Nei rapporti con la Libia la mortificazione della nostra politica estera
‘Riceviamo e pubblichiamo’
di Federico Poggianti
Era solo questione di tempo.
La politica governativa sull’immigrazione si è mostrata per quello che è: un buco nell’acqua. O meglio, tanti buchi, ma nello scafo di un peschereccio italiano attaccato da una motovedetta libica.
Donata per giunta dalla nostra Repubblica e sulla quale prestano servizio sei militari italiani della Guardia di Finanza in qualità di osservatori e tecnici.
La cessione di questo tipo di mezzi militari è stata resa esecutiva dal famigerato Trattato d’Amicizia Italo-Libico, dopo che l’Unione Europea votò nel 2004 all’unanimità il ritiro dell’embargo statunitense che dal 1986 proibiva la vendita di materiale ad uso militare alla Jamāhīriyya libica.
Fu con Bush e la guerra al terrorismo e con una teatrale rinuncia di Gheddafi alla costruzione di armi atomiche (che peraltro difficilmente avrebbe potuto produrre), che si ebbe una frettolosa riabilitazione dell’immagine del Paese nordafricano sullo scenario internazionale.
Tuttavia l’incidente in cui hanno rischiato la vita i marinai italiani presenti a bordo, getta nuove ombre sulle reali modalità con cui questi controlli congiunti vengono svolti e sul reale impiego di mezzi che come il già citato Trattato prevede, sono adibiti al “controllo ed al soccorso degli immigrati clandestini”.
Al netto dell’incidente, sorge una terribile domanda: e se si fosse trattato di un imbarcazione di clandestini, la motovedetta avrebbe aperto il fuoco col rischio di uccidere anche decine di innocenti?
Possiamo realmente avvallare questo tipo di “controlli”?
Certamente, come ben ricordava il ministero degli Interni, il comando è in capo ai libici. Ma questo non dispensa di certo i nostri militari dalle leggi del proprio Paese. Che di certo, se non ricordo male, non prevedono di aprire il fuoco su dei migranti che potenzialmente potrebbero anche aver diritto d’asilo.
La partita si gioca però anche su un altro piano, prettamente economico.
In ballo c’è lo sfruttamento della pesca nel Golfo della Sirte, che i libici rivendicano come proprio, pur non avendo mai ottenuto il riconoscimento della comunità internazionale né avendo mai ratificato la Convenzione dell’O.N.U. sul diritto del mare.
Non è il primo caso a cui assistiamo nel quale vengono sequestrati pescherecci battenti bandiera italiana; l’ultimo ed il più eclatante si è consumato nel giugno di quest’anno: tre motopescherecci sono stati sequestrati e rilasciati solo dopo l’intervento del capo del Governo.
Resta aperta la domanda sulla legittimità dei mezzi impiegati per contrastare questo flusso di disperati, l’affidabilità dei libici e il reale ruolo degli italiani a bordo di queste motovedette.
Ancora una volta un avvenimento che poteva trasformarsi in tragedia grida a gran voce la necessità di rivedere i rapporti con il leader di un Paese che non ha mai mostrato rispetto per i diritti umani.
La fornitura di mezzi navali avanzati assieme ad ulteriori armamenti, aprono anche la questione sulla opportunità di fornire tecnologie belliche all’avanguardia ad uno Stato che oltre a non far parte di alcuna Organizzazione di cooperazione o di sicurezza con altri Paesi europei, si sta dimostrando determinato sino all’ostilità aperta nel difendere i propri interessi economici in un tratto di mare che solo la Libia stessa considera di propria competenza.
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