posti. Il gruppo ha chiuso i primi sei mesi dell’esercizio con un utile netto in calo del 38% a 1,50 miliardi di euro a fronte di un risultato di 2,43 miliardi registrato nello stesso periodo dell’anno precedente. Ma allora quale è la soluzione? Rifiutare la tecnologia? Assolutamente no. Come ho detto la tecnologia ha migliorato la nostra qualità di vita.

Semmai la risposta può essere nel cambiare la nostra struttura sociale, e per fare ciò bisogna che questo problema si ponga a livello internazionale portando avanti nuove regole comuni a tutti.

Il progresso tecnologico, avrebbe dovuto portarci a lavorare meno: con un minore numero di ore di lavoro si può produrre lo stesso quantitativo di prodotti di qualche anno fa.

Oggi, ognuno di noi, tende a lavorare più degli altri, ma la tecnologia ci permetterebbe di lavorare di meno e lavorare tutti: meglio che lavori una persona 8-12 ore e un’altra sia disoccupata, o che tutte e due lavorino magari 4-6 ore a testa?

L’incidenza del “costo umano” con il progresso tecnologico si va riducendo, inoltre il maggiore costo di un maggiore numero di impiigati, verrebbe riassorbito perché se lavorano molte persone, queste stesse persone, avendo uno stipendio, potranno acquistare beni e servizi (mentre è lapalissiano che chi non lavora, non avendo una fonte di reddito, non può spendere).

Questa soluzione potrebbe anche non bastare o non essere gradita.

Allora si potrebbe anche ipotizzare una distinzione tra “beni necessari” e “beni non necessari”: per quelli necessari potrebbe provvedere lo Stato, per quelli non necessari si provvederebbe individualmente con il proprio lavoro. Ad esempio, si può pensare una abitazione standard per tutti, e poi se io lavoro e guadagno posso comprarmi una casa più bella. Il progresso tecnologico ha permesso l’abbattimento dei costi di molti beni di prima necessità.

E’ ovvio che sto solo abbozzando delle ipotetiche soluzioni, ma quel che mi preme è di porre il problema, perché solo ponendolo si può iniziare a trovare una soluzione.

Il vero problema non è la crisi contingente, ma che il nostro modello sociale di sviluppo sta mostrando la corda, ora che il progresso tecnologico ha permesso un aumento esponenziale della nostra produttività.

Se questo problema non verrà dibattuto nelle sedi apposite, dubito che avremo delle soluzioni strutturali ed efficaci ai problemi della disoccupazione mondiale

Riceviamo e pubblichiamo di Mario Pezzati

 

1 Commento

L’assurdo valzer del bonus bebè

postato il 30 Luglio 2011

Nel 2006 700mila bambini italiani ricevevano, al momento della loro nascita, una lettera dal Presidente del Consiglio,  che così recitava: «Caro…, felicitazioni per il tuo arrivo! E’ il Presidente del Consiglio a scriverti per porti la prima domanda della tua vita: lo sai che la nuova legge finanziaria ti assegna un bonus di mille euro? I tuoi genitori potranno riscuoterlo presso questo ufficio postale. Un grosso bacio».  Insieme alla lettera vi era un modulo di autocertificazione, dove i genitori avrebbero dovuto dichiarare che il loro reddito complessivo non superava i 50.000 euro, e che opportunamente compilato e presentato ad un ufficio postale dava diritto a ritirare l’assegno da 1.000 euro.

Cinque anni dopo,  alcuni di quei bambini che avevano beneficiato del cosiddetto “bonus bebè” ricevono un’altra lettera,  questa volta del  Ministero delle Economia che perentorio avverte: «dagli accertamenti effettuati è emerso che Lei ha falsamente dichiarato di avere un reddito familiare complessivo non superiore a 50.000 euro… Si contesta, pertanto, di avere riscosso illecitamente il bonus bebè utilizzando un’autocertificazione mendace… Si intima la restituzione entro 30 giorni del bonus e il pagamento della sanzione amministrativa pari a 3.000 euro che dovrà essere effettuato solo dopo che il giudice penale si sarà pronunciato in merito alla punibilità della falsa autocertificazione». I bimbi a cinque anni non avranno capito un gran che, ma ai genitori sarà venuto un colpo: il ministero dell’Economia, senza troppe felicitazioni, rivuole indietro i soldi.

