postato il 1 Febbraio 2011 | in "Esteri, In evidenza, Riceviamo e pubblichiamo"

Egitto: un faraone in fuga?

Dopo la Tunisia, l’Egitto. E dopo l’Egitto? Questa sembra essere una delle domande più ricorrenti nei dibattiti che coinvolgono gli scienziati politici ma anche sul web. Occorre subito sgomberare il campo da possibili malintesi: l’Egitto non è la Tunisia.

Nonostante la “rivolta dei gelsomini” e il “movimento 6 aprile” abbiano per certi versi delle radici comuni (disoccupazione, carovita, corruzione ….), ben diverse saranno le conseguenze nonché lo scenario politico e strategico che potrebbe delinearsi con un cambio di regime. Il peso specifico dell’Egitto nello scacchiere mediorientale appare sicuramente più determinante nelle relazioni internazionali e il ruolo geopolitico del paese più popoloso del mondo arabo è molto importante per la “stabilità della zona”.

Il rimpasto di governo voluto da Mubarak il 28 gennaio potrebbe rappresentare l’ultimo atto politico del presidente in carica dal 1981. Sulla scia di quanto già accaduto in Tunisia, Mubarak ha nominato un nuovo primo ministro: A. Shafix, un ex militare già a capo dell’aviazione, e un vicepresidente, O. Suleiman, ex-capo dei servizi segreti egiziani. Questa seconda nomina rappresenta una novità nella storia recente dell’Egitto poiché per la prima volta un presidente nomina un suo vice. In ogni caso, questa mossa potrebbe rappresentare un auto-golpe per l’ottantaduenne presidente egiziano: l’esercito infatti comincia a solidarizzare con il popolo e, stando alle ultime dichiarazioni ufficiali, si rifiuterà di sparare sulla folla durante lo sciopero generale indetto per oggi.

Il ruolo dei militari, oltre che della polizia sarà dunque fondamentale per un’eventuale fuga del “faraone” proprio come lo era stato nel caso di Ben Ali in Tunisia. Il bilancio provvisorio parla di 150 morti in tutto il paese a distanza di una settimana dall’inizio delle proteste, ma il popolo egiziano non sembra intenzionato a indietreggiare davanti alle timide aperture e chiede a gran voce la fine del regime di Mubarak del suo partito, il Partito nazionale democratico che domina la scena politica da trent’anni.

Ancora una volta internet è stato il mezzo della rivolta: Twitter, Facebook e i social network fungono da ripetitori della rabbia e alla piazza. Su Facebook è stata creata la Rete Rasd che da voce alla rivolta e serve ad organizzare la protesta: una sorta di “osservatorio della rivoluzione” (rasd in arabo significa, infatti, “monitoraggio”) che trasmetteva notizie fresche e in diretta dalla piazza, minuto dopo minuto, grazie all’uso della rete e dei cellulari.

L’Europa e gli Stati Uniti guardano con interesse e preoccupazione le rivolte in Egitto e dopo le prime dichiarazioni di circostanza e appoggio al presidente Mubarak (Mubarak “amico dell’Occidente”, “garanzia contro il fondamentalismo islamico” e “elemento di stabilità regionale”) mostrano i primi segnali di apertura e chiedono un dialogo con l’opposizione in modo da portare il paese ad elezioni pacifiche attraverso un periodo di transizione. L’Egitto di Mubarak è infatti, da trent’anni, uno stretto alleato degli Stati Uniti (così come lo era stata la presidenza di Sadat dopo la guerra del Kippur). Gli USA hanno sempre spalleggiato l’alleato mediorientale in grado di assicurare la stabilità nella regione e di tenere lontano eventuali rigurgiti fondamentalisti. Perché gli Stati Uniti non sono mai intervenuti, o perché non hanno mai condannato pubblicamente il regime di Mubarak? E perché condannano con così tanta insistenza il regime iraniano mentre hanno taciuto per trent’anni nel caso dell’Egitto? (è interessante a tal proposito l’articolo apparso su Nouvelle d’Orient dal titolo “Egitto-Iran”, due pesi due misure). C’è da considerare il ruolo nevralgico per l’economia globale che l’Egitto ha rivestito, con il passaggio del Canale di Suez, sempre garantito da Mubarak.