Al ministero non sono impazziti ma tentano di porre rimedio, piuttosto maldestramente, ad un grossolano errore del governo che nella missiva originaria non ha precisato  che il reddito da dichiarare era quello lordo e non il netto, e che le rendite patrimoniali erano incluse. E’ facile immaginare la reazione furibonda delle famiglie e delle organizzazioni a difesa dei consumatori che, giustamente, fanno presente che l’errore è dovuto alla poca chiarezza della modulistica inviata e si chiedono perché dovrebbero pagare i cittadini per una leggerezza del governo.  Ai dubbi di famiglie ed associazioni risponde, con una terza incredibile lettera, il  sottosegretario Giovanardi:  “Cara mamma e caro papà, sei anni fa vi arrivò una lettera firmata dal Presidente Silvio Berlusconi che vi avvertiva della possibilità di incassare un assegno di mille euro per la nascita di vostro figlio, nel caso in cui il vostro reddito complessivo fosse stato inferiore ai 50 mila euro. Su oltre 700.000 assegni inviati e incassati dagli aventi diritto purtroppo circa 8.000, ad una verifica fatta dagli uffici sull’autocertificazione, sono risultati non in regola con quanto stabilito dal Parlamento. Come delegato per  la Presidenza del Consiglio dei Ministri alle politiche per la famiglia, innanzitutto mi scuso per i toni sgarbati e minacciosi della lettera che gli uffici del Ministero dell’economia vi hanno inviato per richiedere la restituzione di tale somma. Come ho già dichiarato alla Camera dei Deputati giovedì 21 luglio 2011 rispondendo ad interpellanze dei Parlamentari, chi ha ricevuto la lettera può prendere contatto con gli uffici che vi hanno scritto per dimostrare la correttezza dell’autocertificazione e non procedere alla restituzione. Se questo non fosse possibile, perché per esempio c’è stato un equivoco fra reddito lordo e reddito netto, tutto potrà venire sanato con la restituzione dei mille euro, senza interessi e se necessario anche a rate. In sostanza  è come se una banca vi avesse prestato sei anni fa mille euro e oggi ne richiedesse semplicemente la restituzione senza nessun interesse. Posso concordare con voi che la cosa sia spiacevole ma bisogna anche tener conto delle centinaia e migliaia di coppie a cui è nato un figlio e che i mille euro non li hanno incassati perché hanno interpretato correttamente la norma di legge. Nell’augurare ogni bene a voi e alla vostra famiglia, colgo l’occasione per salutarvi con viva cordialità”.

La vicenda è davvero surreale se non ridicola, fortunatamente la sanzione è stata cancellata ma restano il grossolano errore del governo e il disagio per le famiglie che in tempi di ristrettezza economica e di assenza di politiche familiari si vedono comunque costrette a restituire un bonus che si è presto rivelato un malus.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Maria Pina Cuccaru


2 Commenti

Distanza surreale tra governo e Paese

postato il 29 Luglio 2011

Mentre la questione sociale esplode, si parla di processo lungo o breve, oppure di ministeri a Monza. E’ surreale la distanza fra governo e Paese.
Noi siamo pronti a lavorare anche nel mese di agosto su provvedimenti seri, nuove misure che allontanino le spettro di una crisi drammatica alla quale va data assolutamente risposta. Come opposizione responsabile l’Udc è d’accordo con il monito del presidente della Repubblica alla politica, perché contro la crisi serve coesione nazionale.
La convinzione di assumere rapide iniziative oggi è rafforzata da due notizie. La prima, i mercati che danno un segnale di sfiducia alla politica italiana. La seconda, il rapporto Svimez, che rende noto che al Sud 3 giovani laureati su 4 sono disoccupati.
Davanti a una crisi così drammatica, oggi è necessario dare una risposta.

Pier Ferdinando

2 Commenti

Gioco d’azzardo legalizzato, “pecunia non olet”

postato il 29 Luglio 2011

“Una vera piaga, soprattutto per i giovani. Rischia di essere la malattia emergente del nostro millennio” . Queste le chiare parole usate dal prof. Rosario Sorrentino, neurologo, fondatore e direttore dell’IRCAP (Istituto di Ricerca e Cura sugli Attacchi di Panico), qualche tempo addietro in occasione della presentazione di una campagna di sensibilizzazione sul gioco responsabile sostenuta dalla stessa Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato e presentata da SNAI.

“Si profila sempre più il rischio di una addiction generation, una generazione dipendente dalle emozioni ottenute grazie ad una scarica di dopamina extra. Di fatto – continuava il prof. Sorrentino – una porta d’ingresso verso comportamenti caratterizzati da aggressività, impulsività, rabbia e con una chiara matrice sociopatica”.

Le dimensioni del fenomeno sono allarmanti se è vero che, secondo un’indagine promossa da EURISPES, il gioco pubblico rappresenta la terza industria italiana, dopo l’ENI e la FIAT.  Dai dati disponibili tramite i Monopoli si rileva come nel 2006 gli introiti del gioco ammontassero a circa 15,4 miliardi di euro mentre solo tre anni più tardi fossero già arrivati a 54,4 miliardi per raggiungere i 61 miliardi l’anno scorso e puntare, secondo le stime più attendibili, alla soglia degli 80 miliardi di euro per l’anno 2011.

E’ stato stimato che circa l’80% della popolazione adulta abbia giocato almeno una volta e, secondo una ricerca effettuata a cura di NOMISMA, il 68% dei 950.000 studenti intervistati ha dichiarato di avere giocato d’azzardo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità circa il 3% della popolazione italiana, circa un milione e mezzo di persone, sono a rischio ludopatia e circa 700.000 di essi sono già affetti dalla sindrome del gioco patologico.

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, il gioco d’azzardo patologico è in effetti una “dipendenza senza sostanze” che si caratterizza per la comparsa di fenomeni di tolleranza con un aumento crescente ed incontrollato del desiderio di gioco e di vere e proprie crisi di astinenza. Il soggetto affetto da ludopatia perde così il controllo di sé e la percezione della realtà che lo circonda, arrivando a contrarre debiti che eccedono le proprie capacità reddituali e cadendo facilmente nelle mani degli usurai.

La fascia di popolazione che più frequentemente viene interessata da casi di gioco patologico è quella delle persone di età compresa tra i 40 ed i 55 anni, di estrazione medio-bassa e basso o nullo livello di occupazione; molto spesso in questi casi il giocatore patologico trascina nella propria rovina anche il nucleo famigliare cui appartiene e di cui è sovente unica fonte di reddito. La patologia è tuttavia particolarmente insidiosa anche per le generazioni più giovani in quanto la crescita del fenomeno è, in questo caso, aiutata da forme di propaganda pubblicitaria che presentato il giocatore come un modello di successo ed indicano nel gioco la via per risolvere i propri problemi economici.

“Una potenziale responsabilità è da attribuire ai messaggi che provengono dal mondo dei mass media e della comunicazione – aggiungeva infatti il prof. Sorrentino nel suo intervento al Tempio Adriano a Roma – che promuovono costantemente la cultura del piacere e del gioco, arrivando ad enfatizzare lo stereotipo del vincente, colui che con una puntata coraggiosa può cambiare in un batter d’occhio la sua vita”.

Attesa la pericolosità ed insidiosità del problema, le strategie di prevenzione non possono che passare attraverso una più rigida regolamentazione della disciplina dell’offerta di gioco; è infatti sotto gli occhi di tutti la facilità con cui oggi si possa accedere ai giochi d’azzardo praticamente ad ogni angolo di strada. Vi è da considerare che sono giochi d’azzardo tutti quelli in cui la vincita sia interamente o quasi interamente determinata dal caso (aleatoria) e cioè per esempio il lotto, le lotterie, il bingo, i giochi a base sportiva e gli apparecchi da intrattenimento comunemente conosciuti come slot machinese videopoker.

La diffusione capillare degli apparecchi di gioco, unita alla vasta offerta che giunge via internet,  genera enormi margini di profitto che non potevano non destare l’interesse della criminalità organizzata che del gioco d’azzardo ha fatto il suo ingresso in forze, come testimoniato recentemente dall’attività della Commissione Parlamentare Antimafia.