La giornalista di Al Jazeera, R. Jordan, riferisce che la Clinton avrebbe esortato Mubarak a considerare l’opportunità di elezioni libere e democratiche ma allo stesso tempo l’avrebbe messo in guardia davanti alla possibilità che si possa creare una situazione simile a quella iraniana.

Il peggiore scenario possibile per gli Stati Uniti sarebbe infatti un governo islamico alleato dell’Iran, ma realmente esiste la possibilità che il fanatismo islamico arrivi al potere in Egitto? Le piazze da una settimana sono gremite di persone di ogni estrazione sociale e religiosa, ricchi e poveri, laici e religiosi, ma soprattutto si tratta di donne e uomini liberi che vogliono riappropriarsi del loro paese. All’interno della società civile emergono poi diversi movimenti che, dal basso, chiedono una rottura con il regime e un cambiamento forte e radicale. I Fratelli Musulmani, il maggiore gruppo di opposizione, e considerati alla stregua dei terroristi, sono rimasti dietro le quinte della protesta.

El Baradei, autorevole personaggio di livello internazionale ed ex presidente dell’AIEA, tornato in patria durante la rivolta, invoca l’intifada fino alla cacciata di Mubarak. Si è unito inoltre alla protesta anche Amr Moussa, segretario generale della Lega Araba, e considerato come un altro possibile traghettatore verso elezioni democratiche.

Le possibilità che gli integralisti islamici prendano il controllo del paese sono molto scarse (preoccupazioni intensificate dopo gli intensificati attacchi ai cristiani, il 15% della popolazione) ma in Israele prendono piede preoccupazioni legate anche a questo eventuale ipotetico scenario. La stabilità nella zona sarebbe infatti a forte rischio così come l’alleanza strategica tra i due paesi dopo la pax degli accordi di Camp David. Israele, nonostante possieda l’esercito meglio preparato del Medio oriente, non vorrebbe arrivare ad uno scontro frontale con l’Egitto ma potrebbe sentirsi minacciato e accerchiato. E se simili rivolte e la stessa ventata di democratizzazione dovesse ripetersi in tutto il Medio Oriente e in Maghreb?

Gideon Levy, sulle colonne di Ha’Aretz, dice che poi verrà il tempo non solamente di Damasco, di Amman, di Tripoli e di Rabat, ma anche di Ramallah e di Gaza. Sono scenari ipotetici che non possono non preoccupare Israele.

Anche l’Europa dovrebbe imparare la lezione, cambiando le sue strategie verso il regime egiziano e il mondo arabo in generale, prima che sia troppo tardi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Shardana

Altri link:

Independent – Robert Fisk: A people defies its dictator, and a nation’s future is in the balance

Liberation – L’armée juge «légitimes» les revendications du peuple égyptien

Della Tunisia avevamo parlato qui ed anche qui.
3 Commenti
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Alessio
Alessio
14 anni fa

Fa tutto parte di una strategia mirata all’islamizzazione del continente africano e la cosa peggiore è che nessuno se ne sta rendendo conto. Se poi prendiamo per buone le dichiarazioni di un certo leader iraniano vediamo che 1+1=2.
Altra cosa che non si riesce a vedere è il possible scacchiere geopolitico teso al controllo del Mediterraneo con Israele oasi in mezzo all’inferno.
Obama farebbe meglio a tenersi Mubarak ma forse è proprio quella la sua intenzione, come fatto in passato da altri Presidenti… spostare il campo di battaglia fuori dal territorio degli USA.

Alessio
Alessio
14 anni fa

Egitto, El Baradei: Se Hosni Mubarak “vuole salvare la pelle, è meglio che lasci subito”.

E questi sarebbero toni da moderati?
Perché non gli facciamo aprire una scuola assieme a Bocchino?

Stefano Tassinari
Stefano Tassinari
14 anni fa

Politica italiana impalpabile, governo disinteressato, troppo preso da Rubygate e Santa Lucia. Ma il nord africa rompe l’equilibrio, 200 milioni di poveri al di là del Mediterraneo, Obama in ritardo più di un treno quando nevica!! Speriamo bene…



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