A questa criminalità “evoluta” va poi aggiunta quella “spicciola” generata dal fatto che molto spesso i locali pubblici che ospitano le slot, al cui interno si trovano di norma alcune migliaia di euro, sono oggetto di raid ladreschi proprio in considerazione della facilità di mettere insieme un discreto bottino con solo qualche minuto di “lavoro”.

L’allarme sociale generato dalle situazioni così delineate avrebbe meritato un attenzione maggiore da parte dell’attuale Governo che, mentre a parole si dice preoccupato del problema ludopatia, nei fatti non cessa di introdurre nuove tipologie di giochi che in realtà altro non sono che fantasiosi strumenti di tassazione indiretta che vanno a colpire, come dimostrato, i ceti più deboli della popolazione.

Ben venga quindi la recentissima proposta di legge presentata al Consiglio Regionale del Veneto per iniziativa del Gruppo consiliare dell’Unione di Centro ed avente come primo firmatario il cons. Stefano Valdegamberi; si propone infatti di vietare l’installazione dei sistemi di gioco d’azzardo elettronico in luoghi pubblici o aperti al pubblico e nei circoli ed associazioni attraverso la modifica dell’art. 110 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, in analogia ad altro provvedimento già approvato dal Consiglio Regionale del Piemonte.

Sarà pur vero, a dar retta a Vespasiano, che “pecunia non olet” ma ogni tanto, se non soccorre il buon senso, almeno valga la vergogna!

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

Commenti disabilitati su Gioco d’azzardo legalizzato, “pecunia non olet”

Ministeri al nord, il governo si arrampica sugli specchi

postato il 29 Luglio 2011

Quando a scuola gli alunni ne combinano una delle loro, questi si dividono in due categorie: quelli orgogliosi della bravata, che aggiungono un nuovo vanto al loro cursus honorum di discoli e quelli che spaventati dalle ire del professore o del preside fanno finta di niente e cercano di nascondersi e di nascondere le prove della colpevolezza. Questa tipica dinamica scolastica si è curiosamente attivata nella già grottesca vicenda del cosiddetto spostamento dei ministeri al Nord.

Il Capo dello Stato, probabilmente dopo aver visto la ridicola inaugurazione di stanze vuote con targhe ministeriali in quel di Monza, ha ritenuto opportuno richiamare all’ordine costituzionale con una durissima lettera inviata al governo dove si spiega che non è pensabile una “capitale diffusa” o “reticolare” diffusa sul territorio nazionale. Scontata la reazione di Umberto Bossi che insieme ai suoi continua a difendere lo spostamento delle targhe sui muri della villa reale di Monza. Ma la reazione più ridicola è stata quella del governo che stretto tra la necessità di dare conto e ragione a Napolitano e di tenere buona la Lega si è praticamente comportato come gli scolari che tentano di giustificare la marachella. E si sa che quando si tenta di giustificare se non ci si è messi d’accordo preventivamente la verità salta fuori.

Il Consiglio dei ministri avrebbe affrontato nella scorsa riunione la vicenda scottante dello spostamento dei ministeri, come recita un comunicato ufficiale di Palazzo Chigi, ma a quanto pare non è stato proprio così dato che alla fine della riunione si hanno diverse versioni:  Maurizio Sacconi ha affermato che non si è trattata la questione in Cdm, Saverio Romano ha detto che ne ha parlato Berlusconi mentre Maria Stella Gelmini ha sostenuto che ha svolto un’informativa Gianni Letta. In tutto questo bailamme la nota quirinalizia diviene pubblica e Palazzo Chigi sforna un’ennesima versione per provare a chiudere la partita: ”in apertura del Cdm – si legge – Berlusconi ha rivolto al Consiglio e ai singoli ministri un pressante invito a tenere in debito conto le osservazioni formulate da Napolitano”.

L’inutile vicenda dei ministeri al nord continua a colorarsi di ridicolo, non solo per i contenuti ma anche per l’atteggiamento di un governo che non riesce nemmeno a prendersi le proprie responsabilità di fronte al Capo dello Stato e all’intero Paese. Vedere un governo che si arrampica sugli specchi per giustificare le pretese di uno dei partiti della maggioranza non è edificante ma la cosa diventa ancora più grave se il Presidente del Consiglio non sente il bisogno di pronunciare una parola di chiarimento, di dettare una linea. Berlusconi sembra aver deciso di  perseguire in quella tattica del “pesce in barile”,  ben descritta da Ugo Magri su “la Stampa”, che alla lunga nuocerà al governo e dunque all’Italia. E questo fa meno ridere.

Adriano Frinchi

Commenti disabilitati su Ministeri al nord, il governo si arrampica sugli specchi

Ministeri, Napolitano interpreta un’esigenza di serietà

postato il 27 Luglio 2011

Il Presidente della Repubblica, preoccupato per l’apertura di sedi decentrate di ministeri, interpreta un’esigenza di serietà avvertita in tutta la nazione.
L’apertura di sedi ieri al nord domani magari nel Mezzogiorno getta sulla politica il discredito finale.

Pier Ferdinando

1 Commento

Formazione e merito, la mia esperienza fra Italia e Francia

postato il 27 Luglio 2011

Sono stato stimolato a scrivere queste mie riflessioni a seguito di un interessante post pubblicato in questo blog riguardante i giovani, il lavoro e le proposte da attuare per migliorare una situazione che è a dir poco drammatica. A fine articolo erano presenti 5 interessanti proposte che, in sintesi, proponevano un premio per gli studenti più meritevoli, convogliare le risorse degli atenei verso gli studenti, migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro per i giovani, diminuire la fuga di cervelli, e sostenere la meritocrazia. Tutte queste proposte sono interessanti ma, prima di tutto andrebbe analizzata meglio la situazione attuale.

Innanzi tutto partirei dalla formazione culturale degli studenti. Io sono un ragazzo del 1985, di una città di provincia, Pistoia. Nella mia città ci sono molte scuole medie superiori tutte differenti tra di loro ma non esiste la possibilità di scegliere più scuole per lo stesso indirizzo (come può avvenire a Firenze o a Roma o comunque nelle grandi città italiane). Io ho fatto il liceo scientifico ed, ahimè, ho impiegato 6 anni per finirlo invece di 5. Il 90% di questo ritardo è dovuto esclusivamente al fatto che non studiavo, che non avevo voglia di studiare ma soprattutto non mi interessava imparare ciò che veniva insegnato in classe. Questo secondo me è un punto importante perché se il 90% delle colpe del mio ritardo sono dovute a cause personali ritengo che il 10% siano da ritrovarsi nell’istituzione scolastica.

Nel mio Liceo di Pistoia, statale, non c’era professore che mi invogliasse a studiare la materia! Dalla mia esperienza, ma confrontandomi con altri miei coetanei ho ritrovato le stesse problematiche, non ho mai trovato un professore a cui importasse veramente insegnare qualcosa ma soprattutto avesse la consapevolezza che il suo lavoro avrebbe influenzato il mio futuro prossimo. Questo probabilmente lo si può spiegare con un concetto molto semplice: mancanza di cambio generazionale. Infatti, e questo secondo me è un paradosso, la mia professoressa di inglese era la stessa di quella di mia madre!!

Un primo fondamentale punto, per migliorare la situazione giovanile, quindi bisogna trovarlo alle basi della formazione più importante di ogni singolo ragazzo, ovvero, dalle scuole medie superiori. Sarebbe il caso di modernizzare la scuola dell’obbligo ma soprattutto cambiare ed invogliare soprattutto i professori che hanno un ruolo fondamentale soprattutto in scuole come i Licei che sono la base dello studio universitario.

Un secondo punto fondamentale su cui concentrare le forze è l’università. Una decina d’anni fa fu fatta la riforma che introduceva la tanto famosa laurea-breve. Per alcune facoltà probabilmente ha migliorato e velocizzato la formazione dello studente ma per la mia facoltà non è utile. Io infatti nell’anno accademico 2005/2006 sono riuscito a passare il test d’ammissione alla facoltà d’architettura di Firenze e mi sono iscritto regolarmente. Non sapevo però che da quel momento sarebbe iniziato un calvario. La mia facoltà infatti è ancora di “vecchio stampo” ovvero è una facoltà, sulla carta, quinquennale. Ho voluto precisare sulla carta perché, dati alla mano, per laurearsi ad architettura a Firenze il tempo medio è 9 anni e mezzo (almeno questo è ciò che c’hanno sempre detto). Io ho appena finito il 6 anno, mi mancano ancora 12 esami che probabilmente riuscirò a finire entro i prossimi 2 anni e, considerando che per una buona tesi serve almeno 1 anno, direi che rientro nella media della mia facoltà.

Ritengo che questo sia assurdo. Non è ammissibile che noi italiani si debba uscire, con un foglio in mano (che non ho chiamato volutamente laurea visto che siamo gli unici al mondo ad avere gli ordini professionali, che sono inutili e quindi quando ci laureiamo siamo dottori in architettura ma non siamo architetti…) se va bene entro i 30 anni mentre i nostri colleghi francesi, tedeschi, spagnoli, sono nel mondo del lavoro da già 4/5 anni. Certo, sarebbe facile dire che il corso è fatto apposta per durare 5 anni e non 9 però, se la media indica questo lasso di tempo per laurearsi un motivo ci sarà, o no? Non credo che la colpa sia solamente degli studenti ma credo che tali colpe siano da ritrovarsi, anche in questo caso, a monte. Nella mia facoltà c’è una disparità enorme tra professore e professore, anche e soprattutto della stessa materia. Le cause, anche in questo caso, sono sia dello studente, diciamo intorno al 60%, ma per il 40% sono da addossarsi ad un sistema universitario che non funziona e che non vuole cambiare.

Nell’anno accademico 2008/2009 ho avuto la fortuna di entrare nel programma Erasmus, con destinazione Parigi. Un sogno, finalmente avevo l’opportunità di uscire di casa per 1 anno e fare una grandissima esperienza, sia sotto l’aspetto umano che scolastico. La vita a Parigi è stata totalmente diversa rispetto alla mia vita italiana. Ma non perché Parigi è una grande città, mentre Pistoia è una semplice città di provincia, ma perché in Francia c’è una mentalità differente, anche opposta rispetto alla nostra. Non voglio parlare dell’integrazione di culture diverse, che è un argomento troppo ampio vasto e complicato (perché anche loro hanno problemi, grandi problemi), ma inizio dicendo che in Francia esiste un sussidio mensile destinato ai ragazzi, alle coppie in difficoltà, alle famiglie in difficoltà, che permette di avere un aiuto economico sicuro.

Per avere tale sussidio bisogna ovviamente essere regolari in Francia, bisogna risiedere in una casa o avere un contratto d’affitto a norma di legge. Per quanto riguarda Parigi tale contributo variava a seconda della grandezza della casa, di quante persone la abitavano, del quartiere dove era situata. Io vivevo nel 12° arr, ho cambiato 2 case ma entrambe erano da circa 30 mq con 3 posti letto. A me, ed ai miei coinquilini, veniva dato un rimborso mensile di circa 150 euro, che sommati alla borsa di studio (scarsa per noi della Toscana, molto alta per i ragazzi della Campania e del Lazio) andavano a coprire quasi l’80% dell’affitto totale. Non è un caso che buona parte degli studenti francesi, finito il liceo (il loro dura anche 4 anni invece che 5) escano di casa per andare a vivere da soli.

Ma le differenze con l’Italia non finiscono qua. Un accenno lo merita anche la rete dei trasporti perché per me, che faccio il pendolare ogni mattina per andare in facoltà, è stato un trauma tornare alla triste realtà italiana. A Parigi infatti con circa 50 euro si compra l’abbonamento per metro, tram, bus, treni metropolitani, chiamati RER (per le zone più lontane il costo, ovviamente, aumenta). La mia facoltà era a 30 km da Parigi, la stessa distanza che c’è tra Pistoia e Firenze. La mattina prendevo la RER, e in soli 20 minuti ero arrivato alla stazione di discesa. In Italia l’abbonamento del solo treno costa quasi 55 euro (aumenta ogni 6 mesi circa), e per fare gli stessi chilometri, nonostante il numero di fermate sia pressoché identico, ci impiego 40/50 minuti, quando non ci sono ritardi. Ovviamente quando arrivo alla stazione di Firenze non sono arrivato in facoltà e, siccome l’eventuale abbonamento del bus costa 20 euro, per risparmiare faccio un tragitto, di circa 20 minuti, a piedi.

Riguardo il costo degli affitti e delle case non ci sto a perdere troppo tempo perché è sotto gli occhi di tutti che qua in Italia sia troppo alto. Se non erro qualche mese fa Report dimostrò come era possibile acquistare una casa, in centro a Berlino, di 30/40 mq, a soli 50.000 euro, mentre una casa, stesse dimensioni in centro a Roma, Milano, Firenze ecc costasse anche 4/5 se non 6 volte tanto! Per gli affitti la situazione è la stessa. L’anno scorso ero interessato ad andare a vivere a Firenze con la mia ragazza ma l’affitto di una casa in centro di 30 mq, 1 stanza da letto + salotto con angolo cottura, era di 1200 euro, troppi anche per una coppia di lavoratori figuriamoci per una coppia di studenti.

In Francia, ma stessa cosa avviene in Inghilterra, il più delle volte gli stages sono pagati, in Italia, almeno nel mio ambito lavorativo, tutto ciò non avviene, anzi, non danno nemmeno il rimborso delle spese di viaggio. A Parigi invece, la prima cosa che offrono, oltre allo stipendio mensile, è l’abbonamento della metro/bus/rer per raggiungere il posto di lavoro rispetto alla propria abitazione.

In Italia, una volta laureato non si può lavorare perché devo prima iscrivermi all’albo di architettura. Per iscrivermi si deve passare l’esame di Stato che si tiene una volta ogni 6 mesi. A Firenze notoriamente passa l’esame di stato meno del 50% degli iscritti.

Sempre in merito alla mia facoltà, quando ero a Parigi, potevo stampare gratis tutte le tavole nella mia facoltà, aFirenze tutto ciò non è possibile. Una stampa di una tavola grande, formato A1, viene a costare anche 15 euro, e a volte si trovano professori che richiedono, solo per l’esame 10/15 tavole. A questo c’è da aggiungere che durante l’anno vanno fatte le cosiddette revisioni, che non sono altro dei momenti in cui il professore riguarda il lavoro dello studente. Siccome i professori spesso non sanno usare il computer pretendono di avere sempre le stampe e a forza di 15 euro ci ritroviamo presto il conto in banca, che già era misero, vicino allo zero. Inoltre, sempre paragonando Parigi a Firenze, l’età media dei professori della mia struttura universitaria, école d’architecture de la ville / des territoires à Marne-la-Vallée, era di poco superiore ai 40 anni, mentre l’età media dei professori di Firenze non è inferiore ai 50/60 anni.

Queste sono solo alcune delle grandi, grandissime differenze che ci sono tra il nostro bellissimo paese e l’Europa. Questo non vuol dire che l’estero, la Francia, la Germania o l’Inghilterra siano paesi paradisiaci, anzi, tutt’altro. Anche loro hanno molti problemi ma permettono di affrontarli in maniera diversa. Da quel che ho potuto constatare c’è stato un ricambio generazionale, quando andavo a lezione in Francia mi sentivo motivato a studiare, mentre quando vado a lezione a Firenze non vedo l’ora di tornare a casa.

Quello che avete proposto voi sono quindi buoni punti di partenza, ma secondo il mio parere bisogna fare molto di più, bisogna intervenire partendo dalla scuola dell’obbligo fino ad arrivare all’università. Bisogna allinearci al resto d’Europa perché tra due, tre anni quando finalmente sarò laureato non avrò nessun motivo per iniziare a lavorare in Italia mentre sarò fortemente invogliato a tornare a Parigi dove sono sicuro di trovare un lavoro che mi permetterà di poter affittare una casa dove stare e di iniziare a costuire una vita tutta mia.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Lorenzo Mazzei

2 Commenti

Ricostruiamo l’Italia sul merito

postato il 26 Luglio 2011

Due milioni di giovani nullafacenti, cinquemila ogni anno lasciano lasciano l’Italia verso gli Stati Uniti o l’Europa centro-settentrionale. Con questi numeri appare evidente che ci stiamo dimenticando di gettare le fondamenta per il nostro futuro, il futuro dell’Italia. La reazione del mondo politico alla cosiddetta “fuga di cervelli” e al mondo della disoccupazione (soprattutto giovanile) è impalpabile.

Solo partendo dal merito e dalle energie più positive l’Italia sarà in grado di tornare a crescere valorizzando i suoi talenti, facendo sì che i giovani meritevoli possano rimanere nel loro Paese, per contribuire all’edificazione della nuova società.

Ecco quindi le proposte:
− premiare gli studenti meritevoli restituendo loro una piccola parte delle tasse versate; tale importo potrà essere utilizzato per aumentare ulteriormente il livello di conoscenza attraverso l’acquisto di libri e o abbonamenti a giornali o attraverso l’iscrizione a corsi di specializzazione post universitari;
− responsabilizzare i singoli Istituti scolastici che dovranno decidere di destinare le risorse disponibili agli studenti davvero meritevoli;
− concretamente, facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro premiando i giovani di talento con una visibilità maggiore ;
− diminuire il fenomeno del “brain drain”;
− simbolicamente, rendere evidente che le Istituzioni tutte credono nella necessità di sostenere il merito.

Clicca qui se credi anche tu che per l’Italia sia fondamentale investire sui giovani e sul futuro. Firmare la petizione.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Andrea Magnano

6 Commenti

Cento metri quadri per tenere insieme la Lega

postato il 25 Luglio 2011

Il Carnevale fuori tempo della Lega ha fatto tappa a Monza, profondo Nord. Nella data storica del 23 luglio 2011 le camicie verdi sono riuscite a portare a casa l’ennesimo successo: il decentramento amministrativo. Si tratta davvero di un successo? A giudicare dagli spazi di cui potranno godere gli ineffabili ministri di economia, riforme, semplificazione e turismo non si direbbe. Cento metri quadri per tre stanzette, una delle quali riservata alla segretaria, l’altra a Bossi, vero dominus e regista dell’operazione, e la terza in condivisione tra Calderoli, Tremonti e la rossa ministra Brambilla. Gli spazi insomma sono strettini, un po’ come è stretta la via in cui la Lega sta esercitando la sua azione politica. I risultati raggiunti dal “partito del Nord” sono stati molto deludenti, il federalismo ha subito una battuta d’arresto con la politica di austerity inaugurata con la manovra, il governo traballa, il Nord produttivo è in affanno e trova nella Lega una voce sempre più debole. Le difficoltà di Bossi e compari sono evidenti, così l’operazione “sposta l’ufficio in provincia” si è resa necessaria. Una Carnevalata estiva che non ha attratto granché i cittadini di una Brianza che bada più alla sostanza che alla forma. Il ministero può stare a Roma, questo pensa la gente, ma non ditelo alla Lega che si illude di “rappresentare gli interessi del Nord”.

Parlavamo di forma e sostanza: entri in questa “grande” sede ministeriale -scrostata, piccola: questione di forma- e ti accorgi che manca qualcosa di indispensabile in un ufficio: il bagno, ma in fondo lì i ministri staranno davvero poco… ci andranno mai?

E tra protagonisti in ritardo, ministri defilati e banconote sventolate a favor di telecamere è stato trasmesso l’ennesimo spot dei leghisti. Uno spot un po’ casereccio, maldestro, ai limiti del grottesco, dove i ministri sono comparse sbiadite e i leader si trasformano in macchiette di provincia. Immagini che celano -neanche troppo bene- il significato profondo di questa operazione commerciale: scongiurare la fine della Lega, un partito screpolato, diviso e ormai incapace di rendere conto ai suoi. Il decentramento amministrativo (se così si può definire l’inaugurazione di queste anguste filiali ministeriali in comunione, che peraltro non apriranno prima di settembre) è vitale per l’Italia? No. È vitale per la Lega? Ovvio che sì. Senza un risultato da esibire come trofeo agli affamati e irrequieti soldati leghisti -altro che pazienza di Giobbe, questi è dal ’90 che si fanno prendere in giro- il generale Bossi e i suoi colonnelli non potranno far altro che recitare il de profundis alla loro Lega e guardare impotenti il Maroni istituzionale, e in buoni rapporti con le altre forze politiche, prendere il sopravvento.

Infine il dubbio: dureranno le “stanzette del potere” di Villa Reale? Un luogo che ricordi ogni giorno alla gente le contraddizioni leghiste forse non fa il gioco di chi lo ha voluto per gli interessi della sua bottega. Ma qui la logica trova ben poca applicazione.

Stefano Barbero


2 Commenti


Twitter


Connect

Facebook Fans

Hai già cliccato su “Mi piace”?

Instagram